Accade talora che una lingua, che non ha parole proprie per esprimere la novità delle cose, ricorra alle parole straniere anziché ad un’invenzione arbitraria, e nasce di qui il complesso concetto di barbarie. Per il Leopardi
“(…) Barbaro nella lingua non è dunque altro se non quello che si oppone all’indole sua primitiva (…)” (Zib. 819)..
Ciascuno scrittore, allora, deve usare il suo giudizio nell’introdurre la novità, dopo essersi impadronito bene della lingua medesima e averne conosciuto a fondo l’indole e le risorse.
Forme linguistiche dell’Ottocento e filosofia della prassi
Non c’è dubbio che la questione del linguaggio e delle lingue deve essere posta in primo piano, se è vero che una volontà collettiva è tenuta insieme anche e soprattutto da una lingua comune. Perciò Gramsci ha distinto le grammatiche spontanee e immanenti, innumerevoli come i gerghi e i dialetti, dalle grammatiche normative
“(…) che tendono ad abbracciare tutto un territorio nazionale e tutto il “volume linguistico” per creare un conformismo linguistico nazionale unitario, che d’altronde pone in un piano più alto l'”individualismo” espressivo, perché crea uno scheletro più robusto ed omogeneo all’organismo linguistico nazionale di cui ogni individuo è il riflesso e l’interprete”[65].
Ispira questo pensiero il principio che distingue nello sviluppo storico della lingua i tempi di maggiore naturalezza da quelli di minore creatività popolare. Nel primo caso la natura, e con essa il gusto, precede l’arte; nel secondo caso la lingua trova l’arte già formata e già padrona della scrittura e così essa si allontana dall’andamento e dalla struttura naturale e comune e universale del discorso. Nell’un caso e nell’altro tuttavia è fatto salvo lo spirito pubblico creativo in quanto il linguaggio viene alla luce come una realtà per cui da una parte si rende sempre più cosciente la sfera della produzione materiale della vita, cioè l’energia e le forze praticamente sensibili, e dall’altra si tende a permeare di determinatezza storica il pensiero. Il linguaggio cioè corrisponde alla concezione di una cultura di una massa che opera unitariamente e genera norme di condotta non solo universali, ma anche nella realtà sociale. Tutte le forze dell’uomo sono nella natura, e anche il fare appartiene ad essa. Scrive Leopardi in Zib. 570
“Il solo preservativo contro la troppa e nocevole disuguaglianza nello stato libero, è la natura, cioè le illusioni naturali, le quali dirigono l’egoismo e l’amor proprio, appunto a non voler nulla più degli altri, a sacrificarsi al comune, a mantenersi nell’uguaglianza, a difendere il presente stato di cose, a rifiutare ogni singolarità e maggioranza, eccetto quella dei sacrifizi, dei pericoli e delle virtù conducenti alla conservazione della libertà ed uguaglianza di tutti (…)”.
E ancora in Zib. 114–115:
“La civiltà delle nazioni consiste in un temperamento della natura con la ragione, dove quella cioè la natura abbia la maggior parte (…). Dal che si deduce un altro corollario, che la salvaguardia delle libertà delle nazioni non è la filosofia né la ragione, come ora si pretende che queste debbano rigenerare le cose pubbliche, ma le virtù, le illusioni, l’entusiasmo, in somma la natura, dalla quale siamo lontanissimi (…)”.
Abbiamo indicato una categoria culturale leopardiana centralizzata nel rimedio della natura contro le disuguaglianze. Questa categoria è presente nel dibattito ideologico e intellettuale dell’Italia contemporanea ad opera della filosofia della prassi.
Il Togliatti dell’unità nazionale, dell’amnistia ai fascisti, dell’impegno a oltranza nell’elaborazione e approvazione della Costituzione, i caratteri della sua politica che, pur nella continuità di sviluppo, si distanziano da Gramsci almeno su due punti, e cioè il partito di massa, ben diverso dal gramsciano partito di quadri, leninista e terzinternazionalista e, soprattutto, l’accettazione del pluralismo e della democrazia, ricollegano il proletariato italiano, in linea di principio e di fatto, all’idea di nazione, di patria e di istituzioni, illuminando di luce nuova e diversa questi valori di virtù civica, di solidarietà e di libertà, e dando ad essi il fondamento della stabilità e della capacità di durare.
