Che cosa siano i libri di Joyce, è assolutamente inutile dirlo.
Invece, di questi tempi, sempre più frequentemente s’incontrano best sellers scritti con una sciatteria da far spavento. Provocano l’immediato pentimento per la spesa (che non è neanche poca). Nonostante, con molta probabilità, siano stati sottoposti ad una terapia intensiva di editing.
Ci sono forse innumerevoli ragioni per le quali si scrive, si dipinge, o si gioca a pallone, si vola a 300 all’ora su un’auto da corsa, si scalano montagne, si indagano fondali. Ciascuno ha il diritto di fare quello che vuole, per la propria ragione e a suo modo.
Ma c’è una cosa, probabilmente, che costituisce la radice profonda di quello che fa, senza la quale tutto diventa terribilmente banale. Questa cosa si chiama passione. A proposito della scrittura, più o meno un anno fa ho letto un saggio di Duccio Demetrio intitolato “Perché amiamo scrivere. Filosofia e miti di una passione”. Anche lo scrittore di professione, dice Demetrio, ritorna sempre ad una naturale condizione amatoriale, incerta ed eccitante, inquieta e disponibile a lasciarsi stupire dalla vita, dalle persone, dai fatti, dal dubbio, dall’ignoto. Nessuno potrà mai essere uno scrittore autentico, se avrà cessato di dare ascolto ai propri tormenti interiori, se di tanto in tanto non si ripassa quella frase di Simenon: “Scrivere non è una professione ma una vocazione all’infelicità. Non credo che un artista possa mai essere felice”.
Certo, si potrebbe anche rovesciare questa posizione e dire che la scrittura può essere una vocazione alla felicità, che si scrive per corteggiare l‘illusione di essere felici. Ma come che sia, di sicuro c’è che felicità o infelicità non dipendono dal successo, ma da quello che accade dentro. Aveva ragione Einstein quando diceva che non è importante il successo ma il valore.
[“Nuovo Quotidiano di Puglia” di sabato 7 luglio 2012]