O dolce musa, anima mia, vita mia,
ora è che tu ti tagli la tua bionda zazzera
e t’uniformi al calvo gregge.
Oh non ti dolga se non troveranno
perle e rubini nella tua chioma
come in capo alle fate pettinandole
e se poi ne faranno
parrucchine per bambole!
O dolce musa, non sei stanca
d’esser segnata a dito per le vie
come una prostituta,
e che tutti i lenoni sporchino
con lazzi e abominevoli sconcezze
la tua veste bianca?
Oh la tua verginità
tacciata di pederastia!
Fuor di metafora, ciò equivale a dire che la poesia deve tralasciare ormai per sempre i temi alti, il sublime della tradizione lirica, la sua caratteristica ‘aura’ (la «bionda zazzera») e deve rassegnarsi a cantare le cose di tutti i giorni, il semplice, il banale, il grigio della vita quotidiana. Se essa vuole continuare a sopravvivere in un mondo che la rifiuta, la insulta, la deride, deve rinunziare per sempre a quelli che sono stati finora i suoi privilegi (la solitudine, la ricchezza, la bellezza, l’inaccessibilità) e deve scendere al livello della realtà più umile, modesta:
O dolce musa, anima mia, vita mia,
ora è che tu abbandoni la tua solitudine
e vada per il mondo
come una scalza mendicante
che con sé non ha che i suoi cenci
e il suo vergine canto,
e contro il suo petto
il suo povero organetto
come un bimbo poppante
che ininterrottamente piange.
Solo così, riacquistando una funzione di utilità sociale o di ammaestramento morale, la poesia potrà sperare di sopravvivere, sia pure ridotta all’estrema povertà, in un contesto ostile, che respinge come inutile e superflua ogni manifestazione di carattere artistico o l’accetta soltanto in funzione di un eventuale uso mercificato di essa:
Davanti alle grigie case dei poveri
dove sono i vecchi impotenti
tremanti intorno a un debole fuoco
dove sono i rachitici bambini
che piangono sui lor trastulli infranti
dove sono i pallidi convalescenti
che aspettano il sole,
tu in elemosina offri un poco
della tua allegria vagabonda;
davanti alle case dei ricchi
dove sono gli spensierati amanti
dove sono le belle dame
regine tra i fiori e i brillanti, dove ridono i convitati
e trangugiano inebriati
occhi e calici spumanti,
tu sotto le finestre
insinua la più fine tua malinconia
e che la gioia è banale persuadi
e che nobile solo è il dolore.
Per dare alla sua «musa» un’ultima «illusione di ricchezza» – conclude Govoni – le basteranno «le buccie d’oro degli aranci sopra i marciapiedi» (v. 114), cioè quella capacità, connaturata alla poesia, di trasformare, qualsiasi oggetto, anche il più vile e insignificante, in qualcosa di sfolgorante e prezioso. E qui è chiaro il riferimento alla tecnica dell’analogia, della quale il poeta ferrarese è uno dei riconosciuti maestri della lirica italiana del Novecento.

Si noterà qui la stretta affinità esistente tra la posizione di Govoni e quella degli altri crepuscolari. In particolare, Alla musa, per il suo valore di esplicita dichiarazione programmatica, di un vero e proprio manifesto, deve essere accostata ad altri testi esemplari della poesia crepuscolare, dalla Desolazione del povero poeta sentimentale di Sergio Corazzini a Chi sono? e Lasciatemi divertire di Aldo Palazzeschi, da Io non ho nulla da dire e Il giardino dei frutti di Marino Moretti a Totò Merumeni di Guido Gozzano. In tutte queste composizioni, infatti, il rifiuto del sublime si accompagna alla messa in discussione del ruolo e della funzione tradizionalmente svolti dal poeta. Anche Govoni, alla progressiva emarginazione cui sembrava inevitabilmente condannata l’attività letteraria in una società in via di rapida trasformazione, quale era quella italiana tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, reagisce, in Alla musa, cercando una possibile strada di salvezza per la poesia nella scelta della prosaicità, nel deciso abbassamento del tono e del linguaggio, nell’assunzione di una tematica dimessa e quotidiana.
Ora, alla luce di questo testo conviene ripercorrere, sia pure in rapida sintesi, il cammino poetico percorso da Govoni nei suoi primi anni di attività letteraria. Egli infatti non giunge immediatamente a questa concezione, bensì attraverso un graduale processo che in comincia, sia pure in nuce, con Le fiale, il suo primo libro di versi, uscito nel 1903, e prosegue, sempre più nettamente, con le altre due raccolte successive, Armonia in grigio et in silenzio, sempre del 1903, e Fuochi d’artifizio, del 1905. All’inizio della sua attività, anzi, egli dimostra di avere una concezione della poesia quasi agli antipodi di quella ‘crepuscolare’, quale emerge in Alla musa. Tutto, o quasi, il suo primo libro è improntato a un’idea di poesia «sublime» e «raffinata», come confessava in una lettera, datata 17 aprile 1903, inviata al famoso pittore e incisore Adolfo de Carolis, autore delle splendide xilografie che adornano quel volume. Così scriveva infatti Govoni: «… perché io la poesia non la voglio né storica, politica, epica ecc. Ma la considero soltanto raffinatezza e per me il poeta più sublime è colui che a lettura dei suoi versi mi fa provare maggiori sensazioni, colui che adopera immagini più nuove più originali». E infatti i modelli ai quali si ispira l’esordiente poeta sono d’Annunzio e il primo Lucini oltre a certi simbolisti e decadenti francesi e franco-belgi.
Già in questa prima raccolta, composta da cento sonetti, è possibile individuare però alcune parti che vanno in direzione di un superamento dell’estetismo dannunziano e decadente. Si veda, ad esempio, il sonetto intitolato Il paone bianco, dove si assiste a un radicale rovesciamento della figura tradizionale del poeta. Qui il pavone, uno dei simboli più tipici della poesia liberty e estetizzante di fine secolo, fastoso emblema dello sfavillante mondo dell’arte, della ricchezza inesauribile di colori e motivi propri della creazione letteraria, subisce un brusco e totale capovolgimento. Privato di tutto il suo fulgore, azzerato in una immagine neutra, senza colore, il pavone diventa «un povero poeta solitario», che «tra le sue ignote rose» fece «voto d’eterna rinunziazione» e «rinnega le sue pietre preziose». Il che significa che rinuncia per sempre a quel tipo di poesia sontuosa e decorativa che tanto, fino a pochissimo tempo prima, aveva attratto lo stesso Govoni. Ma tutto il senso della degradazione subita dalla figura del poeta sta nell’aggettivo «valetudinario», che così poco si adatta alla prestigiosa funzione di guida, di orientamento, di celebrazione, svolta, fino a tutto l’Ottocento, dai poeti-vate, da Carducci prima e da d’Annunzio poi. La ‘malattia’ invece, diventata in alcuni crepuscolari come Gozzano e Corazzini anche un motivo di polemica letteraria, è il segno dell’incolmabile distanza che separa il poeta dall’uomo normale.

Una netta inversione di tendenza rispetto alla poetica della ‘raffinatezza’ e del ‘sublime’ si nota invece nel secondo libro di Govoni, Armonia in grigio et in silenzio, apparso sempre nel 1903, soltanto qualche mese dopo Le fiale. Qui si assiste a un rovesciamento della tipica tematica decadente presente nella prima raccolta, sostituita da una serie di motivi che formeranno il nucleo principale della poesia crepuscolare: le uggiose giornate di pioggia, i tranquilli crepuscoli in campagna, i silenziosi interni piccolo-borghesi, i quieti conventi, i piccoli cimiteri di paese, le pendole, gli organi di Barberia, ecc. Anche i cigni e i pavoni della tradizione liberty scompaiono per far posto agli umili animali domestici o da cortile, come i gatti, le galline, le anatre e gli uccelli. Così come la preziosa flora della prima raccolta (tulipani, gardenie, rose thee) viene sostituita da un’altra più comune e quotidiana (viole, gerani, ciclamini, gelsomini). Questa sembra essere ormai la sola realtà consentita alla poesia in un mondo in cui prevalgono i valori dell’utile e del guadagno. Si tratta di una realtà banale, triste, grigia che influenza ogni cosa e alla quale si «uniforma» anche l’anima del poeta. E la poesia, per adeguarsi ancora di più a una simile realtà, ne mutua le principali caratteristiche, diventa uniforme, monotona, ripetitiva, in un estremo tentativo di mascheramento e di mimetizzazione nella prosaicità del vivere quotidiano.
Anche dal lato stilistico e formale, si assiste a un deciso abbassamento del tono che viene ottenuto attraverso la «disgregazione della metricità tradizionale» (Mengaldo, 115) e l’adozione di alcune tecniche di tipo ‘prosastico’, come quella dell’elencazione, destinata a diventare la cifra inconfondibile della poesia govoniana. Nelle composizioni basate su questa tecnica, l’autore priva davvero la poesia di tutta la sua tradizionale dignità, decorosità, di ogni forma di ricercatezza, di retorica, accentuando al contrario la banalità, la piattezza attraverso la massiccia immissione di una serie di elementi metrici, sintattici e lessicali di estrema povertà espressiva.