“(…) La lotta di classe ha scosso l’italiano dal suo torpore, gli ha dato virtù civili, virtù di ribellione, non virtù di pazienza (…). Ha un significato il suo pensiero e la sua azione, gli ha fatto considerare i rapporti che legano tra loro gli uomini con animo non più servile, ma libero”[66].
Vi è nella cultura linguistica dell’Ottocento una teoria tutta di origine sensistica per la quale il nome di una cosa o di un’azione, che cadono sotto i sensi, ha avuto origine metaforica, e quel nome, modificato di significato e di forma, è servito a esprimere le cose non sensibili e spesso è rimasto in quelle, perdendo il significato primitivo. Così in Leopardi in Zib. 1391:
“(…) ora le idee elementari ed astratte sono naturalmente le più difficili, anzi le ultime a raggiungersi, e a concepirsi chiaramente, e quindi ad essere formalmente e regolarmente espresse“.
Leopardi in Zib. 113-114 definisce in questo modo la parola partito:
“(…) contrasto [che] eccita anche qui sentimenti che in altro caso appena si proverebbero, e quello che non si farebbe mai per effetto proprio, si fa per opposizione altrui (…)“.
La parola difatti nella nostra lingua è un derivato di parte, vale a dire di un termine assai comune, usuale e necessario alla lingua medesima, cioè un elemento sensibile che poi ha perduto il senso primitivo ed è divenuto una parola propria, una metafora, partito.
L’aspetto sensistico della lingua si rinviene nell’Ottocento anche in Carlo Cattaneo:
“(…) E se analizziamo le nostre lingue, noi troviamo che le voci scientifiche più astratte sono traslati o derivati d’umili vocaboli d’ordine concreto e sensuale. E, se spingiamo l’analisi più avanti e riduciamo i derivati alle radici, troviamo residuare al fondo d’ogni più dotta lingua un capo morto di pochi monosillabi, di suono per lo più imitativo (…)”[67].
Questi aspetti tecnici non sono rimasti ininfluenti nella cultura linguistica progressista e nella filosofia della prassi.
Togliatti, come accade a tutti coloro che possiedono un conquistato senso della realtà, sempre esposta alle repliche della storia, rivela nelle sue parole il movente più profondo, cioè quello dell’azione. Utilizziamo a questo proposito la metafora leopardiana partito innanzi analizzata. A testimonianza che sorgente e radice universale di tutte le voci sono i puri nomi delle cose che cadono al tutto sotto i sensi, Togliatti ha potuto elevarsi fino a dare alla parola partito il significato di un valore in sé per via di una metafora salita dal puro senso all’astrazione metafisica:
“(…) In pari tempo il partito nuovo che abbiamo in mente deve essere un partito nazionale italiano, cioè un partito che ponga e risolva il problema della emancipazione del lavoro nel quadro della nostra vita e libertà nazionale, facendo proprie tutte le tradizioni progressive della nazione (…)”[68]..
“Zibaldone” e “Quaderni del carcere” modelli di pensiero antidogmatico
Così partito nuovo in Togliatti ha potuto significare un potente fattore di rinnovamento e di modernizzazione dell’Italia in primo luogo perché Togliatti ha fatto di Gramsci, nel volgere di pochi anni, il centro fortemente simbolico della politica e della cultura del PCI. Si è venuta così attuando in secondo luogo una più avanzata esperienza politica e civile e la classe operaia ha assunto una funzione storicamente nuova dopo il crollo del fascismo e con la guerra di liberazione, che hanno posto in crisi l’egemonia borghese. In altri termini partito nuovo significa un agire politico che è anche una funzione dello spirito in quanto volta ad organizzare avanguardie o masse di individui, come processo di coesione, di autodisciplina e di autoeducazione di moltitudini umane. Il partito così fa tutt’uno con la coscienza e diventa con essa inscindibile, ed è significativo che l’idea di partito nuovo non si trova nella elaborazione degli altri partiti comunisti, proprio perché è una formula nata insieme all’idea di un nuovo rapporto tra democrazia e socialismo. Naturalmente in tutto questo c’è l’aspetto di una modernità che ha i suoi riflessi nel linguaggio come educazione alla parola, e in quanto le relazioni tra gli uomini si manifestano o si celano anche nel linguaggio medesimo.
In questa modernità ci sembra di poter rinvenire un elemento essenziale dell’eredità culturale di Leopardi e di Gramsci, se è vero che lo Zibaldone e i Quaderni del carcere vanno assunti come modelli di pensiero antidogmatico nella tradizione intellettuale e civile italiana, in quanto in essi converge, ed ha un posto centrale la questione linguistica, traversata da un’alta tensione problematica.
Leopardi, del quale la critica ha spostato l’interesse verso la denuncia e la protesta, quale preconizzatore di una società nuova, pur senza assorbirlo in un materialismo sistematico, rifiuta lo spirito della cultura del suo tempo e smitizza tutti i miti culturali o letterali della società borghese ed elabora, come abbiamo visto, una teoria della lingua che in particolare serbi naturalezza, attinga alla conversazione senza smarrire la sua indole popolare e unisca insieme il momento francese della comunicazione sociale con il momento italiano della varietà e libertà del registro e dello stile. In questo modo può essere assegnato un ruolo e una funzione di avanguardia soltanto alla poesia.
Gramsci, invece, ha maturato la sua teoria degli intellettuali, della egemonia e della società civile, nel corso dei suoi interessi personali per il linguaggio, e la sua teoria linguistica evolve in senso filosofico e politico, ed è idonea a spiegare le fasi di sviluppo e il processo di formazione del conformismo linguistico nazionale unitario, cioè evolve in una metafora sociale che va sotto il nome di egemonia culturale, in quanto
“Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamneto della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale“[69].
Ben a ragione Stefano Gensini ha potuto scrivere:
“(…) Si trattava. in entrambi i casi, di trovare una via d’uscita da mali diversi di pensiero dogmatico, quello cattolico spiritualista (ma anche astrattamente razionalista) nel caso di Leopardi; quello idealista e marxistico-volgare nel caso di Gramsci; una via d’uscita laica da forme “forti” di filosofia, senza tentazione alcuna di cedimenti irrazionalistici (…)”[70].
Questa via la percorre Togliatti attraverso due argomentazioni simultanee e nello stesso tempo in contraddizione tra loro, in quanto l’una procede per forme di unificazione e l’altra per forme di molteplicità e di diversificazione. Ma anche qui cade opportuno l’approccio a Leopardi. Innanzitutto Leopardi in Zib. 2731 distingue le scienze esatte da quelle astratte.
(…) Chiamo qui scienze esatte quelle che ancorché non sieno ancor giunte a un cotal grado di perfezione e di certezza, pure di natura loro debbono essere trattate con la maggiore possibile esattezza, e non danno luogo all’immaginazione (…), ma solamente all’esperienza, alla notizia positiva delle cose, al calcolo, alla misura, ec. (30. Maggio. 1923.)”..
E oltre, in Zib. 4215:
(…) Anche l’ideologia narra, benché scienza astratta. Oltre che il nome di storia, secondo la sua generale accezione, significa racconto di avvenimenti successivi e susseguenti gli uni agli altri, non di quel che sempre accadde ed accade ad un modo. Questo racconto appartiene alle scienze. Esso è insegnamento (…)”..
Le scienze chiedono analiticità e razionalità interpretativa, capaci di cogliere forme che hanno ingrandito le opinioni naturali e stanno al di sopra dell’individuo. Natura e società associano con filo tenace generazione a generazione, e ciò accade a mezzo del linguaggio grazie al quale il discorso analizza il pensiero per tradurlo in parola e, viceversa, analizza la parola per estrarne il pensiero. Abbiamo tre fonti della cultura, unificate dal linguaggio: la natura, l’individuo, la società, in una parola la storia che si traduce in prassi, o, viceversa, la prassi che si fa storia.
