Colpisce il fatto che ogni lettera tende a chiarire sempre meglio l’idea che il suo autore ha della realtà. Prendono così corpo delle potenzialità che, per uscire dallo stato virtuale, affidano all’esperienza del carcere la pienezza della coscienza intellettuale ed umana. Assume allora un significato particolare la volontà come sviluppo di vita interiore per cui un dato contenuto di coscienza si svolge in un altro più completo e più chiaro:
“(…) Per non perdere l’abitudine a parlare, leggo ad alta voce, declamo poesie, riassumo a voce ad un pubblico immaginario che popola la cella quel che imparo. Per non impigrire, che è il malanno più grosso per un carcerato, faccio ginnastica svedese e durante la giornata non mi corico mai: la branda la tengo inchiavardata al muro. Quando sono stanco di camminare, mi riposo un poco sedendo su uno sgabello. Poi riprendo a muovermi. Non mi do per vinto. Non sono e non voglio essere disoccupato (…)” (Edoardo D’Onofrio, dal carcere di Fossombrone alla mamma il 20-12-1928)[76].
Questa volontà, come sfida all’inerzia del puro accadere, viene rinsaldata mediante la lettura di G. B. Vico. La storia umana è più facile a studiarsi della storia naturale, perché è fatta dagli uomini. Nel dilemma se sia la volontà umana che fa la storia o le umane necessità, si scopre la questione del libero arbitrio e del determinismo, come nella lettera di Giuseppe Amoretti e Lea Betti Ciaccaglia, militante comunista di Bologna, risapettivamente dal carcere di Roma e di Perugia[77]. Nasce allora nell’animo del carcerato antifascista un imperativo categorico che rappresenta il bisogno di un’azione come oggettivamente necessaria per se stessa in quanto riceve solo da sé la sua legge, senza alcun riferimento ad un altro fine. Scrive il medico socialista cremonese Alberico Milinari dal carcere di Roma il 2 maggio 1930 alla figlia Medea, che a sua volta sarà incarcerata per antifascismo nel 1942:
“(…) Il merito della selezione tra i vili ed i degni è tutto delle tempeste… Ah!, il sentiero della giustizia! Qual’è? E’ il sentiero, che, secondo il tuo giudizio, conduce al bene di tutta l’umanità. In esso vi è tutto il giusto, tutto il buono, tutto il bello degli antichi e dei moderni filosofi. E per seguire questo sentiero umano della rettitudine che cosa chiederai in compenso? Se tu t’aspetti dei compensi terreni o celesti, non sei più in buona fede e non meriti proprio niente. L’idea dei compensi non passi neanche nella tua mente nel poco e nel tanto di bene che potrai fare nella tua vita. Nelle tue cose sii tu stessa l’attrice, il teatro ed il pubblico che applaude. Questo è il segreto della tranquillità e dell’onestà dell’animo. Ancora una cosa. Tutta una vita o anche un solo sospiro della nostra vita non ha ragione o giustificazione d’esistere se non sia emanazione di una idealità… E l’idealità può, anzi deve essere guida non solo nelle grandi imprese della vita ma anche nei più piccoli atti comuni della giornata (…)”[78].
Siamo nella sfera dell’assoluto incondizionato, e sembra di aver letto una pagina dei dialoghi morali di Seneca.
Talora da parte dei familiari si tenta di indurre il carcerato a presentare, in cambio della libertà, una dichiarazione di riconoscimento del regime. La risposta è uno scatto di intransigenza, il rifiuto del suicidio morale:
“(…) Nessuno più di noi desidererebbe il suo focolare, solo che non lo si vuole guadagnare con la codardìa o con la vigliaccheria. Chi se lo procura così non lo ama ma lo disonora (…)”[79]. E con ironia che si direbbe socratica vengono opposte verità contraddittorie per mettere in evidenza la natura dialogica della verità autentica. A prova di ciò si legga il seguente brano di lettera, scritta alla mamma dal carcere di Sassari il 1° agosto 1930 dal cameriere comunista Giovanni Nicola. Ricorre il quarantesimo anno dacché
“(…) il tuo ottavo figlio annunciava coi suoi primi vigorosi vagiti la sua rumorosa entrata nel mondo dei diseredati, ed allora anche l’onesto artigiano [il padre] sospendeva un momento il suo lavoro e forse la lieta novella trovava gaia rispondenza nel suo sensibilissimo cuore paterno. Ho detto forse perché nelle migliori case della povera gente non sempre la venuta di una nuova bocca è salutata con gioia (…)”[80].
