Tra Salento e Italia: gli studi sul Novecento letterario di Gino Pisanò

Nel suo primo libro[1], emergono già le due figure di letterati ai quali egli ha rivolto la maggiore attenzione nel corso della sua attività di ricerca: Luigi Corvaglia e Girolamo Comi. Ad essi, peraltro, qualche anno prima, aveva già dedicato un articolo, in cui si era soffermato sul sodalizio che li legò e che culminò nella partecipazione del primo all’Accademia salentina fondata da Comi[2].  Nel quarto e nel quinto dei saggi compresi nel libro (Carteggio inedito tra Bruno Nardi e Luigi Corvaglia per l’identità Scaligero-Bordone e Tommaso Fiore e Luigi Corvaglia attraverso lettere inedite), Pisanò si sofferma su Corvaglia, uno degli intellettuali più rappresentativi del Novecento salentino, del quale, insieme alla figlia dello scrittore e saggista, Maria, ha curato la pubblicazione di due dei quattro volumi che compongono il suo lavoro principale in campo filosofico, Le Opere di Giulio Cesare Vanini e le loro fonti[3].

Nel primo di essi, in particolare, basandosi appunto sulla consultazione dell’archivio di Corvaglia, prende in considerazione il carteggio inedito intercorso con l’illustre dantista e storico della filosofia Bruno Nardi a proposito del problema rappresentato dall’identificazione del filosofo cinquecentesco Giulio Cesare Scaligero con Giulio Cesare Bordone. Dalle lettere pubblicate, annotate sempre puntualmente da Pisanò, emerge un esempio mirabile di collaborazione scientifica ad alto livello, sorta e sviluppatasi unicamente per amore della cultura. Significativo, ad esempio, è il fatto che Nardi metta a disposizione dell’amico documenti e osservazioni che, d’altra parte, Corvaglia, con esemplare correttezza, rifiuta di fare propri.

Lo scambio epistolare con un altro protagonista della cultura e della vita civile pugliese del Novecento come Tommaso Fiore delinea invece la storia d’un’amicizia fra due forti personalità, delle quali restano impresse soprattutto la tempra morale e la coerenza con le proprie idee. Significativa, a questo proposito, il seguente brano di una lettera del Corvaglia risalente al 1944-’45, riportata nel libro, che è sempre di grande attualità: «Grande è il carico di misantropia, di diffidenza, di disdegno verso il mio prossimo per averlo visto così servile, e vivo mi resta il terrore di confondermi nella gazzarra dei predoni intenti a dare l’assalto alla nuova diligenza»[4].

In questo volume è presente anche un intervento dedicato a un letterato salentino di fine Ottocento, Giacomo Arditi, del quale  Pisanò traccia un esaustivo ritratto (Giacomo Arditi letterato tra Romanticismo e Positivismo), facendo ricorso a svariati strumenti interpretativi che vanno dall’esame delle componenti ideologiche delle opere alla ricerca delle fonti, dalle osservazioni erudite all’analisi tecnico-formale. Questo scrittore viene collocato sulla linea di coloro i quali, come il Ferrari e il Tasselli e prima ancora il Galateo e il Marciano, descrissero il Salento per accreditare ad esso, dinanzi alla Nazione, ai tempi dell’Arditi ormai definitivamente costituita, «un ruolo dignitoso e confacente alle sue tradizioni»[5]. Autore di due notevoli opere di erudizione locale, quali La Leuca salentina (1875) e La corografia fisica e storica di Terra d’Otranto (1879-1885), l’Arditi coniugava il gusto positivistico della ricerca con la passione romantica per la storia, per il passato, per le tradizioni popolari. Nella Leuca salentina, in particolare, lo scopo principale è quello educativo, che emerge, secondo lo studioso, «nella ricerca collettiva dell’identità etnica, culturale, civile della piccola patria salentina, tessera a sua volta della Patria più grande»[6]. Poco aggiungono, invece – ci sembra – alla figura dell’Arditi altri scritti, ai quali pure Pisanò presta attenzione: l’abbozzo del giovanile romanzo inedito, Due notti sul campo di Waterloo, attardato esempio di gothic novel, debitore di numerosi modelli italiani e stranieri, e le mediocri composizioni letterarie, utili, tutt’al più, per conoscere meglio la posizione politica del loro autore.

