di Antonio Lucio Giannone
La quarta raccolta poetica di Corrado Govoni, Gli aborti, pubblicata nel 1907, è divisa in due sezioni, le quali figurano come sottotitoli nel frontespizio: Le poesie d’Arlecchino e I cenci dell’anima. Nel progetto originario dell’autore, probabilmente, queste due sezioni dovevano costituire due raccolte distinte, poi accorpate nello stesso volume. Il libro è aperto da una lunga composizione, posta in limine e intitolata Alla musa, la quale non solo è facilmente riconoscibile come incipit, ma assume, anche a causa di questa sua particolare posizione, la funzione di una vera e propria dichiarazione di poetica, quasi di un ‘manifesto’ in versi. Per di più essa, a nostro giudizio, oltre a chiarire le ragioni di quel volume, serve anche a illuminare retrospettivamente l’itinerario compiuto dal poeta ferrarese fino ad allora e a indicare la direzione principale, quella più autenticamente innovatrice, della sua prima importante stagione. Alla Musa rappresenta infatti il punto d’arrivo, l’approdo di una concezione poetica, tipicamente ‘crepuscolare’, che caratterizza, pur in mezzo a oscillazioni e incertezze di vario genere, i primi quattro libri di Govoni e costituisce il contributo più originale da lui offerto alla poesia italiana protonovecentesca.
La poesia è composta da un’unica strofe indivisa per complessivi 114 versi di varia misura. (si va dal quinario al verso di sedici sillabe). Qui l’autore dà l’addio definitivamente, anche se con un po’ di rimpianto, a quel tipo di lirica sublime, aristocratica, raffinata, che lo aveva attratto ai suoi esordi, al tempo de Le fiale, e dichiara la piena disponibilità per una poesia più dimessa, cordiale, attenta alla realtà minuta e utile anche in un certo senso, alla società. Questo programma si rivela fin dall’inizio con l’invito, rivolto da Govoni alla propria «musa», a rinnegare la sua ‘diversità’, tagliandosi le bionde chiome, e a farsi simile al «calvo gregge», cioè al resto degli uomini, alla massa: