In dodici versi tutto l’orrore della guerra

Per esempio, da sempre gli uomini hanno rappresentantato la guerra attraverso la poesia, attraverso la pittura, ogni altra forma d’arte. Lo stanno facendo anche in questo tempo di guerra. Non hanno mai potuto farne a meno. Non possono farne a meno. Ecco. Forse si potrebbe dire che lo fanno perché attraverso un simbolo, una metafora, riescono a spiegare il senso assoluto della guerra che la reale tragedia  non riesce a spiegare. Forse lo fanno perché hanno  speranza che  possano comprendere cosa sia la realtà della guerra anche coloro che quella realtà non  la vivono.  Poi quello che accade dimostra che la speranza si rivela spesso vana. Ma questo è tutto un altro discorso.  

Allora uno guarda le immagini che gli arrivano da una delle città dell’Ucraina sventrate dai bombardamenti, dalle bordate dei carrarmati, guarda quelle immagini e gli vengono in mente certi versi. Basta che abbia frequentato la scuola media perché i versi che dirò nella  riga che segue si imparano a memoria nella scuola media ( e se non s’imparano è un peccato grave). 

“Di queste case/non è rimasto/che qualche/brandello di muro/ Di tanti/ che mi corrispondevano/
non è rimasto/ neppure tanto./ Ma nel cuore/ nessuna croce manca/ É il mio cuore/ il paese più straziato”.

Ungaretti scrisse San Martino del Carso il 27 agosto del Millenovecentosedici, sul Monte San Michele. Ma nella distanza di tempo di  un secolo e oltre,  quel luogo di cui dice Ungaretti  non è più San Martino del Carso. Quel luogo si chiama Mariupol, per esempio. La poesia di Ungaretti  sta spiegando la realtà della guerra (delle guerre) di questo tempo  e la condizione dell’uomo nella realtà di questo tempo. Quei dodici versi non hanno più un luogo, non hanno più una data. Dicono di ogni luogo stravolto dalla guerra, di ogni cuore maciullato dalla guerra. Stanno spiegando il senso abissale di ogni guerra a chi ha avuto la provvidenza di non ritrovarsi nel suo orrore. Quei versi c’erano prima di questi giorni, ma  mostrano la realtà di questi giorni e ne esprimono il senso mostruoso, l’assurdità della distruzione.  Rappresentano il terrore muto, la rassegnazione sbigottita, il deserto che invade ogni recesso della condizione interiore.

Poi l’assedio lo ha raccontato tanto tempo fa un altro poeta che rispondeva, forse, al nome di Omero. Lo ha raccontato una volta per tutte perché da quella volta l’assedio non è mai cambiato.

Allora uno guarda le immagini della realtà ma molto spesso per comprendere quello che è venuto prima e che verrà dopo una certa  realtà ha bisogno  di un’arte che glielo spieghi. Ha bisogno di una finzione capace di mettere insieme circostanze e condizioni  provenienti da situazioni e  contesti diversi  annodando  motivi, moventi, finalità, passioni,  sensazioni, emozioni, analogie, differenze,  e tutti i torti e tutte le ragioni che riguardano ogni condizione dell’umano, compresa la felicità, compreso il dolore. Compreso anche il sogno.

Probabilmente a questo serve l’arte. Probabilmente se non serve a questo, allora l’arte non può servire  a niente.  

[“Nuovo Quotidiano di Puglia”, Domenica 10 aprile 2022]

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