Gramsci e dintorni 5. Togliatti letterato all’Assemblea Costituente

Una cultura nuova

Date queste premesse, appare chiara l’importanza della divulgazione in Italia, dopo la caduta del fascismo, di una nuova cultura progressiva ben allineata in un fronte con una sua solidità e coerenza interna intorno all’asse ideologico del marxismo, contro la cultura di forte tendenza idealizzante ed ideologica: idealizzante perché non rappresenta i contrasti della realtà, ed ideologica perché attribuisce alla classe dominante una forma di esemplare eccellenza umana.

Tutte le questioni che riguardano l’economia, la storia, la letteratura e le arti ed altri aspetti della vita intellettuale e sociale hanno trovato così una più puntuale e integrale comprensione e soluzione che ha consentito di capire meglio ed in tutti i suoi aspetti la crisi della cultura italiana. Ciò è potuto accadere grazie ad una spiccata capacità di analizzare le catastrofi che hanno investito il secolo da parte di una cultura che va sotto il nome di democrazia antifascista, cioè di una democrazia profondamente diversa da quella liberale. Essa, difesa durante la fondamentale esperienza della guerra di Spagna, si propone di tagliare le radici del fascismo, avverte la necessità di radicarsi nella vicenda concreta della nazione, di risalire alle cause prime dei suoi conflitti sociali, delle sue culture e dei blocchi dirigenti attraverso cui si è dispiegata la storia della realtà nazionale. La democrazia antifascista si sviluppa così in democrazia progressiva che, liberando il movimento operaio dal limite e dall’accusa di sovversivismo, lo libera anche dall’immagine di forza organicamente minoritaria e soltanto protestataria, lo fa uscire dall’isolamento e dall’incapacità di alleanze e, di contro al cosmopolitismo imperialistico e clericale, avvia un processo di modificazione del blocco sociale e di costruzione di un nuovo blocco storico nella sfera del nazionale e del popolare. Questo ruolo storico emerge per la prima volta nell’Assemblea Costituente.

C’è stata una catastrofe nazionale, in un momento in cui tutto il destino del mondo ha vacillato ed il Paese è stato condotto ad una sconfitta disastrosa, un fatto nuovo è accaduto. Le classi lavoratrici per la prima volta nella storia della nazione si sono fatte protagoniste della grande Storia, ponendosi alla testa della Resistenza per la salvezza di tutti, ed hanno così adempiuto ad una funzione che è stata nazionale perché è stata popolare.

I lavori all’Assemblea Costituente perciò devono essere assunti a testimonianza di una svolta della nostra storia, ed alcuni protagonisti di essi meritano di essere costituiti legittimi artefici di un rinnovamento profondo della nostra società.

Tra questi uomini noi annoveriamo Palmiro Togliatti.

Citazione letteraria e temi politici

Una rilettura dei suoi discorsi in quell’Assemblea ha suscitato in noi l’impressione che anche i fatti della letteratura mutano di prospettiva, proiettati nella valutazione dell’uomo politico; essi sembrano allora immersi in un significato storico diverso, autocoscienza dell’uomo che ricerca la via della conversazione civile. L’uso della parola e del linguaggio diventa la base della vita spirituale quando è l’espressione adeguata della concreta esperienza. Ed ecco che Togliatti in molti suoi interventi parlamentari ritrova, oltre i secoli, in Dante, le citazioni con i loro termini primari, rivelatori di significati che scendono alle radici della vita del pensiero, idonee ad esprimere il ritmo stesso dell’esperienza, dove parole e cose sono congiunte e fanno emergere dalla realtà la verità del presente.

E’ il caso del dibattito sulle dichiarazioni programmatiche di De Gasperi che il 13 luglio 1946 ha costituito il suo secondo ministero. Togliatti rileva nella politica economica del governo un contrasto con l’azione del ministro del tesoro, on. Corbino, il quale è ricorso ad un anormale indebitamento dello Stato, rastrellando i risparmi a mezzo dei Buoni del tesoro ed immobilizzando così la circolazione del capitale: “(…) E’ vero che l’on. Corbino ha terminato parlando di fede. Riconosco che a questo proposito l’onorevole Presidente del Consiglio è più competente di me. (Ilarità). Dicevamo però, che “fede è sostanza di cose create”. Non vedo nulla di male che l’on. Corbino speri, come anche noi speriamo, come tutti sperano, che le cose vadano meglio; (…). Fede, però, è anche “argomento di cose non parventi” e temo che il nostro ministro del Tesoro tendesse più a questa seconda definizione che alla prima. “Argomento di cose non parventi”, appunto perché non siamo convinti che se il programma del ministro del Tesoro, come si manifestò nel passato, dovesse continuare ad essere il programma del governo si riuscirebbe a realizzare il programma vero del nuovo governo, quello al quale noi diamo la nostra approvazione (…)”[41].

Una lettura superficiale del brano (a parte la citazione imperfetta di Paradiso XXIV, 65, presumibilmente fatta a memoria (“argomento de le non parventi”), desta dapprima una vibrazione ironica. Torniamo a leggere con maggiore indugio ed allora ci accorgiamo che la citazione di Dante è recuperata per dimostrare che ogni conoscenza umana che abbia un contenuto determinato è ridotta al mondo sensibile ed al campo dell’esperienza. Togliatti vuol dire, dunque, che con la fede si pretende invero di dimostrare qual siano le cose che non ci appaiono manifeste, e della fede si vuol fare la premessa per argomentare su cose che non vediamo e per consentire intellettualmente a verità che non appaiono. In realtà le cose ci sono date come oggetto dei nostri sensi, esistenti fuori di noi, la loro rappresentazione eccita la nostra sensibilità, cioè i nostri bisogni e le nostre necessità.

Ed ancora a Dante Togliatti ricorre, talora improvvisando, ma sempre con consonanza episodica, quando è animato dall’intento rigoroso di rappresentare realisticamente il presente.

Il comunista on. Cerreti, Alto Commissario uscente per l’alimentazione, denuncia uno scandaloso intervento del ministro dell’Interno Scelba per sospendere un’azione legale promossa in precedenza dall’Alto Commissario medesimo contro un gruppo di grossi speculatori annonari. Togliatti propone un emendamento all’ordine del giorno dell’on. Cifaldi, troppo semplice nella sua formulazione, tanto da poter essere di significato non univoco, nonostante che Scelba abbia ammesso l’atto illegale: “(…) Voglio vedere se la maggioranza arriva a dire il contrario di quel che ha detto il ministro dell’Interno, o ad asserire che il ministro dell’Interno non ha affermato quel che ha affermato. Voglio sapere se la maggioranza è tale, onorevole Calamandrei; e se possa arrivare a favore del “no” “ita” come diceva Dante (…)”[42].

Il riferimento è a Inferno XXI, 39-42:

Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche

a quella terra, che n’è ben fornita;

ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo;

del no, per li denar, vi si fa ita.

Il diavolo ritorna a Lucca perché quella città è ben fornita di barattieri e per denaro si dice di sì (ita) invece di no, cioè si approva ciò che si dovrebbe respingere, e l’allusione è chiaramente rivolta ad atti pubblici, assemblee, deliberazioni, ecc., il che dimostra quanto sia stata pertinente la citazione dantesca di Togliatti. Se poi si tiene conto che Dante ha inteso per barattiere, per esempio, chi ha venduto un impiego burocratico e comunque tutti quelli che si sono fatti corrompere o per consentire l’illecito o per fingere di non avvedersene, e si mette in rapporto questo fatto col clima scandalistico di certi ambienti dell’Assemblea Costituente configuratosi nell’affare Cippico che coinvolse la finanza vaticana, possiamo registrare una corrispondenza, sul piano laico della baratteria, a ciò che è stata la simonia sul piano ecclesiastico. Togliatti, inoltre, richiamando l’iperbole dantesca  per un atto contrario alla legge di un ministro dell’esecutivo, ha anche fatto ricorso ad un’ironia sovraccarica di terribili sottintesi. Il caso di una maggioranza disposta a fare del no ita ed a nascondere sotto una negligente apparenza di serietà quello che chiaramente non è serio, merita davvero lo scherno volgare degno di una disprezzata minutaglia, simile a quella che popola la bolgia dantesca. E che l’ironia non sia anacronistica è dimostrato dal fatto che, secondo Togliatti, incomincia in quel momento storico a prendere corpo il vizio generale di assegnare l’ufficio all’uomo, e non l’uomo all’ufficio.

E sul filo della memoria di Togliatti torna talora un documento di antichi studi, la postilla di una carta o di un libro. Guido Guinizzelli e Guido Cavalcanti diventano così tempo e memoria, senso della creazione umana e dell’opera terrena:

“(…) E’ quindi inutile, onorevole Sforza, che ella venga qui con l’aria del nobile decaduto in una Repubblica che ha soppresso i titoli nobiliari a dirci col tono dell’uomo altiero: “Da gentil schiatta torno”, dovete fidarvi di me (…)”.

E ancora:

“(…) Onorevole Saragat, ella sen viene come amore nel sonetto di Guido Cavalcanti, tenendo tre saette in una mano [tre saette erano allora il simbolo elettorale del partito socialdemocratico], con l’una volendo colpire il ceto possidente, con l’altra l’inconcludente politica democristiana, ma rivolgendo la punta della terza, forse la più acuminata ed avvelenata, contro il nostro partito (…)”[43].

In tal modo nella dimensione della storia e della letteratura si attua la civiltà e si definisce la politica, perché storia e letteratura, educatrici dell’umanità, diventano fonte di conoscenza concreta più alta di ogni sottigliezza teologica e filosofica, in quanto da una parte ci consentono di conquistare il senso dei nostri limiti, e dall’altro si svolgono e si sviluppano in filantropia, cioè in incontro e colloquio con gli uomini tutti.

Ed ancora il gusto del letterato, che si direbbe la forza occulta dell’armatura ideologica di Togliatti, torna nella citazione del Pulci:

“(…) In realtà, se osservo l’onorevole Giannini, riferendomi al suo passato, e cerco di adattare alla sua figura un “Credo” qualunque, mi pare che alle sue labbra l’unico che si addica sarebbe il “Credo” che un nostro grande poeta, il Pulci, metteva sulla bocca di quel mezzo gigante che si chiamava Margutte, il quale credeva “nella torta e nel tortello, l’uno la madre e l’altro il figliolo”. La torta sarebbe in questo caso la maggioranza parlamentare e sarebbe in questo caso riservata all’onorevole De Gasperi, mentre il tortello sarebbe per lei, onorevole Giannini, e sarebbe un posticino di ministro o anche di sottosegretario (…)”[44].

La professione di fede comicamente paradossale di Margutte, in cui misteri e dogmi della teologia si deformano in fedi più concrete e …commestibili, per chi, come Togliatti, dai banchi dell’opposizione ha sempre trovato modo di condannare il ricorso alla religione come strumento di governo e di fortuna e successo nelle lotte elettorali, non vuole essere professione di scetticismo o di indifferenza religiosa, ma recupero letterario di una comicità fresca e perenne alla quale l’oratore chiede un giudizio morale prima che estetico, con una coerenza che viene da molto lontano.

Torniamo perciò al dibattito generale sul primo progetto di Costituzione della Repubblica italiana, elaborato dalla Commissione dei Settantacinque e presentato all’Assemblea Costituente nel febbraio 1947. Togliatti espone la posizione fondamentale dei comunisti, in quel momento non esente da dubbi, circa i rapporti della Chiesa cattolica col regime democratico repubblicano, in conseguenza del tempo in cui i Patti tra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano sono stati conclusi:

“(…) Ora, in cerca di una documentazione sopra questo tema, mi è accaduto di sfogliare un testo autorevolissimo di Diritto delle decretatali, manuale d’insegnamento nella Pontificia Università Gregoriana in Roma, ed a proposito di Concordati, delle condizioni e del momento in cui la Santa Sede li conclude, ho trovato una affermazione assai sintomatica che mi permetterete di citare: (…) Sedes Apostolica, ne evidenti ludibrio exponatur, conventiones in forma sollemni inire non solet, nisi gubernium civile necessitate petendi consensus comitiorum publicorum non sit adstrictum (…)

Una voce: Vuol tradurre?

Togliatti: Per i colleghi che non sono democristiani posso anche fare la traduzione, la quale suona così: (…) La Sede Apostolica, per non correre il rischio di gravi delusioni, di solito non stipula convenzioni solenni, se non con quei governi i quali non sono costretti a chiedere l’approvazione di un corpo rappresentativo (…)”[45].

Questo principio di diritto decretalistico non è un cavillo giuridico né Togliatti lo cita per attaccare direttamente la dogmatica cattolica, piuttosto esso dice la cautela dello storico e dell’uomo democratico. La Chiesa ed i suoi ordini religiosi pretendono di collocarsi nel tempo e nella storia secondo strutture giuridiche stipulate non con un corpo rappresentativo, un eufemismo per dire istituzioni che presidiano la vita democratica di una nazione. Togliatti avverte che il problema della pace religiosa del popolo italiano esiste e qualcosa bisogna pur fare per dare alla soluzione di esso un carattere solido e permanente.  Ed anche questa preoccupazione, che risponde ad un’esigenza profonda di riflessione storica, viene da lontano.

Sul filo della memoria

E’ il 25 marzo 1947 ed a Montecitorio si svolge la settantacinquesima seduta dell’Assemblea Costituente per la dichiarazione di voto sull’articolo 7 della Costituzione col quale si inserisce nel testo costituzionale il richiamo ai Patti lateranensi. I comunisti votano a favore del richiamo, mentre in Commissione lo hanno respinto. Parla Togliatti:

“(…) E qui permettetemi un ricordo. L’onorevole Rossetti, riferendosi a questa prima parte dell’articolo che stiamo discutendo (lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani), cercando di darne una giustificazione dottrinale, diceva che questa si può trovare in un corso di diritto ecclesiastico, tenuto precisamente nel 1912, all’Università di Torino, dal senatore Francesco Ruffini.

Voi mi consentirete di ricordare all’onorevole Dossetti che sono stato allievo di quel corso, che ho dato l’esame di diritto ecclesiastico su quelle dispense che egli ha citato e lodato. E’ forse per questo che non ho trovato difficoltà a dare quella formulazione. Ricordo però anche che quelle lezioni non erano frequentate soltanto da me. Veniva alle volte e si sedeva in quell’aula un uomo, un grande scomparso, amico e maestro mio, Antonio Gramsci, e uscendo dalle lezioni e passeggiando in quel cortile dell’Università di Torino, oggi semidistrutto dalla guerra, egli parlava con me anche del problema che ci occupa in questo momento, del problema dei rapporti tra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano. Eravamo allora entrambi giovanissimi, entrambi all’inizio della nostra vita politica e ci sforzavamo di individuare quali erano e quali avrebbero potuto essere le sorti future di quel contrasto che allora era per gran parte in atto in Italia, ma che in parte era superato o si stava superando. Ricordo che Gramsci mi diceva che il giorno in cui si fosse formato in Italia un governo socialista, uno dei principali compiti di questo governo, di questo regime sarebbe stato di liquidare per sempre la questione romana garantendo piena libertà alla Chiesa cattolica (…)”[46].

C’è nella pagina un respiro che riporta ciascuno, che ne abbia fatto esperienza, a dolci e caldi momenti di congenialità intellettuale durante la giovinezza universitaria, giacché alla radice del discorso di Togliatti v’è di certo una sostanza umana ed autobiografica sospesa a mezzo tra vita e letteratura, tra poesia e scienza psicologica. Vita e poesia suggeriscono lo slancio sincero del sentimento che nel passato rende più alta la dimensione del presente, riportandola al senso ineffabile del destino che si intreccia con la nostra personale esistenza; letteratura e scienza psicologica, per cui il presente misura ogni valore nella distanza del tempo, sono invece la forma in cui si adagia quell’atmosfera trasognata e quasi astratta del periodare di Togliatti. Ed in quell’atmosfera c’è Gramsci. Accade allora che nell’andamento della pagina viene riassorbita anche la meditazione storica che germoglierà negli scritti dottrinali dell’uno e dell’altro dirigente comunista. Eccone, in proposito, i concetti più rilevanti.

La religiosità degli Italiani è molto superficiale, e non si può negare che essa ha un carattere strettamente politico, di egemonia internazionale, tanto che dal Cinquecento in poi l’Italia ha contribuito alla storia mondiale soprattutto perché sede del Papato. Così il cattolicesimo italiano ha assunto un ruolo surrogatorio di spirito statale e di nazionalità. C’è un pensiero di Gramsci che torna costante, come si è visto, nella riflessione togliattiana sui rapporti tra Stato e Chiesa:

“(…) I cattolici devono distinguere tra “funzione dell’autorità” che è diritto inalienabile della società, che non può vivere senza un ordine, e “persona” che esercita tale funzione e che può essere un tiranno, un despota, un usurpatore, ecc. I cattolici si sottomettono alla “funzione” non alla “persona” (…)”[47].

Nel brano è riversato il concetto di quanto sia ardua la conquista e la pratica della libertà, ma c’è anche ardua materia su cui riflettere per tutti i cattolici.

A questo punto possiamo parlare di un Togliatti letterato, nel senso che, se è di pochi creare la letteratura, l’uso di essa deve essere universale. E proprio dalla letteratura Togliatti ha tratto alla luce idee, affetti comuni e quei sensi che giacciono occulti e talvolta confusi nel cuore delle moltitudini, volgendo il fine delle lettere civili al bene del popolo e provando che esse salgono al colmo, se non della perfezione, certamente dell’efficacia, quando si incorporano nella vita della nazione, come è accaduto subito dopo il crollo del fascismo, nella prima libera assemblea nazionale d’Italia.

Un oratore nuovo

L’arte del dire, oltre a seguire la geniale ispirazione, rispetta un complesso di regole, ma presuppone sempre la presenza nell’oratore di una certa abilità e destrezza. Essa non esime dal ragionamento e dalla riflessione, poiché non è mai libera dalle leggi di corrispondenza e di armonia. Vi sono delle epoche storiche in cui è necessario elaborare un’idea di linguaggio come attività capace di amalgamare un comune sentire. Tale è stata l’epoca dell’Assemblea Costituente, allorché il nuovo mondo di idee e di possibilità che si è venuto creando, ha imposto di costruire un linguaggio politico e teorico nuovo in modo da rendere trasparente alle masse quel mondo e quelle possibilità. L’eloquenza intesa come sorgente di irradiazione linguistica nel senso su richiamato, cioè come più atta a propagare fra il popolo il sapore della dottrina ed i fini della ragione, ci appare quella di Palmiro Togliatti lungo tutto il dibattito parlamentare all’Assemblea Costituente. Vi è un’eloquenza che trascina e vi è un’eloquenza secca e fondata sopra uno stretto ragionamento. Quella di Togliatti appartiene a questa seconda forma, con in più due prerogative particolari: 1) quando egli parla di sé non v’è campo all’affettazione e alla sofisticheria che corrompono l’eloquenza, perché domina la passione e l’interesse di sé medesimi, cioè la natura e il cuore; 2) la consapevolezza di un linguaggio che, pur saldamente radicato nella tradizione nazionale, sia idoneo ad aprirsi su scala internazionale e quindi a conseguire il nuovo traguardo dell’italiano come lingua europea moderna.

Originale autobiografismo

Il 31 gennaio 1947 il progetto della Costituzione elaborato dalla Commissione dei Settantacinque è presentato all’Assemblea Costituente con una relazione del Presidente della Commissione Meuccio Ruini. Nella seduta dell’11 marzo prende la parola Togliatti, che sottolinea la necessità di una Costituzione che sia non afascista, ma antifascista. Ecco un passaggio del suo discorso:

“(…) Colleghi, io sento rispetto, e anche più che rispetto, per gli uomini che siedono in quest’aula e che appartengono a gruppi che furono parte integrante di questa vecchia classe dirigente. Non ho nessun ritegno a rivolgere loro, per certi aspetti della loro attività, l’appellativo di maestri, sia con la “m” maiuscola o minuscola, non importa. Sono sempre disposto ad ascoltare i loro consigli; però non posso non sentire e non affermare che anche questi uomini portano una parte della responsabilità per la catastrofe che si è abbattuta sul popolo italiano. Perché voi avevate occhi e non avete visto. Quando si incendiavano le Camere del lavoro, quando si distruggevano le nostre organizzazioni, quando si spianavano al suolo cooperative cattoliche, quando si assaltavano i municipi con le armi, o si faceva una folle predicazione nazionalistica, non dico che voi foste complici diretti, ma senza dubbio eravate in grado di dire quelle parole che avrebbero potuto dare una unità a tutto il popolo, animandolo a una resistenza efficace contro quella ondata di barbarie; voi non foste all’altezza di quel compito; e non è per un caso che non avete trovato gli accenti che allora era necessario trovare (…)”[48].

Qui si direbbe che per il contenuto, ideologia e lingua si unifichino in parole che hanno nella loro semplicità l’enfasi e il colore di un movimento ideale, mentre dal punto di vista formale l’andamento anaforico della pagina (quando si incendiavano…; quando si distruggevano…; quando si assaltavano…;), la ripartizione del periodo in membri coordinati ed il ricorso ad un verbalismo tutto corposo, nel momento stesso in cui si analizzano i disvalori del passato, nella curiosità per il nuovo preparano un concreto capovolgimento di valori. Una congiuntura sociale particolare investe la vita associata, e la lingua assume un peso diretto ed immediato perché attraverso di essa si domina la realtà e la si rende migliore. E senti che i mezzi espressivi di Togliatti si legano a fatti di cultura assai profondi, a modi attraverso i quali matura una nuova mentalità razionalistica e soprattutto la consapevolezza che sono necessarie nuove istituzioni e nuove forme di organizzazione della vita intellettuale. Dice Togliatti:

“(…) Questa tribuna dalla quale noi parliamo è la più alta tribuna dalla quale si possa parlare al popolo italiano, ed in nome del popolo italiano anche agli altri popoli. Abbiamo riacquistata questa tribuna con una lotta che abbiamo combattuto tutti o quasi tutti assieme (…). A questi nomi di Repubblica e di Costituente (…) è legata una grande tradizione, è legata una grande attesa, una grande speranza del popolo italiano (…)”[49].

E’ confermato l’andamento anaforico (è legata… è legata…) che funge di accentuazione enfatica nella rivendicazione del ruolo svolto durante la guerra di Liberazione per riacquistare la liberta e il diritto alla pratica politica parlamentare.

Nel dibattito sull’articolo 5 del progetto, che diventerà l’articolo 7 della Costituzione, all’avvertimento di De Gasperi per il quale si apre nel corpo dilaniato d’Italia una nuova ferita che io non so quando rimarginerà, Togliatti risponde con una riflessione che chiama in causa la pace religiosa al tempo della guerra di Liberazione. E qui l’anafora non nasce dall’intento di argomentare o di narrare, bensì essa diventa la forza della riflessione medesima.

“(…) Vedemmo infatti nelle nostre unità partigiane operai cattolici affratellati con militanti comunisti e socialisti; vedemmo nelle unità comandate dai migliori tra i nostri capi partigiani, i cappellani militari, sacerdoti, frati, accettare la stessa nostra disciplina di lotta (…)”[50].

Ma il Togliatti più vero e più umano è quello che parla di sé, e ciò non accade per un atto di orgoglio, secondo che suggerisce lo spirito del genere autobiografico per cui si crede che la propria vita sia degna di essere narrata perché originale e diversa dalle altre. E’ vero invece che parlare di sé, quando la propria vita simile a quella di mille altre ha avuto uno sbocco che le altre mille non hanno potuto avere, significa additare un grande valore storico che la vita in atto determina e legittima. Si elabora così la propria concezione del mondo consapevolmente e criticamente, si sceglie la propria sfera di attività, ci si rende ragione dello sviluppo che il pensiero ha avuto fino a noi, e si partecipa attivamente alla produzione della storia. Lasciamo la parola a Togliatti:

“(…) Onorevoli colleghi, ognuno di noi è arrivato nella vita politica per strade diverse, ed io alle volte non posso dimenticare di aver fatto anche degli studi di letteratura italiana (…). Nenni si richiama alla scuola del repubblicanesimo, alla scuola dei grandi dibattiti parlamentari francesi. Io ho un’altra scuola, quella del lavoro paziente clandestino (…). Ho la scuola di quei grandi uomini che hanno saputo fare della Russia, che era alla fine dell’altra guerra uno dei Paesi più arretrati e più devastati, la grande potenza socialista che ora domina nel mondo. Io ho quella scuola e mi vanto di averla (…)”[51].

E nella seduta pomeridiana del 30 settembre 1947 il deputato liberale Guido Cortese interpreta tendenziosamente la frase di Togliatti Noi veniamo da lontano, insinuando che possa sorgere un equivoco fra la storia e la geografia per il fatto che Togliatti è stato per parecchi anni assente dall’Italia. Ecco la replica di Togliatti:

“(…) Io facevo parte di un partito democratico, il quale mi aveva significato quale era il mio posto di lavoro e di lotta. Qualora il mio partito mi avesse detto che era il carcere sarei rimasto in carcere fino alla liberazione. Esso mi ha detto invece che questo posto era l’estero per organizzarvi la lotta dei comunisti italiani per la libertà ed il socialismo. Questo ho fatto e credo che questo sia il più alto onore della mia vita. Coloro che credono di rinfacciarmi questo come una colpa, sappiano che sono ritenuti da noi come non degni di appartenere a questa Assemblea; perché così facendo essi di fatto si rendono solidali con coloro che imposero alla parte migliore del popolo italiano di vivere nelle galere o in esilio, per continuare a combattere per le loro idee e per la libertà (…)”[52].

