di Antonio Devicienti
Penso alle terrazze dei centri storici salentini, a quel mosaico di chianche, rialzi, muretti e parapetti, tettoie avventizie (dette suppinne), comignoli, fili tesi per stendervi il bucato, vasi di terracotta, pile e pileddhed i pietra escavata, bidoni e bidoncini per raccogliere l’acqua piovana o per farvi crescere erbe aromatiche e geranei, scalini di tufo o scale a pioli di legno, mucchi di sarmenti d’ulivo o di vite.
Le chianche sono le lastre di pietra
calcarea che costituiscono la copertura esterna del tetto (lu chiamentu), dunque il pavimento
della terrazza e che sono bordate da strisce di materiale impermeabilizzante
che le salda insieme e impedisce all’acqua piovana d’infiltrarsi nelle
intermessure – talvolta la terrazza ha al centro una lieve elevazione che
corrisponde al punto più alto del soffitto a volta sottostante.
Le pile (o pileddhe, “piccole pile”) sono
blocchi di pietra scavati per potervi lavare i panni o altro.
Gechi, gazze e rondini sono la fauna che normalmente visita o unisce con i suoi voli rapidissimi e le strida le terrazze, la flora va dalle erbe anemofile capaci di crescere tra le crepe o le intermessure e con pochissima acqua, al basilico, al rosmarino, alla salvia, alla menta (i profumi classici per la cucina salentina), al geraneo.
Ma le terrazze,
vicinissime al cielo (o così sembra) possono essere in realtà luoghi molto
intimi, osservatori privilegiati sul cielo e sulle nuvole, appunto, sulle
terrazze più basse, sulla via immediatamente sottostante, sulla campagna
circostante, sul campanile della chiesa più vicina.
Un esercizio che fa bene alla mente (ne acuisce la capacità di osservare e di
scorgere o intuire relazioni inattese) è leggere la cartografia dei muri e
delle chianche: quando possibile ci si
può aiutare con il tatto e, allora, le dita avvertono le scabrosità generate
dai licheni che, nel corso del tempo, ricoprono le lastre – la pietra, già
emersa fuori da acque primordiali, muta colore, si fa lentamente grigia: lo
sguardo vede, così, lo scorrere del tempo, la mente immagina quel cosmo
fantasmagorico di forme ch’è il cosmo meravigliante dei licheni.