Analisi e filosofia nella critica storica di Togliatti
Quel che Leopardi riferisce alle scienze, e cioè che dal metodo di esse deriva l’attività mentale che si concretizza nell’atto di analisi con cui la mente distingue le parti di un tutto, Togliatti riferisce alla storia in quanto, essendo il genere umano per sua primitiva e spontanea necessità gregario e sociale, il pensiero diventa l’atto più sociale degli uomini come quello che mediante libera analisi può attingere iniziative più eccelse e dar vita alla storia medesima. E’ l’aspetto unificante prima richiamato. Noi sappiamo difatti che vincolo intimo della storia è la tradizione che si attua soprattutto attraverso il linguaggio, e può assumere la funzione o di un indirizzo dato o di un vincolo imposto. Nella critica storica di Togliatti è chiaro il collegamento tra le scelte di politica culturale e la necessità anche di prendere le distanze dal dogmatismo e dallo stalinismo, visto che la sua cultura discende da una tradizione antidogmatica. Così egli scrive:
“L’Unione Sovietica ci dà un grande esempio di creazione di una cultura socialista (…). La creazione di una cultura socialista italiana è però un compito particolare nostro (…). Una cultura socialista è tale, infatti, per il suo contenuto, ma è nazionale per la forma (…). Per una cultura socialista italiana, Giordano Bruno e Galileo Galilei hanno un’importanza ben più grande che per altri paesi, per ciò che sono stati e per la traccia profonda che hanno lasciato (…). Il pensatore di cui in questo campo dobbiamo saper valutare sia le posizioni progressive che i limiti, è prima di tutto Francesco de Sanctis (…) per noi, però Antonio Labriola rimane il pensatore che, affondando le radici nella cultura italiana della metà dell’Ottocento, con un colpo d’ala apre al pensiero progressivo del nostro paese la via maestra del marxismo. L’importanza di Gramsci nello sviluppo della cultura italiana mi pare sia così grande appunto perché ha saputo muoversi con sicurezza in questa direzione e con questo metodo (…)[71].
Appare chiaro che nella critica storica di Togliatti la tradizione può essere il prodotto di vere e proprie ammissioni od omissioni di analisi primitive, e in questo caso il linguaggio finisce per diventare esso stesso un’analisi continua che diventa a sua volta prassi come momento dell’azione guidata dalla conoscenza storica tale, da connotare il marxismo di Togliatti con un’indicazione decisamente antiteoretica. E’ l’aspetto della diversificazione. Difatti Togliatti libera la ricostruzione storica dall’influenza diretta della politica e dalle sue esigenze, che è stato il modulo tipico dello stalinismo, e in tal modo conquista una concezione laica della ragion d’essere della storia, cioè una identità che senza remore può guardare, oltre che al presente, anche al proprio passato.
Diamo qui qualche esemplificazione testuale:
“(…) La questione romana è stata in Italia, niente altro che un ostacolo il quale impediva che rapidamente si arrivasse alla collaborazione completa e consapevole tra lo Stato e la Chiesa per allontanare la minaccia della rivoluzione proletaria (…)”[72].
Siamo nell’area di un’astrazione, vale a dire in ciò che vi è di più alto nell’intelletto, ma l’astrazione è cominciata nella pagina innanzi dall’atto analitico di Togliatti storico, al di là della tradizione e magari contro la tradizione ufficiale, circa il rapporto tra Stato e Chiesa.
L’11 febbraio 1929 vengono firmati i patti tra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano. Il commento ufficiale dei comunisti italiani appare su “Stato Operaio” III, n. 2 con lo scritto Fine della questione romana a firma Ercoli, pseudonimo di Togliatti. Il nucleo dello scritto vuole essere la rappresentazione del vero potere temporale del papa, potere ben diverso da quello della storia ufficiale.
