Il teatro di Luigi Pirandello secondo Ettore Catalano

            Intanto, negli anni della sua formazione universitaria e dopo, prosegue la passione per il teatro e si rafforza ancora di più attraverso il rapporto con diversi autori, attori e registi pugliesi che cita nella sua Introduzione. Ma un altro momento fondamentale è costituito dall’incontro e dalla collaborazione con Vito Signorile e il Teatro Abeliano di Bari e infatti nella elegante copertina del libro è riprodotta una scena tratta da Mal di luna, una novella di Pirandello elaborata per le scene proprio da Catalano, con Signorile come protagonista. Ma anche a Brindisi dove vive dal 1992, ha operato in campo teatrale, con la creazione di un Laboratorio aperto quello stesso anno e la recente regia teatrale di un’opera musicale di Nino Rota, Il principe porcaro, che fece il debutto al Teatro Verdi il 17 dicembre 2009. E qui mi sono limitato a ricordare i momenti principali dell’attività svolta da Catalano in questo campo, attività che conta anche diverse riscritture di testi pirandelliani e la stesura di opere teatrali come Ulisse e il narratore, da lui stesso messa in scena per il Teatro Abeliano, e Gli occhi dell’anima. Stanislavskij in prova con i suoi allievi, che figura alla fine di questo volume e che è una sorta di dichiarazione d’amore e di fiducia verso il teatro e verso la possibilità che ha il teatro di svelare una verità diversa, più profonda e autentica rispetto a quella della realtà di ogni giorno.

            Ecco, tutto questo era necessario ricordarlo per capire le caratteristiche, la specificità di questo libro che per tutti questi motivi esce fuori dai canoni accademici consueti e forse anche dagli schemi tradizionali della critica pirandelliana, perché affronta l’argomento, quello cioè del teatro del grande Agrigentino, a trecentosessanta gradi per così dire, non tralasciando alcun aspetto di esso. Intanto c’è un’attenzione al testo vero e proprio che però, come sappiamo bene, non è tutto per un’opera teatrale e a questo proposito giustamente Catalano critica quegli studiosi di letteratura teatrale che ignorano (o trascurano) tutti gli altri aspetti di un testo che (non bisogna mai dimenticarlo) è composto per la rappresentazione.

E quali sono questi aspetti che l’autore del libro prende in esame, insieme al testo, alla poetica, alle teorie di Pirandello? Sono il lavoro svolto dal regista che spesso può offrire nuove chiavi di lettura a un’opera allo stesso modo di un’analisi critica su un testo letterario, la recitazione di particolari attori che ugualmente possono dare contributi preziosi, insomma la messinscena di un’opera teatrale. In queste pagine sfilano perciò, i nomi dei maggiori critici pirandelliani di questi ultimi decenni (Leone de Castris, Borsellino, Alonge, Mazzacurati, Alessandro d’Amico), oltre ai primi illustri recensori (Gramsci, Gobetti, Silvio d’Amico) e a due scrittori siciliani che hanno avuto intuizioni illuminanti come Leonardo Sciascia e Gesualdo Bufalino, ma s’incontrano anche i nomi di registi famosi: dai più antichi come Pitoëff e Reinhardt a GiorgioStrehler, Luca Ronconi, Mario Missiroli, Massimo Castri, che Catalano stima particolarmente, fino ai due registi e autori palermitani, Enzo Vetrano e Stefano Randisi, che hanno offerto nel 2009 una messinscena innovativa di Pensaci Giacomino!. E, accanto ai registi, i grandi attori pirandelliani: da Angelo Musco a Ruggero Ruggeri, da Marta Abba a Salvo Randone, Sergio Tofano, Romolo Valli, Turi Ferro, Gastone Moschin, Giorgio Albertazzi e altri ancora tra i quali il critico fa anche il nome dell’attore brindisino Alfredo De Sanctis, che però rifiutò di recitare in Pensaci Giacomino!.

            E non è ancora tutto. Catalano ci mette anche la sua conoscenza diretta del lavoro che si svolge sul palcoscenico, la sua pratica teatrale che gli permette di valutare al meglio tutti questi aspetti. Ma entriamo ora più da vicino nel merito del libro. Ovviamente è impossibile riassumere tutto il contenuto di questo volume che è complesso, ampio, articolato, poiché racchiude, in un certo senso, come abbiamo detto, il lavoro di una vita, almeno su questo argomento. E infatti i saggi in esso presenti coprono tutto l’arco temporale della produzione pirandelliana: dal primo romanzo, L’esclusa, composto nel 1893 ma pubblicato nel 1901 e dalle prime opere teatrali in dialetto siciliano, risalenti ai primi anni del secolo scorso, agli ultimi capolavori, I giganti della montagna e Non si sa come, rispettivamente del 1933 e 1934.

Ma vediamo intanto perché è intitolato così. Ecco, Le caverne dell’istinto è un’espressione dello stesso Pirandello che si ritrova proprio nei Giganti della montagna. Qui, a un certo punto, il mago Cotrone che ha occupato la villa abbandonata «La Scalogna» dice: «Non ho mai fatto altro in vita mia! Senza volerlo, Contessa. Tutte quelle verità che la coscienza rifiuta. Le faccio venir fuori dal segreto dei sensi o, a seconda, le più spaventose, dalle caverne dell’istinto». Ed è proprio questo il filo conduttore del libro: la capacità che dimostra Pirandello di tirar fuori verità nascoste, anche difficili, smascherando convenzioni, ipocrisie, comportamenti abituali dettati dalla convenienza, verità quindi che mettono in crisi certi modi di fare, di pensare della società borghese.

Non a caso, fin dall’inizio l’autore parla della qualità «eversiva» dell’umorismo pirandelliano, del «sentimento del contrario», che, com’è noto, è il concetto principale della poetica dello scrittore siciliano. Questo mi sembra il concetto critico che sta alla base dei vari saggi presenti nel libro. Ma perché eversivo? Perché Pirandello nelle sue opere, sia letterarie che teatrali, sottopone a un’indagine spietata istituzioni o comunque aspetti  fondamentali della società dati per assodati, come la famiglia, il rapporto uomo-donna, la maternità, la sessualità e li rimette in discussione, ne fa vedere il lato nascosto o che non si vuole vedere a causa, come si diceva, delle convenzioni, della salvaguardia delle apparenze, delle convenienze sociali. E nel far questo, egli attua un capovolgimento delle soluzioni, quasi sempre rassicuranti, date da altri autori teatrali del tempo come, ad esempio,  Giuseppe Giacosa e Marco Praga. A questo proposito, Catalano, nel saggio Maschere femminili e strategie teatrali, mette a confronto il diverso trattamento del tema del tradimento e dell’infedeltà coniugale da parte di questi due esponenti del teatro borghese di fine Ottocento in due commedie come Tristi amori di Giacosa e La moglie ideale di Praga e quello dato invece da Pirandello nella Morsa, e fa osservare che qui si assiste a un epilogo drammatico, il suicidio del marito della protagonista, che lascia poco spazio quindi al ‘lieto fine’ o comunque a una soluzione di compromesso, come avveniva di solito nel teatro borghese del tempo.

            Ma questa problematica viene giustamente inserita dall’autore del libro in un panorama più ampio, di respiro europeo, in cui il grande drammaturgo in fondo si è sempre collocato. E qui i nomi dei primi, grandi ‘eversori’, sia in campo teatrale che filosofico, dei concetti di famiglia, di sessualità, del rapporto maschio-femmina, sono quelli di Schopenhauer, Ibsen, Strindberg, Wedekind, Weininger con la sua opera Sesso e carattere, di cui Pirandello subisce le suggestioni (e molte pagine del libro sono dedicate a questo rapporto).

Il tema della famiglia, della crisi della famiglia tradizionale, patriarcale si affaccia già, ad esempio, nel primo romanzo pirandelliano, L’esclusa, che è oggetto di analisi nel primo saggio. In quest’opera, in cui si attua, per dirla con Leone de Castris, la «sperimentazione critica del naturalismo in vista del suo dissolvimento», lo scrittore conduce già un’analisi sulla famiglia che nella sua concezione diventa, secondo la definizione di Catalano, la  «cellula tumorale dell’intera società». Qui infatti emerge il personaggio di Marta, la protagonista, che, com’è noto, viene accusata di adulterio quando è innocente e assolta invece paradossalmente quando lo commette e che perciò alla fine si sente estranea, «esclusa» appunto da un mondo virile (quella del padre prima, e poi del marito e dell’amante), che l’ha abbandonata e tradita.

Al rapporto tra i sessi, anzi alla vera e propria «guerra dei sessi» (come la chiama il critico) che scoppia nella cultura europea primo novecentesca e di cui Pirandello è uno degli interpreti più alti sono dedicati vari saggi del libro. In quello intitolato La castità impura: avventure e metamorfosi di Don Giovanni in Sicilia, ad esempio, si esamina la trasformazione e «il complesso processo di liquidazione di quel personaggio e di quel mito, da cui scaturisce uno scenario nel quale protagonista diventerà la maledizione femminile», proprio, come si diceva poco fa, in base alle teorie di Ibsen e Strindberg, di Weininger e Wedekind che rimettono in discussione il rapporto maschio-femmina.

E, in questo saggio, Catalano incomincia anche l’analisi di quel complesso rapporto tra Pirandello e la sua attrice prediletta, Marta Abba, rapporto caratterizzato dall’«inquieto platonismo della vicenda amorosa che li legò». Ma questo esame è condotto non in maniera superficiale alla ricerca di eventuali gossip, ma in maniera rigorosa, servendosi delle lettere dello scrittore alla Abba e soprattutto descrivendo le «ricadute teatrali» di questa passione. Perché, com’è noto, Pirandello compose per lei vari testi teatrali, Diana e la Tuda, L’amica delle mogli, Come mi vuoi, Trovarsi, nei quali in qualche modo si rispecchia questa torturante passione del vecchio scrittore per la giovane e bella attrice.

Anche altri interventi sono dedicati al tema dell’eros in Pirandello che per Catalano è un motivo centrale della sua opera, al punto che parla di una «intensa qualità erotica della scrittura pirandelliana», un eros che ha precise radici mediterranee, come scrive in un saggio. E molto  suggestive sono appunto alcune pagine su questa mediterraneità dello scrittore siciliano, che si rivela attraverso la presenza di immagini che assumono una particolare valenza: l’immagine della luna, ad esempio, associata, in un brano del Taccuino segreto, alla carne, al sangue, al vino, alla donna e che figura in tante sue opere, come nella novella Male di luna, la quale, come s’è detto, ha fornito la base per una elaborazione drammaturgica da parte di Catalano; o ancora il mito della mater tellus, della madre terra, presente nella Nuova colonia, con cui Pirandello rinnova totalmente la concezione della maternità, svuotandola dei connotati veristico-carnali e dandole un «travestimento mitico e mitopoietico».

Ma abbiamo detto che l’autore non trascura alcun aspetto dell’opera di Pirandello, non solo quindi il testo ma anche la sua esecuzione scenica. Nel saggio dedicato al teatro dialettale siciliano, ad esempio, si sofferma sul rapporto tra lo scrittore e gli attori che a lui sembravano più adatti per queste rappresentazioni. E qui assai interessante è la vicenda che portò il drammaturgo a rifiutare per le sue opere un attore allora assai noto come Giovanni Grasso, legato alle fortune del teatro verista, e a puntare invece su quello che doveva diventare il primo grande interprete del suo teatro, Angelo Musco, del quale apprezzava la recitazione «umoristica», anche se successivamente gli sembrò che, nel teatro dialettale, il farsesco prevalesse sull’umoristico e decise di scrivere solo in italiano.

