Sul piano politico, ne deriva un vero e proprio cortocircuito. Che fa riferimento a una dinamica che parte dall’aumento dell’indebitamento pubblico (non solo in Italia, essendo un fenomeno che coinvolge tutti i Paesi OCSE, e che attiene anche all’impiego di risorse pubbliche per i ‘salvataggi bancari’) e che modifica sensibilmente gli obiettivi dei Governo – acquisire ‘credibilità’ nei mercati finanziari – che, a sua volta, condiziona gli indirizzi di politica economica. Dunque: consolidamento fiscale per generare risparmi pubblici e moderazione salariale per accrescere il saldo delle partite correnti. Nel caso italiano, strumenti entrambi totalmente inefficaci ai fini della crescita economica e dell’aumento dell’occupazione.
Nel 1992, anno di stipula del Trattato di Maastricht, salvo poche voci isolate, la gran parte degli economisti italiani salutava con favore quell’accordo. Anche in questo caso profeticamente, don Tonino Bello ammoniva: “Verranno tempi duri proprio nel momento in cui ci stiamo preparando a vivere l’esperienza nella casa comune della nuova Europa, che a me si presenta anche con tristi presagi perché ha più il sapore di una convivenza economica, di una cassa comune che di una casa comune”. E ancora: “c’è una polarizzazione intorno a una nazione emergente, la Germania; e intorno alla sua moneta, il marco”. E infine: “L’Unione europea sembra svilupparsi non tanto in una convivialità di differenze quanto attorno al marco e probabilmente attorno a grandi nazioni che renderanno la nostra vita standardizzata un po’ sulla loro”. La sua fondamentale intuizione – che in quegli anni (e ancora oggi) sarebbe stata considerata un’eresia economica – è che la competizione fra Stati in un Unione fra Stati può essere distruttiva. E poiché l’Unione Monetaria Europea era (ed è) basata sull’assunto per il quale un’economia di mercato ‘fortemente competitiva’ genera crescita e benessere diffuso, apparivano inevitabili le preoccupazioni del vescovo di Molfetta. Preoccupazioni che oggi sono realtà.
In un intervento televisivo in RAI nel 1991, Don Tonino invocava un nuovo modello di sviluppo, chiedendo agli economisti di individuarne gli aspetti tecnici. Si era nella stagione dell’accelerazione del processo di unificazione europeo e il vescovo di Molfetta avvertiva la necessità di una integrazione soprattutto politica, basata su valori condivisi. Anche in questo caso, la sua invocazione risultò profetica. L’Unione – come è noto – fu costruita esclusivamente sulla moneta unica, nella convinzione, rivelatasi fallace, per la quale l’adozione di una moneta comune sarebbe stato il presupposto e la condizione necessaria e sufficiente per l’ordinato funzionamento dell’Unione.
Ovviamente, sarebbe fuori luogo attribuire a Don Tonino una teoria economica del funzionamento di un’Unione monetaria, così come sarebbe fuori luogo attribuirgli una critica articolata sul piano macroeconomico della stessa. Don Tonino era interessato a denunciare l’avidità, l’ossessiva ricerca della gratificazione di breve periodo connessa al possesso e al consumo di beni, alla paura che ne derivava per conseguenza (paura in primo luogo di perdere ricchezza). Don Tonino capiva che la ricerca dell’utile – la gratificazione derivante dal consumo di merci e dunque dal rapporto uomo-cosa – avrebbe distolto l’interesse dalla ricerca della felicità – derivante da relazioni intersoggettive non animate da finalità auto-interessate e, dunque, dal rapporto uomo-uomo. Da questa prospettiva antropologica, andava criticando la costruzione europea: in quanto basata sulla moneta e, dunque, anche simbolicamente, su una dimensione esclusivamente economicistica.