L’ultimo saggio del libro (L’Accademia salentina attraverso inediti) è l’accurata ricostruzione, qui attuata per la prima volta nelle linee essenziali, attraverso i documenti rinvenuti presso l’archivio di Palazzo Comi di Lucugnano, di un singolare episodio della cultura letteraria salentina del secolo passato: la vicenda dell’Accademia fondata dal poeta Girolamo Comi nel 1948, che raccolse studiosi, scrittori e artisti sparsi per l’Italia (da Oreste Macrì a Maria Corti, da Mario Marti a Luciano Anceschi, da Rosario Assunto ai pittori Vincenzo Ciardo e Ferruccio Ferrazzi, dallo stesso Corvaglia a Michele Pierri e ad altri ancora) accomunati da un’idea di letteratura e di arte come integrale impegno e testimonianza umana. L’Accademia – come chiarisce Pisanò ‒ si proponeva di dare un contributo alla rinascita culturale del territorio ma non trascurava nemmeno l’aspetto sociale, anche attraverso l’istituzione di premi riservati a insegnanti e borse di studio per gli studenti più meritevoli. Alla base di essa ‒  scrive ancora lo studioso ‒ c’era «il mito umanistico dell’intelligenza, ma soprattutto il culto dello Spirito, della sua vita cosmica che solo la poetica del verbo può attingere nell’ascensus mistico-poetico»[7].

Servendosi dei verbali stesi dalla Corti, contenuti in un Album conservato appunto presso l’archivio di Casa Comi, egli  passa puntualmente  in rassegna i vari convegni del sodalizio nel corso dei quali venivano affrontati temi di carattere religioso, estetico, letterario.  L’Accademia – precisa Pisanò ‒ si estinse il 25 aprile 1953 (l’ultima riunione è quella del 28 dicembre 1954), a causa delle difficoltà economiche di Comi dopo il fallimento dell’oleificio che aveva fondato, ma anche dell’allontanamento di alcuni soci alcuni dei quali avevano difficoltà a  raggiungere Lucugnano per via dell’eccentricità geografica. Da essa derivò, come frutto più duraturo, «L’Albero», che «di quella felice stagione dell’Accademia raccoglieva l’eredità e ne perpetuava la consegna di una nobilissima concezione della vita e dell’arte»[8], contribuendo altresì a tenere desti i rapporti tra il Salento e il resto della nazione, in un’ideale continuità con altre esperienze precedenti.

Proprio all’«Albero» è dedicato un altro lavoro di Pisanò, l’antologia dei primi cinque anni di vita della rivista (1949-1954)[9] che, sempre sotto la direzione di Comi, andò poi avanti fino al 1966, prima di essere ripresa da Macrì e Valli nel 1970, dopo la morte del poeta. In questo periodo, però, in cui era una sorta di bollettino dell’Accademia, essa, secondo Maria Corti che firma la premessa al volume, si segnalò «veramente per qualcosa di nuovo nella cultura nazionale»[10]. Nella sua Notizia storica sull’«Albero e sull’Accademia salentina, Pisanò ripercorre attentamente la nascita e le vicende della rivista, rinvenendone l’origine nel modello del fiorentino «Frontespizio», come d’altra parte aveva già notato Carlo Betocchi in una lettera a Comi del 1957. Successivamente suddivide in quattro «aree semantiche» il materiale antologizzato, secondo un «canone tutto suo», come egli scrive nell’Avvertenza [11].