Accanto alla proprietà delle parole qui rinveniamo semplicità e naturalezza, e ciò accade perché nelle argomentazioni togliattiane la lingua conserva l’indole sua primitiva e per essa la proprietà lessicale in cui è compresa e si esprime la prerogativa della libertà; una lingua insomma aliena dal corrompere e dall’essere corrotta, perché in essa l’efficacia accresce la precisione e mette sotto i sensi quello che altri oratori pongono soltanto sotto l’intelletto come accade con le sottigliezza teologiche e scolastiche.

La lingua italiana si europeizza

Un profondo pensiero di Togliatti indica che l’unità del genere umano non è data dalla natura biologica dell’uomo, in quanto le differenze che contano nella storia sono costituite dal complesso dei rapporti sociali degli uomini che comunicano attraverso la lingua. Tutte le lingue colte europee hanno avuto un buon numero di voci comuni, specialmente in politica,  in filosofia e nelle scienze, tanto che si è venuta a formare una vera e propria lingua e un vocabolario universale. In Italia fino alla caduta del fascismo questi europeismi sono stati considerati come barbarismi. Il contributo di Togliatti volto ad immettere nel circuito europeo la nostra lingua dopo l’eclisse del fascismo è stato molto significativo.

Massa, organizzare, partito, democrazia, mondo capitalistico occidentale,  sinistra democratica, corrente, blocco di forze, sviluppo industriale ed agrario, mezzi di produzione, gruppi capitalistici, monopolitici, gruppo dirigente, critica distruttiva, classe progressiva, nazionalità miste, sanzione, coscienza dei popoli,  guerra partigiana, insurrezione nazionale, iniziativa capitalistica, proletariato, libertà di ricerca e di sfruttamento,  potenze conservatrici, blocco reazionario, indipendenza diplomatica e politica, fronte del lavoro, democrazia avanzata sono un esiguo specimen lessicale togliattiano che tutto il mondo ha adoperato ed adopera in una stessa precisa significazione e che il fascismo non ha usato o ha usato imperfettamente ed impropriamente. E ciò è accaduto perché gli Italiani, secondo la natura dei tempi e lo stato dello spirito umano, non hanno potuto avere quelle idee e le corrispondenti parole, alle quali il fascismo ha preferito i modi tirannici ed i raggiri della lingua della classe dominante.

Lingua neologica  e discorso epigrammatico

Per questo motivo durante i lavori dell’Assemblea Costuente la lingua di Togliatti è potuta apparire alla maggior parte degli Italiani nuova ed originale, e tale essa è stata davvero in quanto fondamento di una cultura non destituita di un sentimento morale di vita né strumento di nequizia o di oppressione o di umbratile vacuità.  Nell’orizzonte semantico del lessico testé registrato, Togliatti ha invece saputo iscrivere, come preludio alla chiarezza ed alla precisione del suo pensiero, idee perfette ed intere, diremmo idee che si presentano con la perspicuità del carattere epigrammatico, se ci è consentito fare riferimento ad un genere letterario che, passando nel suo sviluppo storico attraverso il rifiuto dello scrittore di celebrare la propria individualità, non si addobba di retorica, non assume aspetti ampi e solenni, ma utilizza la forma più breve, più semplice e più incisiva. Nella lingua di Togliatti anche questo è significativo, se si pensa che negli anni immediatamente precedenti la retorica con le sue declamazioni, simulando magnanimità ed ardore, ha coperto le debolezze interiori ed è stata funzionale alla vita della comunità statale fascista. Proponiamo di seguito alcuni epigrammi che traggono la loro forza proprio dalla brevità e dall’acutezzea del pensiero che vi è alla base:

“(…) I partiti sono la democrazia che si organizza. I grandi partiti di massa sono la democrazia che si afferma (…)”[53].

“(…) L’ideologia non è dello Stato, l’ideologia è dei singoli o, se ella [il liberale on. Lucifero] vuole, è dei partiti, e anche non sempre, perché posso concepire un partito nel quale convergono differenti correnti ideologiche per l’attuazione di un unico programma (…)”[54].

E quando Togliatti vuole individuare quali siano i beni sostanziali che la Costituzione deve assicurare al popolo italiano, li indica così:

“(…) il primo è la libertà e il rispetto della sovranità popolare; il secondo è l’unità politica e morale della Nazione; il terzo è il progresso sociale, legato all’avvento di una nuova classe dirigente (…)”[55].

Qui con chiara lucidità sono elencati i principi politici fondamentali che si integrano e completano a vicenda. Ed ancora:

“(…) Il relatore dell’ordinamento regionale nella seconda Sottocommissione ha detto che anche la regione sarebbe un ente naturale. In realtà, se mai, è qualche cosa di più o di meno: è un ente storicamente determinato. Però, quando rifletto alla storia del nostro Paese, difficilmente trova la regione come tale; trovo invece un’altra cosa, trovo invece la città”[56].