“(…) Il dominio temporale incomincia a diventare anacronistico quando lo Stato nazionale moderno si afferma (…). Chi diede il colpo di grazia al potere temporale non furono i cannoni del povero Cadorna, ma fu lo sviluppo del capitalismo. Lo sviluppo del capitalismo opera sopra l’involucro dei vecchi rapporti feudali o semifeudali, come un reagente e come un esplosivo (…). Armato della sua vecchia potestà temporale, il papa è, tra potenze capitalistiche, un personaggio ridicolo ed impotente (…). Il sacco di Roma dato nel ‘500 dalle soldatesche di Carlo V, e la famosa “breccia” del ’70 si assomigliano come un dramma e la sua parodia (…) il papato del giorno d’oggi, invece, il papato che ha firmato l’accordo con lo Stato italiano (…) è andato alla scuola del regime parlamentare, della democrazia borghese e dei partiti politici, del giornalismo, della banca, della espansione coloniale e della organizzazione operaia (…). Esso è una potenza che in questo modo cerca di esercitare nel modo più adatto alla circostanza, la sua funzione di conservazione dell’ordine sociale esistente. Per questa potenza la questione romana, intesa come contrasto per un possesso territoriale, è evidente che non può più avere un senso”.[73]
Togliatti ha scomposto, composto e ricomposto, attraverso le giunture vive del linguaggio, le giunture vive del suo pensiero, intrecciando le vicende storiche e le motivazioni temporalistiche della gerarchia della Chiesa lungo i secoli e giungendo così, mediante la libera analisi, all’astrazione: la minacciosa prospettiva della rivoluzione proletaria.
In Togliatti inoltre si rinviene il momento metodologico della storiografia, cioè la capacità di elaborare quei concetti universali che rendono allo storico intelligibile la storia.
Siamo nell’area della filosofia crociana, cioè al primo momento della formazione culturale togliattiana attraverso Gramsci, e precisamente all’identificazione della filosofia con la storia, se per filosofia si intende elaborazione delle idee contenute nei fatti storici e chiarificazione dei concetti attraverso la loro storicizzazione, in quanto non vi può essere vita spirituale nella quale il contenuto non abbia una sua forma concettuale. Nella critica storica di Togliatti l’esperienza con la quale egli identifica la realtà è quella del mondo moderno rispetto a quella naturalistica propria del positivismo. Un esempio si può cogliere nel suo scritto su Giacinto Menotti Serrati che è stato l’erede di tutte le qualità della prima generazione socialista, e cioè l’attaccamento alla classe operaia, l’internazionalismo e l’intransigenza di classe. Serrati si limita all’opposizione pura e semplice alla guerra, ma prende chiaramente posizione per la rivoluzione russa, contro il neutralismo di Lazzari e contro il difensivismo e il socialpatriottismo di Turati. Ma ascoltiamo Togliatti:
“(…) Su questa strada che seguì durante la guerra avrebbe potuto andare molto lontano (…). poi si fermò (…). Se egli avesse condotto la battaglia per fare del partito socialista la vera avanguardia rivoluzionaria del proletariato italiano, tutte le masse lo avrebbero seguito. Ma egli non seppe farlo. La sutura tra i vecchi ed i nuovi elementi non s’era ancora realizzata in lui in modo concreto. Nel momento decisivo, il fattore sentimentale, l’attaccamento al vecchio partito come organizzazione unitaria, ai suoi vecchi leader, alla sua tradizione, ebbe il sopravvento. Fu l’errore più grave della sua vita (…) Fu allora che senza di lui, fu fondato il partito comunista d’Italia (…). Serrati non tardò a ritornare tra noi (…). Col suo ritorno, Serrati divenne degno di riprendere il posto di primo piano che meritava (…)”.[74]
C’è nella pagina di Togliatti un giudizio storico che non assolve né condanna, bensì è volto a comprendere, in quanto nel meditare e nel contemplare non si fa altro se non cercare la verità, ossia pensare la storia, la storia di sé, degli altri, del genere umano e del mondo tutto; c’è inoltre una volontà di intendere l’uomo di cui si parla nel suo esatto valore originario e di coglierlo nella sua dimensione umana, ma per conquistare se stessi nella propria autonomia, e anche per collocare nella storia una fase di sviluppo della cultura socialista, al fine di un effettivo superamento di essa attraverso una riflessione sugli errori del passato. A proposito del concetto di filosofia che abbiamo analizzato in Togliatti, cade opportuno ancora una volta un rinvio a Leopardi. Leggiamo in Zib. 2709-2710-2711:
“(…) la filosofia moderna non fa ordinariamente altro che disingannare e atterrare. (…) perché in effetto la cognizione del vero non è altro che lo spogliarsi degli errori (…). I filosofi antichi seguivano la speculazione, l’immaginazione e il raziocinio. I moderni l’osservazione e l’esperienza. (E questa è la gran diversità tra la filosofia antica e la moderna). Ora quanto più osservano tanto più errori scuoprono negli uomini, più o meno antichi, più o meno universali, propri del popolo, dei filosofi o di ambedue. Così lo spirito umano fa progressi (…)”.