La prima area, dal titolo «Lo spazio creativo», comprende testi in versi e in prosa e numerose traduzioni, i quali «sono il segno più marcato del carattere nazionale dell’“Albero” ossia dell’aspirazione a cogliere nel suo seno voci della cultura italiana ed europea»[12]. In questa sezione, infatti, oltre a Macrì, Corti e Pagano, si trovano i testi di alcuni dei più noti esponenti della letteratura contemporanea: da Mario Luzi a Giorgio Caproni, da Giorgio Vigolo a Luigi Fallacara, da Carlo Betocchi a Gianna Manzini. La seconda, «La riflessione sulla letteratura», nella quale figurano saggi e studi di Macrì, Marti, Corti, Anceschi, Betocchi, Falqui e altri ancora, dimostra che la «radice frontespiziana fu anche il germe da cui nacque “L’Albero”»[13], nonché la sua «vocazione europeista»[14]. Nella terza, «L’esperienza filosofica», emerge la «linea spiritualistica»[15] che in quasi tutte le sue componenti caratterizza la rivista comiana, anche se sulle sue pagine sono presenti anche riferimenti a «problemi epocali di più avvertita e attuale natura»[16]. La quarta area, infine, «Il dibattito religioso», testimonia «il pluralismo delle culture rappresentate ossia la libertà di operare, “a seconda delle convinzioni e delle possibilità” (Accrocca) di quanti in quegli anni si riconobbero nel progetto comiano di un nuovo e integrale umanesimo»[17]. Ciascuna di queste sezioni è introdotta da alcune pagine del curatore, nelle quali egli presenta i testi con profonda adesione e sicura competenza.

Ma Pisanò ha dedicato anche altri interventi all’autore di Spirito d’armonia, del quale, attraverso la pubblicazione di alcune lettere e di scritti inediti ritrovati presso l’archivio dello scrittore, ha messo in luce i rapporti intercorsi con alcuni importanti letterati del Novecento, come Sibilla Aleramo[18], Alfonso Gatto[19], Giorgio Caproni[20], Giuseppe Ungaretti e Eugenio Montale[21]. Inoltre, in un denso saggio apparso nel volume degli Atti del Convegno di studi sul poeta, tenutosi nel 2001, si è soffermato sul  segno del fuoco nella poesia di Comi, chiarendone il significato all’interno della sua particolare concezione orfica, attraverso numerosi riferimenti letterari, filosofici e religiosi[22]. Questo segno gli permette anche di verificare, con la metamorfosi che esso subisce nel corso del tempo, la linea evolutiva della poesia comiana che così sintetizza: «dal fuoco stigma dell’orgoglio panteistico, panico, sensuale, ‘rutilante’ dell’io» della prima fase,  «al fuoco della charitas, della catarsi, dell’umiltà»[23] presente nell’ultima raccolta, Fra lacrime e preghiere.

Di un altro scrittore salentino del Novecento, Michele Saponaro, noto in campo nazionale,  nel periodo tra le due guerre, come narratore e successivamente autore di numerose biografie, Pisanò si è occupato in occasione di un altro Convegno di studi, organizzato dallo scrivente nel 2010. Qui, in particolare ha trattato, con la consueta acribia, di un aspetto minore dell’ampia attività letteraria di Saponaro, cioè della produzione poetica, che si è svolta in due periodi ben distinti (1906-1909 e 1944-1947). Ebbene, nei componimenti della prima fase egli ha rinvenuto risonanze carducciane, non solo tematiche ma di ordine metrico-prosodico, cogliendo in essi, come nella narrativa e nel teatro, una costante, «il mito femminile e lo spazio domestico evocato con cuore di esule  o di figlio lontano»[24].  Nelle poesie degli anni Quaranta notava, invece, «una tendenza a ripiegarsi su se stesso, a ritrovare, a recuperare come il Caproni del Seme, purezza e innocenza che, come il canto, possano consolare e mondare, insomma alleggerire il presente nella dissolvenza della poesia»[25]. Da qui la prevalenza, in queste ultime, dei toni elegiaci e intimistici e uno stile più discorsivo presente in esse.

