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Citazione da un testo di storia ad uso dei licei dell’anno 2321 d. C. “Il virus denominato Covid 19 con le sue varianti si diffuse in tutto il pianeta negli anni 2019-2022, mentre la popolazione mondiale era in procinto di raggiungere gli otto miliardi di individui. Sulla base delle prescrizioni dei virologi, tutti gli stati imposero severe misure di riduzione della libertà dei cittadini. In particolare, fu limitata la libertà di movimento, di riunione, di relazione. La libertà di espressione fu salvaguardata, sicché tutti poterono dire la loro opinione su quanto stava accadendo. Alcune case farmaceutiche in breve tempo fornirono i vaccini necessari ad immunizzare la popolazione, arricchendosi notevolmente, mentre la popolazione si impoveriva e si indebitava a causa delle continue chiusure (lockdown). I nuovi governi a capo degli stati assunsero la denominazione di Governi del debito, impegnandosi nel loro scopo principale, ovvero ripagare nel più breve tempo possibile il debito contratto durante la pandemia. Essa, come aveva previsto Bill Gates (imprenditore, programmatore informatico e filantropo dell’epoca), cessò nell’anno 2022, dopo aver causato nel mondo sei milioni di morti. Nel frattempo i ricchi erano diventati più ricchi e i poveri più poveri. Il quadro geopolitico era rimasto quasi invariato (…)”.
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Libri scolastici. Carlo Franco, Ma oggi a quali Greci dobbiamo guardare? in “Alias-Il Manifesto” del 14 febbraio 2021, p. 6, rimpiange i bei tempi andati, quando nei licei vi “erano antologie in un volume unico, formate da testi con sobrie annotazioni (niente illustrazioni, esercizi, questionari). In quel tempo i libri per la scuola potevano avere vita lunga, e conquistare l’antonomasia: lo Zenoni, il Tantucci, lo Spini, l’Argan (…) Per greco e latino, al liceo, si leggevano testi, si traduceva, si studiava la storia letteraria. (…) Ora sono obbligatori o comunque previsti dentro e intorno a ogni libro scolastico corredi d’ogni genere: non solo i materiali online, ma anche le soluzioni degli esercizi e le traduzioni dei testi da tradurre. (…)”. Risultato: “… viene distrutta la proclamata ‘centralità del testo’ “. Conclusione: “I classsics potevano essere, e non saranno, patrimonio di una formazione europea. E invece avranno vita breve, perché il mondo nostrano dell’istruzione liceale si è adeguato (con lentezza, ma in modo definitivo) all’imposizione tecnocratica”.
Insomma, appare chiara la manovra: questi nuovi libri così ricchi di materiali d’ogni genere, immagini, colori, schede approfondimenti, recuperi, letture, mappe, esercizi, parole-chiave, schemi, attività, laboratori, ecc. (“opera di un ‘cantiere’ a cui contribuiscono molte maestranze”, scrive Franco), sono una cortina fumogena creata ad arte per nascondere quanto davvero importa: imparare a conoscere che cosa hanno detto i classici. Infatti, che se ne fa la tecnocrazia del sapere degli antichi?
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Filo. Sta cosa nu me piace filu. Traduzione: Questa cosa non mi piace per niente, dove filu (filo) significa niente. Leopardi, Zibaldone 2311-2312 (Edizione Damiani, pp. 1498-1499), ci spiega che “noi diciamo filo per nulla, il che potrebbe derivare non da filum, ma da hilum, mutato l’h in f, come viceversa gli spagnoli, onde appunto per filum dicono hilo. E ricordati di quanto ho detto circa l’antica proprietà della f, cioè di essere aspirazione… (30. Dic. 1821.).”. In precedenza Leopardi aveva spiegato che “par dunque probabilissimo che l’antico e quasi ignoto hilum volesse dir materia, e fosse tutt’una radice con ὕλη e silva adoperata per essa in senso di materia” e che da hilum abbiamo nihil e nil”.
Il nulla, la materia, la selva: quante cose evochiamo quando diciamo: “Nu me piace filu!”.
