A questo livello il movimento del ’68 è stato l’intrecciarsi di almeno tre rivoluzioni: della coscienza, dell’economia e della politica. Il loro insieme ha determinato un vasto e profondo mutamento culturale: si eliminano alcune umilianti differenze tra esseri umani partecipi della stessa natura. Le donne, infatti, possono disporre della propria intelligenza e del proprio corpo, ponendoli al servizio delle finalità oggettivamente assegnate loro anche dalla natura e dalla storia; i lavoratori, poi, possono aprire bocca e rivolgere la parola al “padrone” non solo per il dovuto servile ossequio, ma anche per esprimere la propria idea e rivendicare alcuni loro diritti fondamentali; tutti i cittadini, inoltre, ottengono l’esercizio del diritto alla salute del proprio corpo e della propria mente, passando dal ruolo di “pazienti” ubbidienti al ruolo di soggetti attivi, degni d’essere informati e capaci anche di decidere secondo la propria scienza e coscienza sul destino reale della propria vita.
La parola magica, poi, fu: “I segni dei tempi”. Anche le culture più conservatrici si piccavano d’ostentare la loro capacità d’interpretare i segni dei tempi e di muoversi secondo le nuove esigenze storiche da essi dettate. Il tempo e la storia, intessuti dall’azione dell’uomo, erano ora realtà che l’azione dello stesso uomo poteva e doveva orientare con ragionevolezza. Non erano, quindi, la morsa che attanagliava l’uomo e lo determinava in ogni suo pensiero e in ogni sua azione, né d’altra parte l’uomo era il titano che abbaiava meschinamente alla luna delle necessità storiche. Nasceva il dialogo tra la storia e la libera scelta dell’uomo, che doveva decidere, all’interno delle concrete proposte della storia, quale itinerario intraprendere e quali ulteriori obiettivi raggiungere, sia a livello individuale e sia anche collettivo, essendo egli attore del suo destino e coattore delle vicende dell’intera umanità.
Il ’68, quindi, voleva scardinare i rapporti, su cui si fondavano le strutture sociali, economiche e morali della vita “borghese” del tempo. Anche se poi, nella realtà dei fatti, ci fu una sostanziale restaurazione del vecchio in ogni parte, tanto in ovest che ad est. Non è difficile riscontrare ed elencare nomi di persone, che divennero poi uomini di governo. Ma non è nemmeno difficile riscontrare ed elencare nomi di persone, che divennero uomini di potere, spesso contro i diritti conquistati proprio dal movimento culturale del ’68. E che contribuirono a ricreare una “situazione di guerra”, polemizzando contro tutto e contro tutti indiscriminatamente. Essere polemico, infatti, significa andare contro qualunque cosa o persona s’incroci nella propria strada o si presenti nella propria vita, e che rivendichi – con legittima e doverosa esigenza personale – una propria identità. Il polemico non riconosce e non accetta qualunque diversità, perché la vede un pericolo mortale contro la sua smania di omologazione, che diventa spesso mania d’onnipotenza. Chi fa sempre polemica, in sostanza, è un “idiota”: capace di vedere solo se stesso e tutto ciò che gli somiglia, e incapace di riconoscere le infinite diversità, che, se accettate, lo farebbero non solo più ricco e più bello, ma soprattutto più uomo. La natura dell’uomo, infatti, sembra essere aperta all’indefinito, per cui non possono esserci realtà, per quanto diverse, che potrebbero impoverirlo e limitarlo. Chi si apre alla diversità accresce se stesso e tutti gli altri.
Intristisce l’animo, poi, il vedere come la negazione delle diversità e il perseguimento dell’omologazione a tutti costi – cioè esattamente il contrario della rivoluzione tentata e iniziata dal movimento del ’68 – vengano fatti in nome d’un diritto e d’un’etica sociali fondati sulla “democrazia” e sulla “economia” d’ultima generazione: quelle, cioè, che riconoscono come unico valore reale il libero mercato per le concentrazioni economiche e l’accumulo di capitali. Nascono le società, allora, nelle quali tutto ha un prezzo, ma nessun valore. E la persona umana perde ogni dimensione di reale dignità, divenendo un pezzo di una struttura produttiva, vero fine e senso del vivere dell’umanità. Alla massa si sostituisce l’individuo: ed è difficile stabilire quale delle due ideologie sia più nemica dell’uomo.
Ecco, allora, la domanda che ci poniamo: c’è un futuro per la rivoluzione già allora promessa ma ancor oggi attesa? E non sembra estemporaneo ricorrere alla «fiducia razionale», che affonda le sue radici nel messaggio morale ed etico di Immanuel Kant: l’ideale, in quanto ideale, non potrà mai trovare ospitalità nella vita reale, perché il suo senso è di rimanere nel cielo del possibile raggiungibile; la realtà, d’altro canto, non può affidarsi al gioco di presunte mani invisibili, ma deve mirare a realizzare consapevolmente e il più possibile il senso dell’ideale, che indica la direzione della giustizia e della libertà.
Fuori da questa speranza fondata sull’umana ragione, è molto difficile trovare fiducia per un futuro che voglia dirsi ed essere degno della dignità dell’uomo.