di Antonio Devicienti
Il Declaro: il 17 maggio 1991 un uomo alto e dinoccolato, folta la barba sul viso, vende per le strade di Lecce un foglio ciclostilato che si chiama Il quotidiano dei poeti. Lo stesso farà ogni giorno fino al 30 maggio e, in molte città italiane, amici e collaboratori distribuiranno quel foglio che non parla di poesia, ma pubblica quotidianamente poesia. Quella persona timida, determinata e geniale si chiama Antonio Leonardo Verri ed è un intellettuale e poeta che si nutre della tradizione popolare salentina e del dialetto (Verri è di Caprarica – la “città delle capre” dove ancora si usa il griko, l’antica parlata neoellenica frammista a vocaboli neolatini) e delle più audaci sperimentazioni a lui contemporanee: è scrittore e animatore culturale instancabile. Verri muore in un incidente automobilistico il 9 maggio 1997.
Lecce vecchia è tutta raccolta nel perimetro delle mura, le sue chiese scandiscono i diversi punti della città e tre antiche porte (Porta Carlo V o Napoli, Porta Rudiae e Porta San Biagio) danno accesso a un mondo che, liberato dal belletto e dal teatro inventato per i turisti, è ben altro dai dolciastri cliché che fanno vendere pacchetti-viaggio tutto compreso. Questo vale per Lecce, come per l’intero Salento e di nuovo ci soccorre l’opera di Verri: egli è ossessionato dalle vicende otrantine del 1480, sente viva la storia in una terra che diventa periferica e isolata proprio a partire dall’anno 1453, caduta di Bisanzio. L’amore contrastato e difficile tra una Cristiana e un Turco che costituisce il nucleo del Pane sotto la neve ha qualcosa di affine con l’ossessione che Carmelo Bene nutre per le spoglie dei Martiri custodite negli armadi a vetri nella Cattedrale di Otranto (leggasi Nostra Signora dei Turchi). Non si tratta della versione facile e vulgata dell’assedio ottomano di Otranto raccontata da Maria Corti nel romanzo L’ora di tutti, ma di un portare al livello della scrittura ossessioni personali che sono anche ossessioni collettive e la Terra d’Otranto è, secondo l’ormai celebre formulazione di Ernesto De Martino, la “terra del rimorso”, il luogo in cui il rimosso e il non realizzato morde e rimorde. La presa di Otranto si riverbera nella scrittura verriana come shock che costringe all’apertura verso l’alterità, si ripercuote di secolo in secolo fino a un Novecento nel quale il Salento si scopre colonia in lotta per la propria emancipazione. Una plurimillenaria cultura tenuta in stato di subalternità cerca e trova riscatto nella scrittura di Antonio Verri, quella ch’egli chiama la cultura dei tao e che significa la semplicità e l’antichissima saggezza della cultura contadina, la sua concordia con l’alternarsi delle stagioni e la sua consapevolezza del dolore: i tao sono spiritelli dell’aria, o, meglio ancora, della “mezz’aria” che presiedono alla cultura contadina del Salento, ispirandone genialità e malinconie, timidezze e stravaganze.