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Avviso ai risparmiatori. Fabio Mini, Ultima o penultima spiaggia?, in “Limes” 3/2021, pp. 102-103, dopo aver considerato che “l’Italia è un paese ad alto tasso di risparmio privato”, che costituisce un vero “tesoro”, afferma: “… nel momento in cui si depositano in banca, i soldi non appartengono più al risparmiatore e non sono nemmeno soldi. Le banche li trasformano (loro dicono “investono” in pezzi di carta derivati di altri pezzi di carta il cui valore diventa fittizio e supera di molto l’intero ammontare del denaro circolante. La prova della “bolla” sta nel considerare l’opzione di ritirare i soldi depositati. Se lo facessero contemporaneamente tutti o anche solo la metà dei risparmiatori le banche chiuderebbero. Non fallirebbero grazie ai regali di Stato, ma farebbero pagare le perdite ai risparmiatori stessi. Il tesoro, di fatto, non esiste. E ben lo sa chi passa il tempo a decantarlo e trovare soluzioni per convertirlo in altri pezzi di carta.”
Insomma, viviamo in una bolla di denaro che da un momento all’altro potrebbe esplodere. Se esplodesse, i risparmiatori si ritroverebbero con un pugno di mosche in mano. Ecco perché il fine ultimo di tutti coloro che si occupano di denaro (economisti, finanzieri, speculatori, politici, ecc.) è quello di impedire che la “bolla” scoppi e che il denaro svanisca nel nulla. Si sa che una bolla di sapone scoppia quando entra in contatto con un oggetto. Bisognerebbe chiedersi: quale sarà l’oggetto che farà esplodere la bolla di denaro? Coloro che “decantano” il tesoro dei risparmiatori somigliano molto ai bambini felici che seguono il volo della bolla di sapone, soffiando perché essa rimanga in aria, prima di sperimentare con triste meraviglia il sapore amaro della delusione quando essa improvvisamente scoppia.
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L’interfaccia del barocco. Lo sfarzo delle chiese e dei palazzi, la vita gaudente dei ricchi e dei potenti, e poi le catapecchie dei poveri, la miseria e la sofferenza degli appestati. Tra gli uni e gli altri, forse, v’era bisogno di una mediazione. Ecco che cosa ci racconta Antonio Cesari, Vita breve di San Luigi Gonzaga, Da Giocondo Messaggi, Tipografo Librajo, Milano 1858, pp. 84-85, a proposito del santo di Castiglione delle Stiviere: “Si flagellava, cosi tenero di complessione il meno tre volte per settimana, e non mollemente, ma fino ad insanguinare, e fu poco. Negli anni ultimi, dico dei passati nel secolo si disciplinava ogni dì, e da ultimo procedette fino alle tre volte il di, fra il giorno e la notte, e sempre a sangue. E non avendo al principio flagelli a mano, lavorava con guinzagli di cane che gli erano dati innanzi per casa, o con funi trovate a caso ed anche con catenelle di ferro. Talora fu da’ servidori, sopravvenutigli in camera, trovato ginocchione disciplinandosi, e rifacendogli il letto, trovarono sotto il capezzale questi flagelli, co’ quali solea battere il suo corpo innocente. Furono mostrate una volta alla marchesa sua madre le camicie di Luigi tutte insanguinate; e non è a cercare come a questa vista ella fosse trafitta, e risaputolo eziandio il padre, disse alla moglie con molto dolore: – Questo figliuolo si vuol da sé medesimo dar la morte »”.
La sofferenza autoinflitta, il masochismo di Luigi Gonzaga – ch’era, non dimentichiamolo, il ricco rampollo ed erede d’una celebre e nobile famiglia, colui che aveva rinunciato a tutto per conquistare per sé e per gli altri il paradiso -, fungeva dunque da medium tra gli estremi della condizione umana nell’età barocca. Egli puniva il suo corpo barocco col piacere che può dare la certezza del raggiungimento di un fine, che avrebbe annullato ogni ingiustizia, riequilibrato ogni diseguaglianza, avrebbe salvato potenti e derelitti insieme, finalmente eguali dinnanzi a Dio.
Ed oggi – mi chiedo -, nell’era del neobarocco, nella quale viviamo, chi esprime e come (cioè quale rapporto ha col proprio corpo e con la propria ricchezza) questa necessaria mediazione tra i detentori della ricchezza e gli ultimi del mondo che muoiono ogni giorno sulle spiagge del Mediterraneo?