In Fuochi d’artifizio, la terza raccolta poetica uscita nel 1905, Govoni porta avanti quel processo di desublimazione del registro stilistico, iniziato con Armonia in grigio et in silenzio, fino a giungere a una sorta di «poesia-diario», cioè di una poesia che si limita a una registrazione fedele, minuta, realistica di fatti e momenti della giornata. Qui la poesia, o l’«anti.-poesia», di Govoni si mimetizza fra le «piccole cose» della giornata, diventando un elemento come tutti gli altri, banale, insignificante, comune come le azioni e gli oggetti che vengono descritti e nominati. In questo modo il poeta fa tabula rasa delle primitive infatuazioni estetizzanti, procedendo al contrario a una radicale dissacrazione delle istituzioni poetiche tradizionali. In Fuochi d’artifizio c’è un allargamento della tematica in direzione di una realtà più familiare e casalinga e a tratti quel tono di grigiore della raccolta precedente sembra scomparire. Ma anche quando il poeta si sofferma su certi ambienti ‘paesani’, descrivendoli in alcuni momenti di gioiosa partecipazione collettiva, come in occasione di certe fiere o feste, o quando osserva il ristretto nucleo familiare riunito intorno al tavolo del tinello o nei modesti interni campagnoli, non viene mai meno a questo modo estremamente spoglio e dimesso di narrare. Contribuiscono ad abbassare ulteriormente il registro stilistico della raccolta il tono discorsivo e i frequenti inserti colloquiali che compaiono in alcune novelle liriche, nonché la presenza di termini del linguaggio infantile, oltre che le numerose onomatopee.
Nella quarta raccolta, Gli aborti, il poeta procede a una ricapitolazione generale della sua poesia, riprendendo temi e modi di tutti i suoi libri precedenti, in una sorta di consuntivo di questo primo tempo della sua produzione. Attingendo ai già considerevoli depositi di immagini e motivi, costituiti dai suoi primi tre libri, e sfruttando l’intera gamma dei registri stilistici adoperati, egli costruisce ora una poesia sulla poesia, una poesia al quadrato per così dire. Non deve stupire perciò che nella prima delle due sezioni in cui è diviso il libro, Le poesie d’Arlecchino, composta da novanta sonetti, ritornano anche i caratteristici temi ‘decadenti’ delle Fiale. Questo però non vuol dire, come pure è stato sostenuto, che Govoni ritorna, sic et simpliciter, al passato, perché quei temi ritornano in maniera nuova, cioè in maniera ironica, straniata, parodica. Un esempio di questo ritorno ironizzato è costituito dalla serie di sonetti dedicati ai fiori, alcuni dei quali richiamano addirittura i temi erotici e trasgressivi di Vas luxuriae, la sezione poi espunta dalle Fiale. In queste composizioni l’intento parodico è evidente nella repentina sostituzione delle famose cortigiane dell’antichità, evocate nei sonetti di Vas luxuriae, con i fiori, i quali diventano appunto, inaspettatamente, i nuovi simboli della lussuria.
Ma anche in un altro sonetto, Sancta simplicitas, ad esempio, in cui il poeta riprende il topos del parco, emerge il capovolgimento volutamente polemico di questo motivo che subisce un’inesorabile trasformazione. Dal parco aristocratico e sfarzoso, di tipo dannunziano, si passa qui infatti al piccolo orto dove la coltivazione delle ‘utili’ cipolle prende il posto delle inutili aiuole piene di fiori. Il che significa che nel mondo moderno, dominato dai miti dell’utile e del guadagno, è impossibile una bellezza gratuita, disinteressata, una poesia fine a se stessa, ed è necessario adeguare la creazione artistica alle mutate esigenze della società, dotandola di un certo grado, sia pur minimo di utilità, proprio secondo la tesi sostenuta in Alla musa.
D’altra parte, nella seconda sezione del libro, I cenci dell’anima, Govoni procede nella direzione ormai abituale della prosaicizzazione, ampliando ancora di più il repertorio crepuscolare, del quale entrano a far parte nuovi motivi: le città di provincia, gli amori «tristi», le invocazioni al sole, le domeniche, le «giovinezze sfiorite». La tecnica dell’enumerazione viene portata alle estreme conseguenze in alcune composizioni nelle quali a ogni verso corrisponde una frase-immagine. Si formano così cataloghi praticamente inesauribili delle «cose che fanno la domenica», dei posti «dove stanno bene i fiori» o «dove stanno bene gli uccelli», delle «dolcezze» e delle «tristezze». Le singole immagini, sviluppate più distesamente, ritornano poi in altre poesie o possono dar vita a interi componimenti. Govoni insomma non fa che ripetere gli stessi temi, le stesse immagini che si rincorrono in un continuo gioco di specchi da un testo all’altro. Così facendo, egli rinuncia anche a un’altra importante prerogativa della poesia sublime, quella di creare situazioni sempre nuove, inedite, impreviste. Insomma la dissacrazione della poesia tradizionale, preannunciata nella composizione in limine di questa raccolta, Alla musa, non poteva essere ormai più completa.