Siamo in presenza di un’argomentazine discorsiva breve, acuta e veloce, che ha alla fine aliquid luminis, e cioè una lezione della storia, vale a dire il riconoscimento che agiscono nella storia presente le vicende del nostro passato, come è il caso dell’influsso unificatore della città senza il quale non sarebbe esistita la nazione italiana.

Ironia e sarcasmo

Nella lingua di Togliatti è presente l’abilità puramente retorica che coglie il sottile legame psicologico tra l’oggetto e il soggetto, e fuggevolmente vi si insinua il confronto ironico; ed allora può accadere che man mano che i motivi polemici tendono ad esaurirsi, emerge al contrario la figura morale dell’oratore nella sua dignità e responsabilità di parlamentare:

“(…) Però mi è parso, onorevole Orlando, che quando ella, partito da una definizione del regime parlamentare (…), mi è parso che quando ella a un certo punto si è fermato e ha detto: “qui manca qualche cosa” (e non so che cosa ella cercasse: colui che mantiene l’equilibrio, colui che ha l’iniziativa, colui che sancisce), onorevole Orlando, io ho avuto l’impressione, e perdoni se sono maligno, che ella cercasse qualcosa che noi non abbiamo voluto mettere nella Costituzione: che ella cercasse il re (…)”[57].

Più che ironia, qui c’è caricatura, o meglio malizia canzonatoria. Si direbbe che Togliatti si è giovato di una situazione rovesciata per insinuare la sua nota umoristica, la quale consiste proprio nell’etica a rovescio della decadenza e dei periodi di servitù, quando tutti finiscono coll’essere sudditi del re. In verità, a un capo politico come Togliatti, impegnato nell’azione storico-politica e nella costruzione di un nuovo mondo culturale, più che l’ironia, che sarebbe soltanto elemento letterario ed intellettualistico, si addice il sarcasmo, espressione della forza di chi, più che sentire, conosce e comprende e in qualche caso disciplina le passioni, cioè il contenuto umano di sentimenti e credenze, e vuole dare una nuova forma al nucleo vivo delle sue aspirazioni. Quando poi è chiamato in causa un periodo di transizione storica, il sarcasmo mette in rilievo le contraddizioni di quel periodo, e nasce così un linguaggio, un gusto stilistico nuovo come mezzo di lotta intellettuale.

“(…) L’onorevole Lucifero ci ha proposto l’invocazione a Dio. Questa è veramente una delle proposte che hanno suscitato in me i maggiori dubbi, perché effettivamente Dio votato a maggioranza in un’Assemblea politica ed approvato con venti o con cinquanta o anche con trecento voti di maggioranza, non lo capisco. (Si ride). Quando poi ho sentito il nostro collega parlare di Dio nel tono con cui i nostri oratori di comizio parlano alla fine dei loro discorsi, quando si tratta di avere gli applausi degli elettori riuniti, mi sono ricordato del primo e del secondo comandamento. (Si ride). (…)”[58].

Qui il pensiero di Togliatti imprime alla parola una forza che sorpassa l’ironia e, pur serbando l’apparenza ironica, rompe quasi nell’invettiva sarcastica.

In altri casi, inoltre, il sarcasmo diventa elemento essenziale di passionalità, assumendo la potenza stilistica individuale, intesa come sincerità e profonda convinzione delle proprie idee:

“(…) Nel 1929, quando i Patti lateranensi furono firmati (…) quell’accordo fece veramente passare nel nostro Paese – permettetemi l’espressione romantica – l’ombra funesta del triste amplesso di Cristo e Cesare. Lo sentimmo chiaramente noi, che dirigevamo la lotta antifascista della parte avanzata del popolo italiano. Sentimmo che, nonostante che oggi si interpreti l’espressione “uomo della Provvidenza” dicendo che si trattava di riferirsi a quella virtù che la Provvidenza ha di mandare uomini buoni e uomini cattivi, allora “uomo della Provvidenza” fu inteso come “uomo provvidenziale”[59].

Altre volte il sarcasmo nasce come gioco sottile e fischiante di significati aggettivali, come a proposito della conferenza di Parigi per il Piano Marshall dove il Conte Sforza è andato senza consultare né l’Assemblea né la Commissione degli Esteri:

“(…) Il nostro Ministro degli Esteri ci è andato con quello spirito che l’onorevole Nitti chiamava afrodisiaco; ma che io dal momento che si tratta di un Ministro di un gabinetto democristiano vorrei chiamare soltanto euforico (…)”[60].

Si noti la variazione dall’aggettivo afrodisiaco, che stimola ai piaceri sensuali, all’aggettivo euforico, che esprime semplicemente la contentezza che viene dal sentirsi bene. Ed efficacemente sarcastica e un’abile chiusa appare, a proposito di una norma che vorrebbe sancire l’impossibilità di rovesciare il Governo al termine del lavoro costituzionale, la battuta:

“(…) L’onorevole Scelba ci parlava oggi di spirito francescano. Lo spirito francescano che ispira questa norma è tale non secondo San Francesco, ma secondo Francesco Giuseppe, cari colleghi (…)”[61].

