Non è più usuale che nelle stazioni dell’Italia di questi anni resi così inospitali ci sia un tavolo di legno (vecchio di molti anni, magari con il piano rigato e scheggiato, ma dignitoso) su cui i viaggiatori possano appoggiare un cartoccio con il cibo per il viaggio o per la sosta, oppure scrivere qualcosa in un quaderno, i bambini mettersi a disegnare o a far correre macchinine di latta: nell’autoritratto lo spicchio di tavolo che si dà a vedere (è uguale a quello che aveva in casa la maggior parte dei nostri nonni) forse suggerisce che più in là, sulla parte non visibile, c’è la borsa con i rullini e le macchine fotografiche, il bloc notes e le matite, qualche libro (il Leopardi, il Pascal che Ghirri aveva fotografato nella camera da letto di Giorgio Morandi a Grizzana?)
Il tavolo coperto con il foglio di carta fissato con le puntine metalliche e segnato con la matita e macchiato di colori e coperto in parte di bottiglie e ciotole nello studio di Morandi: avevano aspettato Ghirri, lo avevano accolto in quella luce monacale, poi gli si era rivelato anche il bianco del capezzale del letto e il bianco della parete – lo sapeva, sì, lo sapeva che il silenzio eloquente di molti luoghi d’Italia (il silenzio di fuori) corrispondeva al silenzio di quella pittura e di quella vita, di quella sapienza.
Niente di meno fotografabile di questo paesaggio, per la sua piattezza e uniformità fino alle frange di terra che si spingono nel mare. E in mezzo al mare spuntano qua e là isolotti che spesso hanno la forma di lingue di sabbia; alcuni di questi emergono solo con la bassa marea, mentre altri, divenuti insediamenti d’erbe che trattengono il fango portato a mare dal grande fiume, mostrano in distanza ciuffi di giunchi e altre piante adatte all’ambiente salmastro, e vengono chiamati “barene” (Gianni Celati, da Come un fotografo è sbarcato nel nuovo mondo, in Narratori delle pianure, Milano, UE Feltrinelli 2000, pag. 131).
Ma Ghirri fotografa anche
quello che sarebbe, forse, meno fotografabile perché insidiato dall’estinzione
o dall’indeterminatezza o da una supposta impoeticità, un paesaggio di solchi,
rogge, stazioni di rifornimento, cigli autostradali, case coloniche in
abbandono: perché, in realtà, nella frequente (apparente) assenza dell’uomo da
questi luoghi e da queste cose talvolta abbandonate, talaltra sospettate di
bruttezza (una pompa per il rifornimento del carburante, i pali della linea
elettrica, un’altalena divorata dalla ruggine) l’uomo è, invece, presente,
perché è stato lui a lavorare quelle rogge, ad arare i solchi, a costruire e
poi ad abbandonare la casa colonica, a rizzare l’altalena, il chiosco, la
garitta.
Mi sbaglierò, ma scorgo affinità tra l’arte di Ghirri e la pittura di Giuseppe
Bartolini: le automobili e le motociclette abbandonate e morse dalla ruggine,
gli splendidi treni e le linee ferroviarie, le stazioni vengono guardati con la
medesima pietas e con la medesima
partecipazione che fu di Ghirri, che fu di Giorgio Morandi.
Luigi Ghirri che attende in stazione seduto sulla panca di legno (nobiltà del legno, sua umanità e capacità ospitale) ha nella mente un treno da prendere, forse un convoglio locale di due vagoni che, passando dietro le case dei paesi, in mezzo alla campagna e lungo il fiume, offre doni allo sguardo. Ed è così che la postura del fotografo, forse un po’ stanco o forse semplicemente pensieroso, dice del viaggio, dell’andare – il nome graffito sul muro proprio dietro la sua testa (Andrea, si può decifrare) potrebbe essere anche, se abbiamo forza immaginativa, andata o, al limite, andare: una sorta di oracolo, un invito del destino…
In corriera ho rivisto le campagne ferraresi. Passato vicino ad una di quelle bellissime chiaviche estensi, impiantate nelle paludi per drenarle con il metodo dello scolo differenziato. Costruzione forse cinquecentesca, con torretta quadrata sopra un ponticello a brevi arcate. I quattro spicchi a triangolo rettangolo del tetto sono, credo, il modello adottato ancora oggi dai geometri che progettano le case in queste campagne (Gianni Celati, daTre giorni nelle zone della grande bonifica, in Verso la foce, Milano, UE Feltrinelli, 2002, pag. 87).