Così pure nel libro è rivolta l’attenzione al lavoro del regista che può dare una nuova interpretazione di un testo teatrale. E qui vorrei segnalare le pagine dedicate dall’autore ad alcune rappresentazioni di Massimo Castri, come La ragione degli altri o Quando si è qualcuno, in cui il regista ha offerto nuove chiavi di lettura di queste due opere, o alle diverse ‘letture’, interpretazioni del terzo atto, quello rimasto incompiuto, dei Giganti della montagna, da parte di Strehler per ben tre volte, ma anche di Savini, Missiroli e Ronconi.

Ma, a questo proposito, il saggio forse più emblematico, è quello intitolato Pirandello uomo di teatro in cui emerge questa visione totalizzante, per così dire, del teatro che aveva lo scrittore e che anche Catalano, «uomo di teatro», dimostra di avere. Qui infatti viene esaminata la figura del Pirandello capocomico, direttore, regista, metteur en scene, sulla base di alcune testimonianze d’epoca di critici, scenografi, commediografi e sulla base del rapporto con le teorie, il metodo di Stanislavskij e del confronto con alcuni grandi registi stranieri dell’epoca che misero in scena i Sei personaggi in cerca d’autore come George Pitoëff e Max Reinhardt. E ciò che emerge con nettezza da una, in particolare, di queste testimonianze, quella dello scenografo Virgilio Marchi, è il rifiuto della teatralità, dell’«esibizione falsa e artefatta di un io miserabile che si aggrappa ai brandelli della verosimiglianza e al narcisistico bisogno del pubblico». Particolarmente significativo, a questo proposito, è un brano riportato da Catalano in cui Marchi descrive l’«incantesimo» che Pirandello sapeva creare in questi momenti.

Sempre al regista, oltre che all’autore di teatro, è dedicato il saggio sulla prima rappresentazione di Quando si è qualcuno, un’altra opera dalla «forte componente erotica» che rispecchia la relazione con Marta Abba. Ebbene, quest’opera andò in scena per la prima volta in Argentina, a Buenos Ayres il 20 settembre 1933, e venne interpretata in lingua spagnola. E qui, oltre che la bravura del critico che analizza, come al solito, il testo in modo profondo e accurato, emerge anche quella del ricercatore che recupera gli articoli e le recensioni della stampa argentina dell’epoca per ricostruire meglio la genesi e lo svolgimento della rappresentazione. In questo saggio ci sono accenni anche al dibattuto problema dei rapporti tra Pirandello e il fascismo, a cui lo scrittore, com’è noto, aveva aderito ma ai cui valori, come facevano notare gli stessi esponenti del regime, restava sostanzialmente estraneo.

Avviandoci verso la conclusione, vorrei far notare ancora un’altra caratteristica di questo libro e del suo autore, la sua capacità creativa, la qualità creativa della sua scrittura. Questa emerge, in particolare, in alcuni momenti che vorrei sottolineare. Ed è quando Catalano mette in rapporto, in maniera insolita e sorprendente e perciò ancora più apprezzabile, alcuni testi di Pirandello con opere pittoriche e musicali. Nel saggio sul romanzo L’esclusa, a proposito della «deformazione espressionistica e umoristica dei personaggi», fa un pertinente riferimento ad alcuni dipinti di Alberto Savinio, come a quello intitolato I genitori, nel quale il pittore dipinge queste figure, del padre e della madre, con il corpo di uomini e la testa di animali. L’altro riferimento, anch’esso imprevisto e illuminante, è al tango, di cui riprende l’interpretazione del grande scrittore argentino Borges a proposito del Berretto a sonagli e alla soluzione ‘umoristica’ data al problema del tradimento coniugale da Pirandello. Il tango che altro non è – scrive l’autore – «se non l’immagine capovolta di una già ben differente e straziata anarchia gerarchica di ruoli sessuali, se si pone mente alla sua origine “criminale” e omosessuale».

