Rivoluzione liberale e classe dirigente
Quando poi Gobetti riflette sulla storia del primo dopoguerra in Italia, ponendo a frutto i suoi studi su Mill, Tocqueville, Montesquieu, Rousseau, Constant, Mosca, Einaudi e Croce, elabora la dottrina dell’essere libero non più per un individuo considerato come parte a sé stante, bensì come parte di un tutto, e quella storia gli appare come il primo annuncio della lotta politica e preparazione di un esercizio effettivo di libertà. Per dirla con Gramsci, il suo liberalismo può così affermare, limpida e chiara, la transizione “(…) dal concetto di libertà nei termini tradizionali della personalità individuale al concetto di libertà nei termini di personalità collettiva dei grandi gruppi sociali e della gara non più tra individui ma tra gruppi (…)”[1]. Perciò nel manifesto della rivista “La Rivoluzione liberale”, in una intitolazione che in mirabile sintesi esprime un intelligente paradosso, noi possiamo leggere una feconda verità: “Privi di libertà, fummo privi di una lotta politica aperta. Mancò il primo principio dell’educazione politica, ossia della scelta delle classi dirigenti”.
Il tema delle classi dirigenti rivela l’impressionante attualità dei tratti essenziali della odierna realtà italiana con l’analisi gobettiana della realtà del suo tempo.
La classe dirigente che l’Italia non ha mai avuto deve scaturire dalla lotta politica o dalla lotta di classe, ma Gobetti, contro la teoria di Pareto e di Mosca che avevano confutato la possibilità della democrazia in quanto ogni società deve essere guidata da una minoranza organizzata, sostiene che una vera classe dirigente si configura come élite a patto che essa sorga dalla competizione che si svolge tra i partiti politici nel regime parlamentare. In tal modo Gobetti assegna all’élite come classe dirigente un ruolo conflittualistico e quindi liberale, ma contemporaneamente anche un ruolo democratico nel senso tecnico del termine, cioè come osservanza delle regole, delle procedure e delle istituzioni.
Questi principi gobettiani sono nella legge della storia perché la loro successione rappresenta il cammino che la storia medesima ha percorso per acquistare piena coscienza di sé. Ed il dibattito sulla riforma istituzionale attualmente in corso è ancora parte di quel cammino. In questo dibattito è passata e passa ancora la storia della borghesia italiana, di quella parte della borghesia che ha rappresentato un lungo momento di stasi e d’inerzia e di negazione del progresso, che ha postulato e messo in atto un ruolo negoziale delle regole, delle procedure e delle istituzioni grazie al quale ha potuto chiedere allo Stato dapprima protezione contro le organizzazioni operaie e la concorrenza internazionale (è il caso del riformismo di Turati che accetta l’eredità di una corrotta democrazia invece di mantenersi coerente a una logica rivoluzionaria) e dopo, in tempi più vicini a noi, favori di ogni genere fino alla impunità fiscale e agli appalti truccati, senza mai stringere un patto credibile tra i ceti medi e il resto della società, senza il quale non si può tendere ad uno sviluppo solidale. Non si è compreso che nella crisi, che non è tramonto bensì transizione dello Stato sociale, il problema vero sta nell’essere capaci di allacciare reti e relazioni con gli altri per far sì che la psicologia del produttore non resti separata dai rapporti sociali che lo legano con l’esterno e con altri tipi spirituali, il che sarebbe scuola di egoismo e deformazione dell’attività sociale.
Nel campo della formazione delle idee e dei valori morali, la fecondità del pensiero di Gobetti è tale da rinvenire la sua impressionante attualità. Gobetti rileva che l’educazione politica dei cattolici era cominciata col partito popolare mediante la progressiva liquidazione degli ultimi residui del clericalismo soprattutto ad opera di Luigi Sturzo, ma restava ancora in piedi la contrapposizione tra un cattolicesimo liberale, critico verso ogni clericalismo, e un cattolicesimo sociale non del tutto scevro da linee profondamente reazionarie, teocratiche e paternalistiche. Si distingueva per questo aspetto Giuseppe Toniolo, il cui cattolicesimo, osservava Gobetti, mentre si poneva in difesa dei diseredati, degli oppressi e degli umili, in realtà criticava la cultura e la società moderna non tanto per lo squilibrio delle diseguaglianze sociali, il che sarebbe stata una presa d’atto contro gli eccessi del capitalismo, bensì per gli eccessi del libero pensiero e per il rischio di tentazioni antidogmatiche che ne sarebbero potute derivare grazie alla libertà e alla autonomia individuale. In altre parole, di fronte allo Stato moderno la Chiesa assumeva spontaneamente l’ufficio di guidare i cattolici alla disgregazione degli organi pratici di quel liberalismo che era ed è la sua antitesi.
Gobetti e la scuola
Le su esposte argomentazioni vogliono avallare la tesi secondo la quale invero la morale pubblica si esaurisce in quella dei cittadini e non vi è una civiltà sociale diversa da quella realizzata dagli individui. Perciò Gobetti auspicava in campo scolastico e culturale, dal momento che la scuola e la cultura vengono promosse ed organizzate dall’alto, il fiorire in concorrenza tra loro di iniziative dal basso, in nome del libero contrasto delle forze economiche e amministrative, mentre il filosofo Giovanni Gentile aveva attribuito più di ogni altro allo Stato una funzione educativa e ne era scaturita la dottrina dello Stato etico che non è inter homines, bensì in interiore homine. Gobetti ribadisce il principio che lo Stato non professa un’etica ma esercita un’azione politica. Anche da questo punto di vista il pensiero di Gobetti ci sembra ancor oggi di grande attualità.
[Pubblicato ne “la Città”, luglio 1996, pp. 1 e 7, col titolo Il pensiero di Piero Gobetti oggi in Italia]
Note
1 A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi, Torino 1955, p. 173.