Ma Pisanò si è interessato anche di altri narratori e poeti salentini contemporanei, scrivendo le prefazioni ad alcune opere o dedicando loro vari interventi[26]. Tra questi, ricordiamo almeno Donato Moro, Giulia Licci, Vittore Fiore, Ercole Ugo D’Andrea, Maria Siciliano Insalata, Piero Pellegrino. In questo ambito non ha trascurato i poeti dialettali, in particolare i più significativi di essi come Nicola De Donno, Erminio G. Caputo e Rocco Cataldi. E, tra i suoi lavori, non manca nemmeno uno studio sul romanzo più noto di Maria Corti, ambientato a Otranto, L’ora di tutti.

In altro volume di saggi[27], egli continuava nell’esame della fitta rete di rapporti intercorsi tra scrittori salentini del Novecento (qui oltre a Comi, anche Vittorio Pagano) e figure di rilievo della cultura letteraria italiana contemporanea. In particolare, nel primo saggio, si soffermava sul sodalizio fra Comi e Carlo Betocchi, il quale all’inizio, in una recensione della raccolta Cantico dell’argilla e del sangue, apparsa sul «Frontespizio» nel 1934, espresse qualche riserva sulla poesia comiana, sulla quale pesavano – come scrive giustamente Pisanò ‒ «le ipoteche di orfismo panico, di sensualismo estetizzante, di terrestrità voluttuosa, di superomismo anarchico»[28], non particolarmente congeniali al cattolicesimo di Betocchi. Successivamente però, si rivela «una consonanza di sentimenti e di idee»[29] che unisce i due letterati, al punto che il poeta piemontese-fiorentino invitò Comi a collaborare al «Frontespizio», mentre a sua volta questi invitò l’amico a collaborare all’«Albero». Nel saggio però l’autore non si limita a esaminare questo importante sodalizio, ma illustra anche le caratteristiche della produzione in versi e in prosa di Comi degli anni Trenta nei suoi rapporti con l’ambiente fiorentino del «Frontespizio», all’interno del quale il poeta salentino entra in contatto anche con il direttore, Piero Bargellini, e un collaboratore, il poeta barese Luigi Fallacara. Alla fine propone una periodizzazione della complessa poesia comiana in tre momenti: «Dopo i tempi dell’orfismo panteistico (1912-1932) e dell’ermetismo ontologico (1932-1954), quello del neostilnovismo e del misticismo […] che durerà fino alla morte del poeta»[30].

Oltre che con Comi, Betocchi, tramite Oreste Macrì, entrò in rapporto anche con un altro letterato salentino, Vittorio Pagano, definito da Pisanò «superstite poeta maudit-ermetico-simbolista»[31], del quale traccia, nel secondo saggio del libro,  un sintetico profilo dell’attività letteraria, sostenendo che occorre «partire dal traduttore per giungere al poeta»[32]. Betocchi, che collaborò anche alle pagine letterarie del «Critone» curate da Pagano, lo stimava sia come poeta che come traduttore, come si può rilevare dalle lettere pubblicate in appendice del saggio, dalle quali emerge «un microcosmo d’affetti e d’idee utili a chiarire storia e natura del legame che unì Betocchi al Salento»[33].

Due capitoli del libro sono dedicati a un altro dei principali poeti italiani del secondo Novecento, Giorgio Caproni, del quale, nel primo, si mette in luce la collaborazione ad alcune riviste salentine, da «Libera Voce» all’«Albero», dall’«Esperienza poetica» al «Critone». In queste sedi egli pubblicò diverse liriche attraverso le quali è possibile – secondo Pisanò ‒ «cogliere la linea evolutiva dell’arte del poeta dal ’43 al ’56»[34]. Ma di Caproni l’autore del libro esamina, nel quarto saggio, una delle più note raccolte, Il seme del piangere, in cui il poeta livornese «tenta e realizza la recherche del fantasma materno»[35]. Anche ora il critico, per delineare il rapporto con Pagano, si serve delle lettere inviategli da Caproni, che pubblica in appendice.