Il carcere sveglia nell’indole dell’uomo una grande capacità di osservazione:
“(…) C’è una tribù di colombi che ha preso domicilio sopra uno spicchio di tetto che io vedo di scorcio… Sono pieni di ipocrisia e di malignità. Si accapigliano in tono minore come le monachelle. E ce n’è di tutti i caratteri. La maggior parte mattinieri, ma non manca qualche nottambulo, che vorrebbe far conversazione quando gli altri dormono e dorme invece alla lunga a giorno alto, proprio come una signora mia amica (…)“. (Francesco Fancello alla mamma dal carcere di Roma il 3 marzo 1931)[81].
Nell’epistolario sono numerose le pagine di un mirabile e sereno bozzettismo di fronte alle quali nell’animo del lettore si desta un senso di spirituale candore che commuove. Accade cioè che l’isolamento del carcerato e poi la sofferenza sublimata alla luce dell’idealità che lo pervade, semplifica la sua visione della vita e la cinge di un alone di ingenuità:
“(…) In queste settimane, Torino è bella! Odora tutta di tigli, ed ha viali biondi di quella blanda nevicata di petali che io, con tanto piacere, stavo a guardare dal balcone della nostra casa sul Valentino. Là vi penso sempre, senza avvedermene! (…)“. (Camilla Ravera dal carcere di Trani alla mamma il 1° maggio 1932[82].
Il recluso diventa un abitudinario e si avvezza, per esempio, a vedere un’incisione sul pavimento, una scrostatura nella parete o quel pezzo di muro davanti alla finestra e, come il gatto, si affeziona alle muraglie ed il solo pensare ad un altro cambiamento lo turba e gli dà malinconia. Così il carcere restituisce la vita che ha tolto al carcerato, ridandogliela in intensità e freschezza di pensieri e di meditazioni. E’ veramente sorprendente come si realizzano le fantasticherie, le divagazioni, ed i pensieri che si svolgono ed intessono ogni giorno nella mente del recluso per sciogliersi la notte nel sonno e riapparire il giorno dopo. Basta un ragno che faccia trovare ogni mattina in uno dei quadri della inferriata una sua bellissima tela, sempre uguale e tessuta nello stesso luogo; basta contare tutto quello che si fa, le flessioni della ginnastica la mattina, poi i passi per la cella e quindi giù in cortile dove si va a prendere aria, poi le volte che si rimastica ogni boccone, ed ecco che spazio e tempo risorgono per virtù di forma razionale e, prima occultati ed uniformi, si aprono un varco nel cielo dell’universo ed un pensiero si accende su un altro pensiero e la vita si rinnovella e si carica di tempo già trascorso, ma anche di tempo ulteriore; talora, purtroppo, al pensiero implacabile si chiede l’ingrato lavoro di impedire al cervello di pensare le dilette persone lontane.
Si rinviene inoltre nel carcerato la svalutazione di tutte le sue posizioni esteriori nella vita. Accade cioè che l’integrità epica e tragica dell’uomo e del suo destino venga distrutta dalla scoperta dell’uomo interiore e dall’ispezione continuata di sé:
“(…) L’altra notte non ho quasi potuto dormire per avere letto la sera prima – Da Quarto al Volturno -. Sentirsi garibaldini non è certo compatibile con il sentirsi vecchi ed io mi sono sentito garibaldino sul serio (…)“. (Giancarlo Paietta ai congiunti dal carcere di Forlì il 15 luglio 1929)[83].
In conclusione, la lettura e lo studio e la conversazione tra compagni di cella permette di maturare una cultura d’avanguardia che abbatte i sistemi chiusi di idee, distrugge ogni angustia ed ignoranza reciproca, avvicina ciò che è lontano ed unisce ciò che è separato. Questo concetto nuovo di cultura nasce dal concetto nuovo della storia: prima dei re e delle repubbliche devono interessare gli uomini ed i loro rapporti quotidiani, prima dei luoghi e delle date delle battaglie celebri contano i popoli e le loro armi, ed il loro bisogno di pace. Insomma, la vita, e non altro, deve essere maestra della vita, perché soltanto essa insegna all’uomo il dominio di sé e la strategia della propria conservazione.
