Si potrebbe dire che quella di Raffaele Carrieri è poesia (o poesia/pittura) di paesaggio: oggetti, raffigurazioni, elementi d’ambiente ammiccano per trarre in inganno, un inganno al quale non bisogna cedere. C’è la Puglia con le sue caratteristiche in Carrieri? Si provi a leggere Tavoliere: «Quando scendo dagli Appennini / Alla patria remota dei fieni / Dell’orbo mi sovviene / Asino delle cisterne / che lo zero sempre ripete / nella sete del Tavoliere. / Lunga sete zero cocente / Muore l’acqua nella sorgente». Ci sono precisi riferimenti: lo scivolare dell’Appennino verso il Tavoliere delle Puglie, la sete di questa terra, il sole feroce che impedisce la vita fin da un luogo d’origine. Tutto questo non basta a fare una pittura d’ambiente, del resto accortamente evitata dal poeta. Tutto si concentra nell’astratta geometria determinata dal percorso obbligato d’una bestia bendata costretta a disegnare sempre la stessa figura (un cerchio), a ridefinire il perimetro d’uno spazio chiuso: quello d’uno zero ch’è metafora dell’enigmaticità di un destino di morte. Il dramma non scaturisce dalle cose ma è consustanziale ad esse, poste a specchio della condizione umana. L’ipotesi di una poesia ‘paesaggistica’ si sfalda di fronte all’evidenza di un significato ‘altro’ affidato ad oggetti noti, ad immagini consuete. Se mai, quel che sembrò ‘paesaggio’ apparirà, dopo che il testo poetico ne avrà offerta una interpretazione estranea ad ogni descrittivismo, come comprensibile correlativo di una situazione fortemente drammatica. Il paesaggio, ci si accorge, è di natura mentale. Colori non ve ne sono; sono soltanto suggeriti, non esposti, attraverso la notazione di aridità che domina interamente il breve testo.
La riconoscibilità ‘culturale’ viene da quanto giace al fondo della poesia di Carrieri: Grecia e Magna Grecia, divinità che abitano misteriosamente la terra e la natura, sentimento profondo d’una classicità ch’è un modo di vita ancor prima d’essere elaborazione di una forma, riti e tradizioni cristiane mescolati con più antiche espressioni di religione popolare (Miei paesi). A riprova, la leggerezza straordinaria della parola, la prospettiva dell’esistenza tra due termini: l’antichità remota e favolosa del passato ed il presente nel quale essa si continua dolorosamente (Terre degli anforai); il sentimento di estraneità ma anche di necessaria adattabilità alle esperienze cui conduce la vita (Forestiero in ogni luogo, Avrei potuto avere); l’esaltazione dell’amore e delle sue sorprendenti vicende (Amore mi dà l’aria); il dolore che attraversa la storia con la sua lama che spacca il cuore ai sogni (Pianto di Samuele); memoria e tentazioni dell’esotico (Sera d’Africa); gli andirivieni dell’esistenza che si logora nelle sue contraddizioni sulle quali resta, unico punto di riferimento, un batticuore/bussola per accorgersi se ci sia ancora qualcosa che valga la pena (Batticuore).
Ogni componimento è in sé conchiuso, ha una sua cellula tematica sviluppata nello spazio breve d’una pagina i cui margini rappresentano, quasi, inviolabili limiti alla eventualità che l’espressione tracimi. Tutto è, insieme, apertamente spiegato e copertamente condotto. Una domanda preme di fronte a qualunque accadimento: «Quale disegno si compie / Nella disposizione delle cose?» (La tartaruga capovolta). La domanda rivela ciò che la levigata superficie delle composizioni sembra voler dissimulare: un’inquietudine assorbita dalla linea breve e netta di una dizione epigrammatica felicemente sperimentata ma che affiora inquietamente sui tratti della tela che la stesura pittorica lascia scoperti. La confessione di ansie e di drammatici confronti non è quella dispiegata in dichiarazioni che non lasciano dubbi, ma quella che si sottace ed emerge nei momenti nei quali il controllo si allenta.
Presiede alla poesia del Trovatore quell’ilare immaginazione che fu di certo Palazzeschi: amore del colore e volo libero della fantasia. Lorca? Più che altro un’affinità di sentire per vicinanza culturale: Italia del Sud e Spagna. Al di sopra di questo, la gioia di abbandonarsi ai regolati capricci di un’invenzione senza peso: «Ventagli chi vuole ventagli? / Vendo il vento in ritagli: / Chi vuole ventagli d’aria?» (Il venditore di ventagli).
Le ‘figure’ del libro sembrano contrastare: da una parte connotate da una sorta d’infantile letizia, dall’altra sovrastate da una cupa aria di morte. In realtà esse appartengono a una disposizione fondamentale del poeta Carrieri: quella di sottoporre gli oggetti delle sue invenzioni a un gioco metamorfico per cui un’immagine dissolvendosi nell’altra crea un movimento continuo, una trasformazione delle figure, in primis di quella dello stesso poeta, con un effetto di mobilità che imprime il ritmo al discorso e lo caratterizza.
Tutto ciò che il poeta dice appartiene alla sua esperienza. Poco vi affiora il mondo della storia. Questo appare trasposto in altro sistema di segni. Qualcosa di magmatico, gratuito in apparenza, costituisce una delle cifre più attraenti di questa poesia: una sentenziosità d’antica fattura adeguata ad un presente guardato con scetticismo: «Senza semenza / Nasce il trifoglio / Come l’imbroglio / Nella speranza» (Proverbio). Riassumere il carattere della poesia del Trovatore, nella varietà delle sue proposte e nell’unità della sua pronuncia, vuol dire – anche – isolare un’indicazione preminente. Mi pare la si possa individuare in un pessimismo accolto con distaccata dolcezza, con animo accettante: «Nessuna cosa resta / Fresca fino alla fine. / La rosa con le sue spine / Dura meno delle spine» (Clarino mio clarinetto).
Un’arresa saggezza che lenisce il dolore delle ferite.
[“Portofranco”, settembre 2009, pp.12-13]