In questo libro Pisanò rivolge un’attenzione particolare a Oreste Macrì, qui visto però non nella sua veste di critico ma in quella di scrittore, prendendo in esame il suo «spazio creativo», cioè la sua attività di narratore e di poeta. Quest’ultima, in verità, è limitata a un sonetto, ritrovato manoscritto sui fogli dell’Album dell’Accademia salentina, in cui «si ravvisa per la prima volta – a giudizio dell’autore – in senso assoluto, l’archetipo della dimora vitale salentina»[36].  Delle prove narrative del critico magliese-fiorentino, scritti in tempi diversi, egli mette in rilievo, invece, alcune caratteristiche, come la vena umoristica, l’ironia e l’autobiografismo. Ma per quanto riguarda questo aspetto dell’opera di Macrì, bisogna segnalare la cura del libro Le Prose del malumore di Simeone,[37] una raccolta di dodici estrosi racconti letti criticamente da Pisanò uno per uno. L’ultimo articolo del volume, infine, riguarda un giovane poeta salentino, morto suicida, Stefano Coppola, del quale egli prende in esame la raccolta postuma, Poesie scelte, apparsa nel 1992 a cura e con Introduzione di Macrì.

Nel suo ultimo libro[38], tre dei nove saggi affrontano figure e aspetti della letteratura salentina del ventesimo secolo, anche se, a dire il vero, uno di questi, dal titolo Giuseppe Gigli scrittore di cose manduriane, è dedicato a un poliedrico letterato che visse tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Nel 1999 a Gigli venne dedicato a Manduria, dove nacque,  un Convegno da cui deriva questo lavoro, già inserito nei relativi Atti apparsi nel 2001. In quell’occasione vennero affrontati i vari aspetti dell’opera di Gigli, che, oltre che poeta, è stato anche  narratore, critico letterario, studioso di storia locale e di folclore. In quell’occasione Pisanò si occupò di Gigli storico della cultura locale e, in particolare, di una sua opera, Scrittori manduriani, pubblicata a Lecce nel 1888 con una prefazione di Cosimo De Giorgi e in seconda edizione a Manduria nel 1896, accresciuta di nuovi profili.

            Quest’opera, infatti, comprende una galleria di ritratti di scrittori nati a Manduria dal XVI al XVIII secolo (da Antonio Bruni a Ferdinando Donno, da Tommaso Maria Ferrari a Giuseppe Pacelli, da Giovanni Leonardo Marugi  a Serafino e Marco Gatti). Ebbene,  Pisanò fa notare che Gigli si dedica a questo lavoro dietro l’invito che Carducci aveva rivolto agli studiosi italiani di occuparsi delle letterature provinciali, delle tradizioni popolari regionali, prima di dar vita a una «compiuta storia nazionale». E in effetti Gigli studia questi fenomeni non con spirito campanilistico ma con una precisa coscienza metodologica, in quanto egli – come sostiene giustamente l’autore del saggio –  appartiene a una generazione di studiosi salentini che si dedicarono alla storia patria sull’esempio di altri che li avevano preceduti, come Arditi, Castromediano e De Simone. Con Gigli e gli altri della sua generazione siamo in pieno positivismo e il loro metodo è basato sulla scrupolosa ricerca delle fonti, degli scavi negli archivi e nelle biblioteche, come scrive anche De Giorgi nella sua prefazione.

