Taranto
Le due colonne ancora visibili del Tempio dorico di Taranto sembrano strette
tra il Borgo antico e il mare, tra i secoli (numerosi e spesso burrascosi) del
loro passato e il presente della città-martire.
Può sembrare un paradosso o un’assurdità scrivere ch’esse sono “strette” tra
Borgo e mare, visto che proprio il mare significa, solitamente, apertura,
respiro, luce, invitation au voyage – ma a Taranto, una delle porte
sul mare che il Salento ha, ben poco sembra suggerire, oggi, l’idea di libertà
e di ampiezza.
Le due colonne, che potrebbero essere pensate quale immagine visibile di
civiltà (Taranto è, tra l’altro, la città del grande Archita), trovano invece
una loro tragica, beffarda duplicazione nelle ciminiere dell’Ilva, in un’idea
di progresso ch’è viziata ed è malata già all’origine.
E città-martire è Taranto proprio perché vittima dell’Ilva e della sua natura
cancerogena, ma anche perché attanagliata dalla malavita organizzata, perché il
deserto infame e sterile che è ben visibile (e respirabile) per chilometri e
chilometri intorno agli impianti è anche un deserto spalancato nelle vite di
molte persone.
Qui confliggono (e in maniera atroce) due universi: quello ancora visibile
negli spazi del Museo Archeologico e degli ipogei e quello della depressione
sociale e culturale. Taranto si è divaricata in sé stessa, a Taranto si muore
ancora sul lavoro – eppure a Taranto c’è una vita possibile e umana.
Cercate in rete il cortometraggio di Christian Tito I lavoratori vanno
ascoltati. Entrate nel Salento, vi prego, per esempio da Taranto: e senza
farvi irretire dalle immaginette per turisti che non capiranno mai quello che
vedono.
(15 gennaio 2021)
Santa Cesarea Terme
… oppure si entri in Terra d’Otranto dalla costa adriatica, lì
dove si scorge in cima alla scogliera un palazzo moresco.
Lì è Santa Cesàrea Terme a sud di Otranto – e la costruzione moresca (Palazzo
Sticchi) è proprio la stessa nella quale Carmelo Bene gira buona parte di Nostra
Signora dei Turchi, sua meravigliante, esagerata, sbrigliata, geniale prova
d’attore.
Si cristallizzi nel Kaiserpanorama di oggi quella Santa Cesàrea,
il Salento ancora lontano dall’Italia e dall’Europa (malgrado il ’68 in atto),
ancora ricco di luoghi selvaggi e a stento accessibili, ma già svuotato di
buona parte della sua gioventù emigrata altrove, la sua antica civiltà
contadina già in fase di sfaldamento, strangolata tra una pseudomodernità in
arrivo e, appunto, la dissanguante emigrazione.
Ma a Santa Cesàrea Carmelo Bene e la sua esigua troupe girano, con mezzi di
fortuna, un film di dissacrante visionarietà, montano un poema per immagini e
per deliri e il palazzo moresco sulla scogliera, il pavimento musivo della
Cattedrale d’Otranto, la cappella in cui sono custodite le ossa degli 8oo
Martiri, la chiesa sconsacrata nelle campagne salentine, la Grotta Zinzulusa,
il centro di Gallipoli diventano spazi nei quali il corpo di Bene scrive il
lucidissimo delirio di un pensiero capace di totale libertà: de-lir/are
ovverossia “uscire dal solco tracciato”, scardinare le idées reçues,
rifiutare l’addomesticato e addomesticante senso comune.
Si entri nel Salento per questi due accessi gloriosamente non
facili: traverso Nostra Signora dei Turchi (e anche traverso tutta
l’opera di Carmelo Bene) e traverso i libri e le riviste di Antonio Leonardo
Verri, Declaro Poeta Pensionante de’ Saraceni.
(18 gennaio 2021)
Lecce, scantinati
… ma quello che davvero mi affascina è una Lecce antica, sì,
però nascosta e come affondata, celata a livello del suo basolato stradale, una
Lecce che bisogna immaginare e inseguire, con la necessaria lentezza, di angolo
in angolo, di androne in androne.
È il tempo pensato come stratificazione di fondamenta, di muri e di archi
eretti, talvolta ricostruiti, intonacati e riparati più volte, mentre fuori
scorre la storia. Ma dentro quelle stanze seminterrate, dentro quegli
scantinati, in quei ripostigli, ossari, sottoscale, nicchie l’accumularsi di
oggetti e di suppellettili, l’eventuale svuotamento di uno di quegli ambienti per
riempirlo con altri oggetti, o il suo più o meno lungo abbandono appartengono a
un tempo altro da quello della storia e della cronaca, da quello
della città visibile.
La città invisibile accumula particolari spesso sconosciuti anche ai
proprietari di quegli scantinati o depositi, lì vanno a stare oggetti
finalmente lasciati in pace dall’indaffararsi degli uomini: santi sotto campane
di vetro che per decenni hanno vegliato sul comò della camera da letto,
tricicli che hanno conosciuto l’urto con angoli di credenze o battenti di
porte, riviste impilate e legate con lo spago, candelieri in ferro battuto,
finimenti per cavalli, damigiane impagliate, cassapanche semiscardinate che
ospitarono corredi da sposa o divise militari.
A guardare in strada dalla feritoia di uno scantinato non si vede l’elegante
ricamo delle facciate né il giuoco dei cornicioni in pietra scolpita, a
scendere con cirscospezione lungo una scala di tufo fiocamente illuminata da
una lampadina a incandescenza si pensa a tutti quegli uomini e a tutte quelle
donne che hanno abitato Lecce prima di noi e scopriamo come per la prima volta
e con ingenuo stupore che la città non ci appartiene, che noi siamo solo
gli ultimi di una catena di generazioni cui Lecce appartiene a maggior diritto
che alla nostra, perché la nostra generazione deve ancora scrivere dentro quei
mattoni affondati, tra quelle intermessure di malta secolare, su quegli anelli
di ferro conficcati nelle pareti la propria fedeltà alla memoria.
Ed è ragionevole pensare che, per passaggi strettissimi, per canali
insospettabili, per botole e usci ormai invisibili, si possa passare da un
ambiente all’altro percorrendo tutta la Lecce interrata, anche perché la
materia di cui sono costruiti quegli spazi non è soltanto quella resistente al
tentativo di attraversarla fisicamente della pietra leccese, del legno, del
ferro, dello stagno, della ghisa e del rame, del vetro, ma è anche quella,
permeabilissima e porosa, del canto delle clarisse rimasto impigliato e
trattenuto qui sotto da secoli, della voce dei bimbi che giocavano a biglie e a
campana sul basolato delle vie tra Ottocento e Novecento, del richiamo dei
verdurai quando non distante da qui, a Napoli, Eleonora Fonseca Pimentel
difendeva Castel Sant’Elmo.
Fin qua sotto i mattoni e l’odore d’umido, le fioriture dei muschi e le danze
dei ragni hanno parole che finiscono in -u e suoni cacuminali, il tempo verbale
prediletto è l’aoristo, gli echi oscillano tra il greco-bizantino e il
castigliano, tra il salentino-borbonico e un italiano d’importazione, spesso
forbito e attento.
Gli scantinati di Lecce moltiplicano le esistenze possibili.
(1 febbraio 2021)
Ringrazio pubblicamente Gianluca Virgilio per il suo interesse nei confronti di questi miei testi; per me è un grande onore avere la possibilità di essere letto anche su “Iuncturae”.