E’ adombrato in questo momento teoretico leopardiano il principio secondo il quale tutto nella storia è necessario, di una necessità non metafisica bensì logica, e tuttavia ciò non impedisce la revisione del giudizio sul passato, la quale può anche restar lontana dal vero, ma al pensiero certamente fornisce un metodo, un’arte, un abito che quel vero conduce a scoprire. Può anche accadere che le scoperte siano di là da venire, ma, se non si fanno delle ricerche, vuol dire che queste sono impedite dalla mancanza di libertà o che la volontà ha esercitato nell’uomo un dominio minore che non l’intelletto. La ricerca inoltre può non dar corpo alla verità, ma non c’è dubbio che essa talora cancelli un errore e una falsa opinione, quel che Leopardi ha chiamato spogliarsi degli errori.
Cancella gli errori chi li spiega nel momento della loro genesi, perché li comprende in quanto li considera come fatto umano e, come tale, soggetto ad esame e discussione critica. Così nasce la storia, quella che dà origine a conoscenza concreta più alta di ogni sottigliezza metafisica e teologica, la storia come educatrice dell’umanità. Questo è l’insegnamento che ci sembra sia venuto a Togliatti dal pensiero antidogmatico dello Zibaldone e dei Quaderni del Carcere.
[Proiezioni di linguistica leopardiana in Togliatti, in “Contributi”, Anno VI, N. 2-3, dicembre 1988, Congedo Editore, Galatina, pp. 43-48.]
Note
[62]A. Gramsci, L’Ordine Nuovo (1919-1920), cit., pp. 69-70.
[63] Franco Lo Piparo, Studio del linguaggio e teoria gramsciana, in “Critica marxista, n. 2-3, 1987, pp. 172-173 e passim.
[64] Avvertiamo qui che tutte le citazioni dallo Zibaldone di Leopardi presenti in questo libro saranno contraddistinte dal titolo del testo appuntato e in corsivo (Zib.) seguito dal numero del pensiero, secondo il testo critico a cura di Rolando Damiani, Mondadori, Milano 1997.
[65] A. Gramsci, Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino, 1975, n. 13, p. 2343.
[66] P. Togliatti, Opere, vol. I, Editori Riuniti, Roma, 1967, p. 74.
[67] C. Cattaneo, Scritti filosofici, letterari e vari, a cura di F. Alessio, Sansoni, Firenze, 1957, p. 276.
[68] P. Togliatti, Discorsi dall’aprile 1944 all’agosto 1945, Soc. Ed. “L’Unità”, Roma, 1945, p. 352.
[69] A. Gramsci, Quaderno 13, cit., p. 2343.
[70] S. Gensini, “Rinascita”, n. 34 del 5 settembre 1987.
[71] P. Togliatti, Intervento alla commissione culturale nazionale, in La politica culturale, Editori Riuniti, Roma *** pp. 201 e sgg..
[72] P. Togliatti, Momenti della Storia d’Italia, Editori Riuniti, Roma, 1974, p. 23.
[73] Idem, ibidem, pp. 20-21.
[74] Idem, ibidem, pp. 14-16.