[In L’incipit e la tradizione letteraria italiana, a cura di P. Guaragnella e S. De Toma, Lecce, Pensa Multimedia, 2013, pp. 151-158.]
NOTA BIBLIOGRAFICA
Opere:
Le raccolte poetiche di Corrado Govoni alle quali si fa riferimento sono le seguenti:
Le fiale, Lumachi, Firenze 1903 (ristampa anastatica del testo originario che comprende la sezione, poi espunta dall’autore, Vas luxuriae, con una Nota di L. Caretti, Galeati, Imola 1983); nuova ed., Garzanti, Milano 1948.
Armonia in grigio et in silenzio. Poema, Lumachi, Firenze 1903 (ristampa anastatica a cura di L. Barile, Libri Scheiwiller, Milano 1989).
Fuochi d’artifizio, Palermo, Ganguzza Lajosa, Palermo s.d. [1905].
Gli aborti. Le poesie d’Arlecchino. I cenci dell’anima, Taddei Soati, Ferrara 1907. Ristampaa cura e con una introduzione, Gli esperimenti di un poeta povero, di F.Targhetta, Edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova 2008.
Un’ampia scelta della prima produzione govoniana è contenuta nell’antologia: Poesie 1903-1958, a cura e con Introduzione di G. Tellini, Milano, Mondadori, Milano 2000 (con ampia bibliografia).
La citazione della lettera govoniana è tratta da: Lettere a Adolfo De Carolis, a cura di C. Martini, in «Nuova Antologia», a. 101, fasc. 1982, febbraio 1966, pp. 219-227.
Studi specifici sulla prima stagione govoniana (1903-1907):
Beccaria G. L., Il linguaggio poetico di Govoni, in Corrado Govoni. Atti delle Giornate di studio (Ferrara, 5-7 maggio 1983), a cura di A. Folli, Cappelli, Bologna 1984, pp.151-199
Curi F., Corrado Govoni, Mursia, Milano 1964, 19732.
Curi F., La «corte confusa», statuto e metamorfosi dell’allegoria nella poesia moderna, in Corrado Govoni. Atti delle Giornate di studio, cit., pp. 201-248
Farinelli G., Corrado Govoni, in Perché tu mi dici poeta. Storia e poesia del movimento crepuscolare, Carocci, Roma 2005, pp. 211-292.
Folli A., Il laboratorio poetico di Govoni: 1902-1908, in «La Rassegna della Letteratura italiana», a. 78, n. 3, settembre-dicembre 1974, pp. 437-455
Giannone A. L., La desublimazione della poesia nel primo Govoni, in Tradizione e innovazione nella poesia italiana del Novecento, Milella, Lecce 1983, pp. 139-175
Livi F., C. Govoni, in Dai simbolisti ai crepuscolari, Istituto Propaganda Libraria, Milano 1974, pp. 275-315.
Livi F., C. Govoni esploratore del liberty, in Tra crepuscolarismo e futurismo: Govoni e Palazzeschi, Istituto Propaganda Libraria, Milano 1980, pp. 71-185
Livi F., Govoni e i poeti di lingua francese, in Corrado Govoni. Atti delle Giornate di studio, cit., pp. 51-105
Mengaldo P. V., Considerazioni sulla metrica del primo Govoni (1903-1915), in Corrado Govoni. Atti delle Giornate di studio, cit., pp. 107-150
Salibra E., Le due edizioni delle «Fiale» di Govoni, in «Italianistica», a. VII, n. 1, 1979, pp. 38-49.
Sanguineti E., Govoni tra liberty e crepuscolarismo, in Corrado Govoni. Atti delle Giornate di studio, cit., pp. 19-50
Targhetta F., L’esplosione e l’esasperazione: i «Fuochi d’artifizio» di Corrado Govoni, in «Studi novecenteschi», a. 2009, n. 2, pp. 469-506
Vieri F., Intorno alle «Fiale»: incunaboli del protonovecento govoniano, Le Lettere, Firenze 2001
Villa A. I., Il crepuscolarismo. Ideologia, poetica, bibliografia, Metauro Edizioni, Pesaro 2008.