Breve saggio di paesologia


A Lecce si va per il tribunale o per l’ospedale o per l’università: Lecce è la città, benché il mio paese stesso ambisca da tempo immemorabile a tale ruolo; quand’ero bambino andare fino a Lecce (la distanza sembrava grande) era atto solenne che avveniva di rado; forse c’entrava il fatto che, a differenza di quanto succedeva in paese, lì non conoscevamo nessuno e le abitudini, i negozi, i viali della città apparivano meravigliosi. Soltanto più tardi scopersi la Lecce secentesca e settecentesca, riuscendo a rendermela familiare, riconoscendone i ricami di pietra dorata (cestini di frutta, ghirlande di foglie e fiori, putti e cherubini, cornicioni intagliati e balconi in ferro battuto) anche negli edifici del mio paese. E credo che la paesologia ami discendere i gradini che dal piano stradale menano a stanze in penombra a livello degli scantinati dei palazzi nobiliari dove il cartapestaio o il corniciaio o il fabbricatore di giocattoli hanno bottega (putéca o putìa si dice in salentino, esattamente come in greco si dice ἀποθήκη); forte è l’odore d’umidità che filtra dai muri e una lampadina appesa al filo elettrico penzola dal soffitto, illuminando fiocamente il tavolaccio su cui s’ammucchiano ritagli o arti di bambole e, alla parete in fondo, una fotografia di Silvana Mangano in Riso amaro testimonia bene del tempo che, in certi anfratti dei paesi, s’ingolfa e rallenta, indugia nostalgico, anche se alla morte dell’anziano, ultimo artigiano a decretare la chiusura della bottega, il locale sarà ristrutturato, riattato a ristorante tipico o wine bar alla moda.
Napoli era splendida ed elegante Capitale, i futuri medici e avvocati del mio paese vi andavano a studiare prima che a Bari fosse istituita l’Università, geograficamente più vicina, dunque. Ma qualcosa della fama della bellissima Via di Chiaia echeggia ancora anche nella memoria del mio paese essendo quest’ultimo al centro di una piana i cui lembi estremi si bagnano da un lato nell’Adriatico e dall’altro nello Jonio, per cui le “passeggiate a mare” si vanno a fare dopo alcuni minuti di automobile a Otranto o a Castro, a Gallipoli o a Santa Maria di Leuca…
Non concordo con Franco Arminio quando afferma che “la paesologia è poco adatta ai luoghi pianeggianti”: il mio è un paese esclusivamente pianeggiante, adagiato addirittura su di un bassopiano, ma la morfologia del suo tempo è collinare, verticale, addirittura, dato che bisogna arrampicarsi lungo la strettissima, buia scala di pietra costruita nel campanile altissimo della Chiesa Matrice per vederne in un solo colpo d’occhio come a volo d’uccello le terrazze dove precise linee incatramate impermeabilizzano le intermessure tra le chianche (le lastre di pietra di tufo che ne formano la pavimentazione) e gli orti interni alle case a corte, piantati a limoni, aranci, allori. Affascinano tutte quelle terrazze sulle quali le famiglie accumulavano gabbie per i piccoli animali da allevamento, vasi di terracotta o di metallo, sedie inservibili, luoghi aperti sotto il cielo meridionale e mediterraneo, eppure segreti e intimi.
Chi, come me, pensa che la paesologia sia anche esercizio di visionarietà, da lassù vede i binari della ferrovia allontanarsi verso Nord (e sono i binari dell’emigrazione, più raramente dei viaggi di piacere), ma anche, ancora dopo due secoli, gli alberi della libertà innalzati nelle piazze dei paesi in ininterrotta teoria fino a Napoli (e si angoscia per il consenso alla deriva fascista che pure, con dolore e senso di rivolta, constata in molti dei suoi concittadini – che il treno a vagone unico venga ancora chiamato “littorina” non è più soltanto un reperto archeologico linguistico, ma talvolta spia di una nostalgia per una dittatura della quale si dimentica volentieri l’essenza sanguinaria e violenta e, ovviamente, liberticida).
