di Ferdinando Boero
La guerra in Ucraina e la pandemia da COVID 19 mostrano, oltre all’orrore di guerre e malattie, la precarietà di uno stato di benessere e sicurezza che davamo per scontato e, anche, le conseguenze della globalizzazione. Il nostro impatto sulla natura è globale: non basta trasferire lontano le produzioni climalteranti, nel medio termine i loro effetti si globalizzano e arrivano a noi. L’ecologia è globale. E l’economia? Ci accorgiamo, con la crisi Ucraina, che la nostra produzione di grano non soddisfa i nostri bisogni. Abbiamo trovato più conveniente abbandonare certe produzioni, trasferendole in paesi dove la manodopera costa poco e dove le leggi che difendono l’ambiente e i diritti umani non esistono o non sono rispettate. E questo non vale solo per il cibo. Magari continuiamo a progettare le nostre macchine, ma le facciamo fare a “loro”. Anche la moda ha delocalizzato. Chiudono le fabbriche, si trasferiscono le produzioni, e poi si riporta in Italia quel che abbiamo progettato, per venderlo. Di solito a prezzi gonfiati rispetto ai costi di produzione. L’energia la producevamo noi, con l’idroelettrico, ma poi abbiamo trovato più conveniente comprarla dalla Francia (le centrali nucleari ne producono più del necessario e il surplus viene venduto a prezzi convenienti). Importiamo gas, petrolio e carbone. Dipendiamo da altri paesi e siamo ostaggio dei fornitori. La lezione avrebbe dovuto essere chiara già dai tempi della crisi del petrolio, negli anni 70, quando gli sceicchi decisero di alzare il prezzo del combustibile. Ora dipendiamo dall’estero per la manodopera, per i combustibili e per il cibo. E c’è un’altra cosa che quei paesi possono fare.