Pisanò quindi si sofferma sulla genesi dell’opera, anche attraverso il Carteggio inedito di Gigli pubblicato da Luigi Marseglia nel 1983, e sulla sua struttura. In particolare,  accenna ai profili di Pacelli e Marugi. Il primo, accusato di plagio da quest’ultimo, venne riscoperto e apprezzato proprio da Gigli e dal De Giorgi, anche perché aveva dato un esempio importante ai due, quello di lavorare in silenzio per la propria terra, al contrario del Marugi sul quale, secondo Pisanò,  prevaleva la vanità e il culto del particolare, e non lo spirito patriottico. D’altra parte, il carattere ‘civile’ dell’opera del Pacelli si trasmette, a giudizio del critico, anche a quella dello stesso Gigli.

Dopo gli Scrittori manduriani, Pisanò  accenna anche ad altri lavori di storia locale dello studioso tra i quali spiccano il volume Superstizioni, pregiudizi e tradizioni in Terra d’Otranto, ristampato nel 1998, e la cura, nel 1915, di un’opera di Marugi, i Capricci sulla jettatura (1788).

Il primo contributo novecentesco, vero e proprio, di questo libro è intitolato Da «Fede» a «Vedetta»: cultura e ideologia nella stampa periodica del ventennio fascista ed è un panorama della pubblicistica salentina dal 1923 al 1943, un ventennio esatto appunto. Non è questo, in verità, un argomento completamente nuovo, in quanto già nel 1970 Donato Valli se n’era occupato nel  volumetto La cultura letteraria del Salento (1860-1950), che nel 1985 venne ripubblicato, notevolmente ampliato, col titolo Cento anni di vita letteraria nel Salento (1860-1960). Poi c’erano stati altri lavori che avevano affrontato questa materia da diversi punti di vista e precisamente: Stampa e società nel Salento fascista di Ettore Bambi (1981) e Il fascino di Medusa. Per una storia degli intellettuali salentini tra cultura e politica (1848-1964)  di Franco Martina (1987). 

Nel suo volume però Valli si era soffermato quasi esclusivamente sull’aspetto letterario della stampa periodica salentina. Qui Pisanò allarga lo sguardo anche ad altre componenti presenti in essa  come l’ideologia, la politica, la storia locale e quindi prende in esame non solo i periodici o le pagine dei periodici di carattere letterario, ma anche altri tipi di riviste, partendo proprio dal quindicinale «Fede», fondato da Pietro Marti nel dicembre 1923.

Pietro Marti è una figura significativa della cultura salentina del ‘900. Storico, giornalista e fondatore di giornali, direttore della Biblioteca provinciale di Lecce, fu anche, com’è noto, l’avo materno di Vittorio Bodini che da giovane studente gli era molto legato. Fondando «Fede», Marti auspicava un rinnovamento della cultura e dell’«anima pugliese». Nell’editoriale del primo numero – sottolinea Pisanò –  riviveva «la superba fede in una completa valorizzazione delle molteplici attività di pensiero e di lavoro»[39] della regione e della provincia. In realtà su questa rivista si sviluppò un dibattito un po’ confuso su temi di natura politico-sociale misto a ricerche di carattere erudito, mentre del tutto trascurabile è l’aspetto specificamente letterario. Il momento più interessante della rivista è rappresentato forse dalla polemica di carattere politico tra Ernesto Alvino e Giovanni Monaco con al centro  la questione meridionale, su cui si sofferma il critico.

Dopo «Fede», egli passa in rassegna altri periodici di vario genere, come l’Almanacco «Il Salento» di Gregorio Carruggio (1927), «Rinascenza salentina» (1933) di Nicola Vacca e «Vecchio e Nuovo» di Ernesto Alvino (1930-31; 1932), che si apre al futurismo e dove fa il suo esordio Bodini che collabora pure a un altro settimanale di Marti, «La Voce del Salento». E dal 1932, a mio avviso, si deve partire come inizio della nuova stagione della letteratura salentina, perché Bodini e il futurismo portano un po’ di aria nuova nell’asfittico ambiente culturale leccese. Successivamente bisognerà aspettare il 1941 per avere un altro periodico significativo in campo letterario e cioè  «Vedetta Mediterranea»,  fondata e diretta da Alvino, con la ‘terza pagina’, di carattere ‘ermetico’, curata da Bodini e Oreste Macrì, a cui collaborarono scrittori e critici di primo piano come Alfonso Gatto, Nicola Lisi, Piero Bigongiari, Vasco Pratolini, Leonardo Sinisgalli, Vittorio Sereni, Girolamo Comi. E con questo settimanale si conclude l’ampio panorama tracciato da Pisanò.