E se a Napoli, stando al racconto di Anna Maria Ortese, abitavano geniali guantai capaci di attirare la jeune noblesse del Nord Europa, nel mio paese dotti parroci e sapienti maestri elementari raccoglievano biblioteche di classici latini e greci o catalogavano reperti del Paleolitico; sapete, la paesologia incontra anche queste persone tenere e romantiche nella loro monomania, ammiratrici del Croce erudito (qualcuno di loro deve aver mandato, tremando di emozione e di soggezione, un fascicolo con i propri studi fino all’indirizzo mitico di Palazzo Filomarino e deve aver passato molte notti insonni attendendo una risposta da don Benedetto).
E il mio paese fu patria odiato-amata di un vero poeta: Totò Toma che viveva con i suoi amatissimi animali in un bosco poco fuori il centro abitato ricercando una naturalità che lo allontanasse dall’ipocrisia di cui accusava apertamente i suoi compaesani. Vedeva da lì gli oceani e il ventre del mare, l’America dei nativi e una Terra d’Otranto immersa nel XX Secolo eppure non dimentica di sé.
Ho già parlato degli scantinati, veri universi sotterranei che si dilatano sotto i palazzi antichi del paese; qui aggiungo le cisterne per la raccolta dell’acqua piovana e, nel cimitero, le catacombe escavate sotto gl’imponenti monumenti funebri delle famiglie notabili. Lì sotto i nomi castigliani sulle lapidi più antiche rimandano alla dominazione spagnola, a un’altra Capitale, Madrid, forse cupa sovrana dai corridoi in eterna penombra dell’Escorial e remotissima, ma presente nel carattere degli abitanti del mio paese, innamorati “delle questioni di principio”, come acutamente scriveva Vittorio Bodini, capaci di arrovellarsi in argomentazioni e controargomentazioni senza fine. Ma anche l’ombra folta che s’addensa nelle cappelle della Matrice e di Santa Maria delle Grazie e che accresce l’ombra caravaggesca delle grandi tele, consuona con i dipinti di El Greco e di Velázquez che stanno laggiù, al Prado e a Toledo. Già, l’ombra delle cappelle: pure in questo caso si ha percezione di uno spazio che, in onde e controonde, si fa tempo conducendo la mente a quando Latini e Greci coabitavano, sapienti abati trascrivevano con l’alfabeto greco cronache in dialetto salentino e Roma e Bisanzio s’incontravano qui, nelle cappelle ipogee affrescate nelle campagne e, in paese, dentro case di pietra con le icone a difendere dal maltempo.
Bisanzio si rende ancora visibile nelle campagne salentine come in quelle greche, in certe prospettive delle antiche case a corte, ma anche nel concetto griko di “ghetonìa” che indica il “vicinato”, la comunità delle famiglie che abitano nella stessa strada o le cui case si affacciano nel medesimo cortile e che partecipano ai fatti felici e meno felici dell’intera comunità; Bisanzio si profila nel ricordo di un’appartenenza che sapeva scavalcare il Canale d’Otranto, mare che univa. In apparente paradosso Istanbul è molto “meno bizantina”.
Ma non posso tacere che, camminando per le strade del mio paese all’ora di cena, le finestre spalancate sull’Estate, l’eco dei televisori riafferma il dominio di nuove Capitali: New York e Hollywood, in particolare. Anche il paese nuovo, orrido di condomini senza volto e di villette recintate di cemento, ha rinunciato a una propria identità: garage, piadinerie e discount sembrano innervare il tessuto economico di un paese altrimenti famoso per i suoi cordari e le sue merlettaie, per la sua fiera del bestiame e delle terrecotte il venerdì prima della Domenica delle Palme. So che la paesologia non ammette ingenui amarcord, so che l’economia cambia, ma non posso non vedere gli oliveti, i nostri anche millenari oliveti, devastati dalla xylella, né le torme di turisti che, d’estate, brucano gli angoli dei miei paesi senza capire che cosa vedono: proprio per questo sono sicuro che la paesologia sia un esercizio di consapevolezza e di memoria, di profondità storica e d’inventiva; un paese ha già una sua identità (foss’anche quella di non averne una) e la paesologia s’assume il compito di rivelarla – pur mentre, a pochi chilometri dal mio paese, già iniziano i lavori al pozzo di spinta del TAP…

[“La Dimora del Tempo sospeso” del 1 dicembre 2018; “Zibaldoni e altre meraviglie”, 15 luglio 2014]

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