Si potrebbe continuare ancora nell’esemplificazione; ma non c’è dubbio, in conclusione, che Togliatti si è trovato di fronte al problema fondamentale di creare una nuova cultura su una base sociale nuova, che non ha avuto tradizione, come è accaduto invece per la vecchia classe degli intellettuali, dotata di una cultura e di una lingua con cui ha tradotto un pensiero formale che garantiva la sicurezza nell’agire e l’assenza di dissidi interiori. In Togliatti è prevalsa la logica che respinge ogni forma di metafisica per sostituirvi il progressivo dominio dell’uomo. Ciò è particolarmente manifesto nella lingua togliattiana che ha ridotto sempre più l’astrattezza oratoria a beneficio della gerarchia morfologica della realtà dove ha finito col prevalere il giudizio storico ed estetico sull’uomo e sulle sue azioni, dove sull’istinto è prevalso il logos che non si arrende all’impressione esterna e concede invece un’influenza dominante sull’animo umano. Nella lingua neologica di Togliatti è scomparso il sofisma barocco dei vecchi manuali di filosofia e sono scomparse le classiche distinzioni della scolastica aristotelica con le sue opinioni aprioristiche. Il loro posto è stato occupato con immediatezza moderna da un nuovo realismo logico e grammaticale, il quale ha dato nuovo fondamento scientifico all’etica, passando attraverso un originale autobiografismo ed una fase linguistica europeizzante, ed articolandosi attraverso l’ironia ed il sarcasmo: tutte ragioni che hanno caratterizzato la cultura di un momento storico significativo, qual è stata l’epoca dell’Assemblea Costituente, che ha visto uno dei suoi maggiori protagonisti proprio in Palmiro Togliatti.

[Togliatti letterato all’Assemblea Costituente riunisce i seguenti articoli: Umanesimo letterario e storicismo di Palmiro Togliatti nell’Assemblea Costituente, in “Corriere”, novembre 1986, pp. 3-4; La lingua neologica di Palmiro Togliatti nell’Assemblea Costituente, in “Corriere”, novembre 1987, pp. 3-4.]

Note

[40] Cfr. E. Garin, Tra il regime ed il Santo Uffizio, in “Rinascita” del 26 ottobre 1985, n. 40, p. 15.

[41] P. Togliatti,  Discorsi alla Costituente, Editori Riuniti, Roma 1974, pp. 123-124.

[42] Idem, ibidem, pp. 180-181.

[43] Idemibidem, pp. 312 e 272.

[44] Idemibidem, p. 281.

[45] Idemibidem, p. 20.

[46] Idem, ibidem, p. 42.

[47] A. Gramsci, Note sul Machiavelli sulla politica sullo Stato moderno, Einaudi, Torino 1950, p. 232. L’abbondanza delle citazioni di autori antichi e moderni ci fa venire in mente alcuni pensieri relativi alla funzione della citazione, di un grande scrittore dell’Ottocento che è indebitamente registrato fra i minori nei manuali scolastici  di storia letteraria. Alludiamo a Carlo Cattaneo, cui si debbono alcuni canoni storiografici di una straordinaria modernità. Ecco alcune sue osservazioni in proposito:

“(…) 1) La citazione può ridursi ora ad una mera testimonianza, ora ad un principio d’autorità che non tende solo ad informare ma a comandare. Tale è la citazione della legge e della cosa giudicata.

2) Il citare li scrittori non è lo stesso che sottomettersi alla loro autorità. Raccogliendo ciò che essi hanno pensato, abbiamo già un argomento degno di più accurata attenzione.

3) E’ sempre atto di gratitudine, nel ripetere una verità, il ricordare da chi l’abbiamo imparata. Talora si cita un autore solamente per il modo felice con cui si è espresso, o anche per non ornarsi con le penne altrui.

4) Nulla è più gentile d’una citazione di poeta o d’altro autore, fatta con opportunità e accorgimento, e in modo quasi inaspettato, e senza affettazione di dottrina. Li Inglesi ne fanno uso frequente nelle questioni parlamentari (…)” C. Cattaneo, Scritti, a cura di F. Alessio, Sansoni, Firenze 1957, pp. 179-180..

Ci sembra che Togliatti nei suoi discorsi all’Assemblea Costituente abbia rispettato lo spirito di queste riflessioni, e non per mera erudizione, ma ponendosi in una linea di continuità modernamente democratica di cui Cattaneo era stato maestro nell’Ottocento.

[48] P. Togliatti, Discorsi parlamentari I, Camera dei deputati – Ufficio stampa e pubblicazioni, Roma 1984, pp. 59-60.

[49] Idem, ibidem, p. 5.

[50] Idemibidem, p. 68.

[51] Idemibidem., pp. 106 e 203.

[52] Idem, ibidem, pp. 213-214.

[53] Idemibidem, p. 7.

[54] Idem, ibidem, p. 61.

[55] Idemibidem, p. 62.

[56] Idemibidem , p. 74.

[57] Idemibidem, p. 65.

[58] Idemibidem, p. 69.

[59] Idem, ibidem, p. 87.

[60] Idemibidem, p. 160.

[61] Idemibidem, p. 239.

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