Disfacimento fascista e nuova intellettualità
Man mano che ci si avvicina alla caduta del fascismo una nuova certezza fa mutare anche la struttura narrativa dell’epistolario. Le lettere del secondo tomo, difatti, presentano una connotazione di più spiccata intellettualità e registrano, fra gli altri, sentimenti e pensieri di Giorgio Amendola, Franco Antonicelli, Vittorio Foà, Leone Ginzburg, Massimo Mila, Augusto Monti, Cesare Pavese, Pietro Secchia, Guido Calogero, Eugenio Colorni, Eugenio Curiel, Tommaso Fiore, Lucio Lombardo-Radice, Altiero Spinelli e di altri. In tutti si avverte la certezza che la vecchia società decade ed una nuova è in gestazione e ciò non può avvenire senza grandi dolori. Questa certezza si riflette nitidamente nella struttura narrativa delle lettere, sotto l’aspetto di una segreta armonia interiore. Quest’armonia nasce o dalla consapevolezza di essere immesso ciascuno nel circolo del patimento generale, anche fisico, e questa partecipazione è prova di solidarietà con la propria gente, oppure dall’aver acquistato il senso della relatività di tutte le cose umane, che non siano gli affetti profondamente radicati nell’animo nostro, dai quali soltanto sgorga la forza di affermarci sopra i triboli della vita e vincere così la nostra prova:
“(…) Io mi sento sicurissimo di me, delle mie energie morali e fisiche, che tengo saldamente alle redini di una volontà incrollabile (…)“. (Rodolfo Morandi al fratello Gigi dal carcere di Roma il 17 agosto 1937)[84].
Questa vita di affetti si intreccia strettamente con una vita di intenso studio. La lettura di Croce e di Gentile da parte dell’intellettuale che vuol vedere chiaro nel tessuto della vita moderna, anziché stimolare, deprime il senso critico, perché svuota di ogni contenuto concreto la realtà universale e relega le scienze nella sfera utilitaristica, inducendo a considerare come materialità esteriore, indifferente per lo spirito, la complessità delle relazioni sociali. Difatti, degradate così la scienza e la dottrina, e la stessa realtà sociale e la religione, che cosa resta più della fatica di secoli e di millenni?
La riflessione su questi princìpi induce il recluso a scoprire che gli interrogativi della nostra esistenza individuale non li può risolvere la storia, così come non li risolve la scienza, pur ammesso il progresso delle scienze fisiche fondate sul metodo sperimentale, e quello della disciplina storica, fondato sullo studio delle relazioni economiche nella società. Allora i problemi quali l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima si dischiudono al carcerato in una luce nuova che vibra nel solco per il quale sono avanzate la civiltà e la cultura umane. Questa luce è la natura:
“(…) Le stelle che risplendono la notte nella piccola porzione di cielo che si concede al mio sguardo, mi parlano un nuovo linguaggio suggerendomi come l’esistenza nostra non sia da considerare che un aspetto dell'”energia” -a voler usare questo termine fisico – che percorre l’universo (…)“. (Rodolfo Morandi al fratello dal carcere di Castelfranco Emilia il 26 marzo 1939)[85].
E così l’uomo, dal momento che non si sente semplicemente essere pensante, ma insieme e non meno parte dell’universo ed uomo senziente e sofferente, salda la scissione della realtà naturale e della realtà storica e diviene capace di vivere i drammatici eventi della sua vita con una tensione ideale che gli impone di rinnovarsi. Il prigioniero pone allora tutta la sua fierezza e la sua ragion d’essere nel non piegarsi, nell’essere più duro ancora delle sue catene. Prometeo si chiude in sé, nel suo rancore vendicativo, condannandosi all’inaridimento ed alla morte morale. Il carcerato o il confinato antifascista, invece, non modella il suo animo in una tensione diretta contro la prigione né diventa una statua morale priva di vita, ma, mediante il suo epistolario, si immette nel mondo e dimostra una grande capacità di conversare e di intendersi con persone vive ed intelligenti sino al punto che “nessuna prigione è tale da non mutarsi in cella amabile di vigilia di meditazione e di pazienza”. Così dal carcere e dal confino gli antifascisti si dispongono all’incontro di un nuovo volto del mondo, assaporando talora una gioia ad un tempo triste e serena, che pochi in Italia hanno avuto il diritto di sentire in quanto preparata da precedenti sofferenze per una vera fede.
In carcere si riesce anche a godere il pulsare della vita. Da quello di Castelfranco Emilia si segue, per esempio, il passaggio alle quattro di notte della gara motociclistica Milano-Taranto col crescere e poi lo sminuire del rombo in lontananza. Bruno Roghi firma il ghiro sotto i corsivi de “La Gazzetta dello Sport”. Scrive meglio di ogni altro direttore di giornale italiano. E qui una battuta di graffiante polemica politica da parte di Guido Calogero il 13 marzo 1942 dal carcere di Firenze alla moglie: “tanto è vero che dove c’è un po’ di libertà di discussione, il cervello fiorisce”[87]. Ed un’altra volta, il 16 aprile 1942, a proposito del materiale antiparassitario contro le bestie che infestano la cella, ecco un’altra felice battuta dello stesso Calogero: “ce ne sono molto meno qui che sulle cattedre universitarie”[88]. E poi, in una lettera del 28 maggio 1942, in pochi tocchi, ecco schizzata una macchietta, sempre ad opera dello stesso autore, nei suoi tratti originali e caratteristici: “Ora è anche venuto il detenuto anticiminice, che gira con la lampada a benzina: abbiamo passato a fuoco tutto il letto e ne sono saltate fuori le ultime due superstiti”[89].