Nell’altro saggio novecentesco, Un santo del Seicento: Giuseppe da Copertino (nella ‘lettura’ di Silone, Bene, Bodini, Prete), lo studioso prende in esame l’interpretazione che di questa singolare figura di Santo hanno dato alcuni scrittori contemporanei, salentini e non, approfondendo in particolare con svariati riferimenti filosofici e letterari quella data da Carmelo Bene. Il primo di questi scrittori, Ignazio Silone, ne parla nel suo romanzo più famoso, Fontamara, facendone «un emblema pauperistico e  “universale fantastico” della condizione sociale subalterna»[40], quella dei «cafoni» abruzzesi. Nell’opera di Vittorio Bodini, invece, S.  Giuseppe, del quale lo scrittore leccese  delinea la figura in un brano dello Zibaldone leccese, ancora in parte inedito, è  – secondo Pisanò  –  «emblema folkoristico-surreale-antropologico»[41] . A San Giuseppe, com’è noto, è ispirata anche  una lirica, composta da un solo verso, della raccolta La luna dei Borboni, del ‘52 («Un monaco rissoso vola tra gli alberi»), che fa parte della sezione Foglie di tabacco

 Per Carmelo Bene, che gli ha dedicato A boccaperta  (1976), ma che lo rievoca anche in Sono apparso alla Madonna, San Giuseppe è una proiezione autobiografica. Egli infatti  – sostiene il critico giustamente –  proietta e metaforizza  «nell’alterità del Santo, la propria condizione di diverso, la propria identità anarchico-ribellistica, il proprio disagio esistenziale, a fronte di una provincia, quella leccese, nella quale nulla gli sembrava cambiato rispetto al Seicento»[42].  Antonio Prete, infine, il raffinato saggista e traduttore di Copertino, ne tratta  in una breve prosa,  Portenti di Fra’ Giuseppe, che fa parte del libro L’imperfezione della luna (2000). Anche qui c’è un carattere autobiografico della rievocazione che è anche, a giudizio di Pisanò, una personale recherche del tempo perduto.

[In “Qui dove aprichi furono i miei giorni”. La luminosa humanitas di Gino Pisanò, a cura di F. D’Astore e M. Spedicato, Lecce, Edizioni Grifo, 2019; poi in A. L. Giannone, Scritture meridiane. Letteratura in Puglia nel Novecento e oltre, Lecce, Edizioni Grifo, 2020]


[1] G. Pisanò, Lettere e cultura in Puglia tra Sette e Novecento (Studi e testi), Galatina, Congedo, 1994,

[2] Id., Girolamo Comi e Luigi Corvaglia fra teologia e misticismo, in «Nuovi Orientamenti Oggi», a. XIX, n. 106-111, settembre-ottobre 1988, pp. 21-24. Ma su Corvaglia e i rapporti con altri intellettuali italiani cfr. anche Giovanni Gentile inedito: lettere a Luigi Corvaglia in margine alla questione vaniniana, in «Otto/Novecento», a. X, n-5-6, sett-dic. 1986, pp.117-136; Fra Vanini e Scaligero. Antonio Corsano e Luigi Corvaglia in un carteggio inedito, in «Presenza Taurisanese», ottobre 1989, pp. 5-7

[3] L. Corvaglia, Le Opere di Giulio Cesare Vanini e le loro fonti, a cura di M. Corvaglia Aprile e G. Pisanò,  III vol. in tre tomi, con una Premessa di G. Pisanò,, Galatina, Congedo, 1991; IV vol., con una Premessa di G. Pisanò, ivi, 1994.

