Un itinerario letterario: la Lecce di Vittorio Bodini

di Antonio Lucio Giannone

L’itinerario bodiniano che oggi si inaugura lega definitivamente e ufficialmente il nome di Vittorio Bodini a quello di Lecce, la sua città della quale è stato il cantore più alto, l’interprete più acuto della sua anima segreta, nascosta. Bodini, com’è noto, nacque a Bari, ma Lecce è stata la “sua” città sia perché egli era di famiglia e di origine leccese sia, forse ancora di più, perché egli l’ha messa costantemente al centro della sua opera, della sua poesia, dei suoi racconti, delle prose, trasformandola da luogo della geografia in luogo della mente, del cuore e dell’immaginazione, luogo dove, come ha scritto lui stesso, si arriva “solo casualmente, scivolando per una botola ignorata della coscienza”. In tal modo l’ha inserita di diritto nell’atlante letterario del Novecento italiano, accanto ad altre città descritte da poeti e narratori, come ad esempio la Trieste di Umberto Saba, la Firenze di Vasco Pratolini, la Ferrara di Giorgio Bassani, la Parma di Attilio Bertolucci, la Livorno e Genova di Giorgio Caproni, la Catania di Vitaliano Brancati.

Ma com’è stato il rapporto tra Bodini e la sua città?  Ecco, non bisogna pensare che esso sia  stato sempre facile, pacifico, idilliaco, perché anzi è stato complesso, difficile, contraddittorio, caratterizzato da un’ambivalenza di sentimenti opposti: odio-amore, desiderio di fuga-periodici ritorni (“Qui non vorrei morire dove vivere / mi tocca, mio paese, / così sgradito da doverti amare”, scriverà in una poesia della Luna dei Borboni).

Ripercorriamo allora rapidamente la storia di questo rapporto. All’inizio, ad esempio, quando Bodini fa il suo esordio, appena diciottenne, sulla scena letteraria, dimostra una chiara insofferenza verso la sua città. Non a caso, in un articolo del 1932, parla della sua “tendenza centrifuga”, cioè del desiderio di fuggire da Lecce e dalla sua oppressiva atmosfera culturale. Anche per questo aveva aderito al futurismo, fondando un gruppetto d’avanguardia, il Futurblocco leccese, con il quale cercò di vivacizzare per poco più di un anno l’ambiente letterario e artistico cittadino. Proprio nel manifesto del Futurblocco, definiva Lecce la “più provinciale delle città di provincia”, mentre in un altro articolo di questi anni la accusava di essere “passatista” e “conservatrice… incastrata, in fatto d’idee, nei tempi del barocco profuso nei suoi monumenti”, per cui gli veniva spontaneo – scrive – di gridare “Abbasso Santa Croce”. E qui non può non colpire il bersaglio polemico costituito proprio dal simbolo più alto di quel barocco su cui, nella fase della maturità, come vedremo, si basa la sua interpretazione di Lecce e che fa di questa città una città unica al mondo (per cui bisognerebbe puntare ancora di più su questa peculiarità per valorizzarla).

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