Nell’Italia già devastata
dagli scempi idrogeologici e dagli abusi di ogni genere Luigi Ghirri era capace
di vedere un tempo paradossalmente oltre sé stesso che, continuando una
sapienza plurimillenaria, si stratificava in una saggezza costruttiva di
borghi, casolari, vie d’acqua.
Contemporaneamente egli vedeva gli edifici industriali, le periferie, la
compresenza di edifici secolari e di parcheggi, i lunghi muri grigi in cemento
e i manifesti appiccicati, mezzo strappati.
Ma in una piccola stazione ferroviaria (può essa essere anche Astàpovo) è possibile riassumere tutta una vita (che è andare, sempre andare) e gli orari ferroviari squadernati su quattro colonne e stampati su fondo giallo paglierino sono promesse, attese, occasioni, talvolta piccoli equivoci senza importanza, la porta che rimane aperta nella bella stagione e viene chiusa nella brutta ha vetri traverso i quali si possono intravedere o che riflettono i viaggiatori e i ferrovieri sulla banchina e le variazioni della luce durante il giorno: è bello che qualcuno curi le piante messe nella piccola sala d’aspetto (ci sono magnifici palmizi anche nelle foto di Ghirri) – anche se nell’Italia di questi giorni desolati le sale d’aspetto delle stazioni non hanno più vasi di piante, né panche di legno, né tavoli.
L’ultima foto di Luigi Ghirri era un passo in più per ricominciare da capo a tradurre il mondo, anche nella sua assenza di forma. Sì, dopo l’esplorazione dello studio di Giorgio Morandi c’era il desiderio di tornare a casa, nell’intimità di un privato condiviso, per poi ritornare là fuori, disvelare nuovi modi di guardare il mondo, nel gesto liturgico di fotografare per ripulirlo, perdonarlo, benedirlo. Insomma abitarlo (Beppe Sebaste, da Ricordando il fotografo Luigi Ghirri, in Il libro dei maestri – Porte senza porta rewind, Roma, Luca Sossella Editore, 2010, pag. 178).
Ci sono le scarpe ai
piedi del fotografo, solide e forse un po’ consumate, scarpe dell’andare, forse
un po’ stanche, ma pronte a salire su di un altro treno, su una corriera (ho
sempre trovato bellissima questa parola), pronte a percorrere una provinciale,
una camionabile (splendido anche questo vocabolo: chi lo usa più? ma ne ho
viste nel Peloponneso, infami per le automobili, ancora buone per i camion che
si spostano carichi di materiale edilizio).
E la pittura delle pareti sembra avere assorbito gli anni di transiti e di
attese; la stufa promette inverni confortevoli o almeno attese sopportabili,
d’estate è ricordo della neve invernale e della nebbia padana.
C’è libertà in quest’andare e l’attesa (la pausa, l’indugio, l’interruzione) ne
accresce il valore, riverbera dell’ebbrezza che dalla libertà deriva.
Fuori della piccola sala d’aspetto ci sono i binari, avviati percorsi
dell’andare ed essi incrociano strade, altri cammini lungo i quali andare.
Spesso si riesce a zone d’acque o si cerca il mare, quello intravisto dal
sagrato della Cattedrale di Trani, quello delle altezze capresi e che diventa
solo luce.
È la luce che entra per la porta aperta a mettere in relazione lo spazio chiuso
della stanza con il fuori, l’enorme fuori del mondo (vi appartengono anche le
nuvole, gli aerei di passaggio, le insegne dei negozi).
Chi viaggia attraverso
l’Italia vede città stratificate, vede il tempo, può discendere fino
all’origine di sé stesso (o è, invece, un’ascesa?)
Non poteva allora non accadere che Ghirri si mettesse sulle tracce di Aldo
Rossi, ne contemplasse le architetture, ne visitasse lo studio milanese.
L’eleganza del pensiero diventata eleganza d’architetture – sguardo pensante. I
luoghi attendono lo sguardo che va loro incontro e li accoglie nel suo
orizzonte visivo e mentale: i luoghi di Aldo Rossi sono il mondo abitabile,
architetture per un mondo finalmente benigno e ospitale.
La sala d’attesa di una piccola stazione di provincia può essere capace
anch’essa di essere un frammento di mondo abitabile: un tavolo e una panca di
legno, piante nell’angolo dietro la porta.
Salire allora sul prossimo treno, ricordarsi delle molte polaroid scattate, indovinare il punto dove la pianura, il fiume, il suo delta cominciano a combaciare con l’atlante di segni, punti, cerchi, linee spezzate che, taccuino e scrittura, immaginazione e memoria, è andare, sempre andare.
[La Dimora del Tempo sospeso, 21 febbraio 2020]
Torno a ringraziare Iuncturae e Gianluca Virgilio per la generosa ospitalità.