Ma, a proposito di questa tendenza ‘creativa’ di Catalano, vorrei soffermarmi brevemente sull’ultimo testo che compare nel libro, Gli occhi dell’anima. Stanislavskij in prova con i suoi allievi, che non è un saggio o uno studio come tutti gli altri, ma, come s’è detto, una vera e propria dichiarazione d’amore verso il teatro. Si tratta, infatti, di una breve composizione, divisa in quattro scene, in cui Catalano immagina Stanislavskij provare con alcuni attori della sua compagnia altrettante opere di Cechov, Goldoni, Ibsen e Moliére. Durante queste prove il grande regista ha modo di esporre le sue teorie sul teatro, il suo ‘metodo’, che consiste, come sanno tutti gli amanti del teatro, nel tentativo di mettere l’attore in condizioni tali da poter essere e vivere il personaggio che interpreta, contrapponendosi così a un teatro basato su clichés e ad attori che recitano meccanicamente seguendo stereotipi ormai collaudati. L’attore cioè deve agire come se ciò che avviene sulla scena avvenisse a lui realmente, ritrovando emozioni già vissute, analoghe a quelle che dovrebbe avere il personaggio che interpreta. E a questo proposito vorrei citare alcuni brani che Ettore attribuisce al regista russo.

All’attrice Tatiana che gli chiede qual è il «segreto» del Gabbiano di Cechov, risponde: «Ma il sogno di una vita spirituale elevata, magari proprio nel nostro campo artistico, lontano dalla meschinità dei beni materiali. Ecco… pensa all’umano con la maiuscola, ma non stare a fantasticare su pensieri religiosi. Non è questo il tempo in cui ci tocca vivere». E, ancora. a un giovane attore, Ivan, che gli chiede in che modo entrare nella parte, risponde: «È un’esperienza esaltante, talvolta, ma quasi sempre faticosa e difficile. Ecco, è una passione dell’intelligenza da cui far scaturire il sentimento della verità scenica. Attenzione… occorre rigore, non genericità. Tutti credono di saper essere gelosi, ad esempio, ma pochi sanno esserlo senza proporci una squallida insalata di passioni, sentimenti e pensieri. Ricordati: è sempre in agguato un terribile pericolo per noi attori: supplire all’assenza di sentimenti scenicamente veri con la meccanicità e la falsità dei chichés». E alla fine ecco il suo messaggio conclusivo alle generazioni future: «Questo mi sento di consegnare alle giovani generazioni: la mia esperienza di ricercatore del talento. Non voglio diventare un vecchiotto che vuole fare il giovane, lo troverei patetico, ma non vorrei neppure essere un vecchio troppo esperto che capisce tutto, intollerante e brontolone, che ha dimenticato gli errori della sua giovinezza. No, fatemi vivere ancora dentro le vostre emozioni, amatemi da lontano, lo so, questa è la sorte dei Maestri e se volete essere davvero miei allievi, traditemi, sì, ma con grandezza. Vi prego: non uccidetemi, dopo la morte!». Ecco – sembra volerci dire Ettore Catalano attraverso le parole che mette in bocca a Stanislavskij – solo con questo impegno globale degli autori, dei registi, degli attori, solo con questa passione umana e artistica, solo in questo modo insomma il teatro riesce a trasmetterci e ci trasmetterà sempre la sua magia, il suo eterno «incantesimo».

[In «Alba Pratalia», n. 17, dicembre 2010 e in A.L. Giannone, Scritture meridiane. Letteratura in Puglia nel Novecento e oltre, Lecce, Edizioni Grifo, 2020]


[1] Progedit, Bari 2013.

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