Ed ancora un altro schizzo colto nel confino di Agropoli da Franco Antonicelli il 26 novembre 1935, attraverso un canto popolare in dialetto salernitano:
“Quanno lu cusutore perde l’ago
s’assetta in terra e si raspa la capa:
poi chiama la mugliera Cannetella
– Appiccia la luce e biri in terra -“[90].
Da che cosa nasce lo stile di questi passi, questo tendere al parlato, al dialogo ed al gesto mimico se non dal senso di una realtà colta dal vero, dalla coscienza del ritmo vario e molteplice, in un rapidissimo e dinamico fluire della vita, che si acquista nell’isolamento per effetto di prospettiva e di contrappunto?
Ci sono piaceri che rapiscono la giornata al confinato, il quale, osservando sino all’attimo le cose nel loro pigro movimento, come ad esempio l’uomo che costruisce la barca od il porco che dorme rovescio, comprende che cosa è in sé l’amore del gesto che rivela la vita. E poi c’è la guerra che, in seguito al siluramento di una nave, si presenta con l’immagine reale di cadaveri che, rimasti vari giorni in fondo al mare e tornati poi alla superficie, sono approdati con l’aiuto della corrente a Ponza, ad Ischia, a Gaeta e a Formia e chissà dove ancora; e si offrono alla vista di quei confinati con la schiena curva e rivolta verso il cielo, e le braccia, le gambe e il capo ciondoloni verso il mare.
Insomma, chi legga questo originalissimo epistolario si trova di fronte ad uomini che, nel chiuso della cella o nell’isolamento del confino, indagano il reale o con la condizione spirituale di chi sente giudicate tutte le sue azioni da un occhio implacabile ed inflessibile, cioè dalla propria coscienza, ovvero con la curiosità di rinvenire il reale autentico al di sotto delle apparenze. Nell’un caso e nell’altro, al lettore non può che derivare una lezione o di morale o di conoscenza. Chi poi tenga conto che gli autori delle lettere, parlando di se stessi, sono riusciti a parlare di un’Italia che le giovani generazioni non hanno conosciuto, comprende che è questa una ragione di più per auspicare che queste lettere, possibilmente con l’aggiunta di quelle dei carcerati e confinati poilitici salentini, Carlo Mauro, Pietro Refolo, Giuseppe Calasso, Pantaleo Ingusci, Agesilao Flora, ed altri, trovino adeguata collocazione nelle biblioteche di classe e di istituto della scuola italiana, e specialmente di quella meridionale.
Può avvenire così che le nuove generazioni, reimmergendosi nel corso degli avvenimenti, sposino le discordie ed i conflitti dei carcerati e confinati antifascisti e parteggino con essi. Ne scapiterà allora l’Italia peggiore e si ridesteranno gli incunaboli della nostra libertà.
[Lettere di antifascisti dal carcere e dal confino (Memorialistica democratica), in “Il Corriere Nuovo”, Anno III, n. 9, Galatina, 31 ottobre 1980, pp. 4-5.]
Note
[75] Pubblicate dagli Editori Riuniti, Roma 1962, e in II edizione, marzo 1975 (da cui citiamo), in due tomi di pp. 407 e 586, con lettere che appartengono a 56 corrispondenti quelle del primo tomo e a 100 quelle del secondo.
[76] Ibidem, I, p. 112.
[77] Ibidem, I, pp. 20 e 53.
[78] Ibidem, I, pp. 216-217.
[79] Ibidem, I, p. 130, e vedi ancora sullo stesso tema pp. 69, 109 e 144.
[80] Ibidem, I, p. 239.
[81] Ibidem, I, p. 130.
[82] Ibidem, I, p. 330.
[83] Ibidem, I, p. 267.
[84] Ibidem, II, p. 231.
[85] Ibidem, II, p. 241.
[87] Ibidem, II, p. 390.
[88] Ibidem, II, p. 393.
[89] Ibidem, II, p. 399.
[90] Ibidem, II, p. 40.