[4] G. Pisanò, Lettere e cultura in Puglia tra Sette e Novecento (Studi e testi), cit., p. 131.

[5] Ivi, p. 58.

[6] Ivi, p. 71.

[7] Ivi, p. 139.

[8] Ivi, p. 147.

[9] L’Albero. Rivista dell’Accademia Salentina. Antologia 1949-1954, a cura di G. Pisanò, con una premessa di M. Corti, Milano, Bompiani, 1999.

[10] Ivi, p. XI.

[11] Ivi, p. XIII.

[12] Ivi, p. 3

[13] Ivi, p.141.

[14] Ivi, p. 143.

[15] Ivi, p. 289.

[16] Ivi, p. 291.

[17] Ivi, p. 368.

[18] Cfr. G. Pisanò, Sibilla Aleramo: tre lettere inedite (in margine a G. Comi), in “Nuovi Orientamenti Oggi”, a. XXI, n.18, gennaio-febbraio 1990, pp. 3-10.

[19] Cfr. Id., A proposito di Comi. Inediti salentini di Alfonso Gatto, in “Sud Puglia, Rassegna Trimestrale della Banca Popolare Sud Puglia”, a. XVI, n. 2, giugno 1990, 1990, pp. 103-110.

[20] Cfr. Id., Lettere inedite di G. Caproni a G. Comi, in «Sud Puglia, Rassegna Trimestrale della Banca Popolare Sud Puglia», a. XVII, n. 1, marzo 1991, pp. 121-131.

[21] Cfr. Id., Asterischi comiani. Lettere inedite di Ungaretti e Montale, in «Sud Puglia, Rassegna Trimestrale della Banca Popolare Sud Puglia», a. XVII, n.3, settembre 1991, pp. 82-90.

[22] Cfr. Id., Il segno del fuoco nella poesia di Comi, in Girolamo Comi, Atti del Convegno internazionale, Lecce-Tricase-Lucugnano, 18-20 ottobre 2001, a cura di P. Guida, Lecce, Milella, 2002, pp. 359-387.

[23] Ivi, p. 362.

[24] Id., Michele Saponaro poeta, in Michele Saponaro cinquant’anni dopo, Atti del Convegno internazionale di  studi (San Cesario di Lecce-Lecce, 25-26 marzo 2010), a cura di A. L. Giannone, Galatina, Congedo, 2011, pp. 285-297; la citazione è a p. 290.

[25] Ivi, p. 294.

[26] Per i riferimenti bibliografici di questi interventi si veda in questo volume la Bibliografia diacronica degli scritti di Gino Pisanò, a cura di P. Vincenti.

[27] Id., Il sodalizio Betocchi- Comi e altro Novecento. Caproni, Macrì, Pagano, Coppola, Galatina, Congedo, 1996.

[28] Ivi, p. 8.

[29] Ivi, p. 13.

[30] Ivi, p. 29.

[31] Ivi, p. 42.

[32] Ivi, p. 43.

[33] Ivi, p. 52.

[34] Ivi, p. 88.

[35] Ivi, p. 93.

[36] Ivi, p. 144.

[37] O. Macrì, Le prose del malumore di Simeone, raccolte e interpretate da G. Pisanò, Lecce, Agorà Edizioni, 1995.

[38] G. Pisanò, Studi di Italianistica fra Salento e Italia secc. XV-XX, con una Presentazione di M. Spedicato e una Prefazione di M. Marti, Galatina, Edizioni Panico, 2012.

[39] Ivi, p. 118.

[40] Ivi, p. 33.

[41] Ibid.

[42] Ivi, p. 44.

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