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Grandi cambiamenti della mia biblioteca. Per almeno tre decenni, cioè da quando ha cominciato a prender forma la mia biblioteca, ho sistemato i miei libri per disciplina: gli storici con gli storici, i filosofi coi filosofi, i poeti coi poeti, ecc. Ma nei giorni della pandemia, stando più a lungo tra i miei libri, ho distrutto quell’ordine, che mi sembrava chiudermi come in una gabbia, la gabbia dei saperi disciplinari. Quale ordine ho dato, dunque, ai miei libri? Li ho riuniti nel modo più anodino che si possa immaginare, in un modo esteticamente semplice e piacevole a vedersi: per collana editoriale: i Meridiani coi Meridiani, i Millenni coi Millenni, la Biblioteca Adelphi con la Biblioteca Adelphi, i libri de Il Mulino coi libri de Il Mulino, ecc. I libri non appartenenti alle grandi collane editoriali, non avendo molto spazio a disposizione, li ho disposti in seconda fila, il che mi disturba molto, perché non ho la possibilità di vederli immediatamente, ma solo dopo aver spostato la prima fila. Pertanto, dovrò tenere a mente il luogo fisico dove ho collocato ogni libro, se voglio ritrovarlo alla bisogna, altrimenti rimarrà lì per l’eternità. La seconda fila sarà dunque per me un banco di prova delle mie ricerche e delle mie predilezioni, di quanto ha suscitato il mio interesse e di quanto il mio interesse è rimasto vivo oppure è cessato. E la prima fila? Risponde solo a un criterio estetico? Libri tutti uguali, in bella mostra, disposti intorno a me come una bella tappezzeria dello studio. Il sapere e la sua apparenza estetica, gradevole alla vista, ma che non dice nulla a proposito delle mie inclinazioni classificatorie. La scelta estetica come via di fuga, di liberazione da ogni sapere disciplinare, di cui ho voluto disfarmi con questo riordino dei miei libri. Ora vivo in mezzo a centinaia di volumi ben ordinati e allineati, che sono lì, fermi negli scaffali e non sembrano più avere la presunzione di dire: io appartengo alla disciplina storica, io alla filosofia, io alla letteratura, ecc. Essi ora aspettano che sia io ad andarli a trovare, sottraendoli per il tempo della lettura al posto che hanno avuto in sorte in virtù della loro collocazione editoriale, che li rende immediatamente riconoscibili come appartenenti ad una precisa collana. Ed io, che ci vivo in mezzo, mi sento più leggero, libero da ogni sapere disciplinare nel quale per mia insipienza mi ero rinchiuso, pronto a stupirmi di ritrovare in collane diverse gli stessi autori e autori così diversi nella stessa collana.
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Antropogenesi. Giorgio Agamben, in una lezione (seguila in You tube) intitolata L’archeologia, tenuta presso il Palazzo Serra di Cassano, a Napoli, il 9 maggio 2019, ospite dell’Istituto italiano per gli Studi Filosofici, ci spiega che cos’è l’antropogenesi: “… l’antropogenesi è da una parte un evento che noi non possiamo non considerare avvenuto, deve essere necessariamente avvenuto, e tuttavia non possiamo né dobbiamo ipostatizzarlo in un evento cronologico. Invece di cercare di identificare – come fanno i paleoantropologi – un punto in cui l’uomo sarebbe una volta per tutte diventato umano, e poi slitta di continuo, noi dobbiamo concepire l’antropogenesi come un evento sempre e tuttora in corso. L’uomo non cessa di diventare umano e non cessa di restare non umano, animale. In questo senso l’ἀρχή che l’archeologia persegue è – come l’antropogenesi – un evento tuttora in corso e, proprio per questo, questo evento tuttora in corso custodisce qualcosa come una possibilità [Agamben cita la conclusione delle Baccanti di Euripide]”.
Nell’indole apparentemente indecifrabile dell’uomo vi è dunque questa doppia natura, dell’“uomo [che] non cessa di diventare umano e [quella dell’uomo che] non cessa di restare non umano, animale”; e quest’indole è rinvenibile in ogni suo comportamento sociale, laddove l’aggressività, la violenza, la spietatezza sono celate dall’altruismo, dalla predicazione e dalla pratica dei buoni sentimenti. Ma qual è la possibilità di cui parla Agamben? Forse egli pensa che un giorno l’uomo diventerà del tutto umano, smettendo di restare animale? Che cosa significherà, allora, essere del tutto umano senza essere ancora animale?
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Comprendere l’altro. A proposito della disuguaglianza tra gli uomini, ch’io interpreto come il risultato della logica di dominio che ne regola i rapporti; e a proposito di quanto ne ho dedotto sul cannibalismo, che altro non sarebbe che la versione primitiva della moderna disuguaglianza, per cui oggi l’uomo non mangia più l’altro uomo, ma lo domina, lo sfrutta, ne mangia le sostanze, in altri termini lo cannibalizza; ecco che cosa afferma Claude Lévi Strauss, Siamo tutti cannibali, cit., p. 91: “Con modalità e scopi straordinariamente diversi a seconda dei tempi e dei luoghi, essi [gli episodi di cannibalismo] comportano sempre la volontà di introdurre nel corpo di un essere umano parti o sostanze provenienti dal corpo di altri esseri umani.”. Il che vuol dire che i trapianti di organi sono un esempio di cannibalismo (terapeutico) moderno. “Così esorcizzato, – continua Lévi Strauss – il concetto di cannibalismo finirà con l’apparire quasi banale. Jean Jacques Rousseau poneva all’origine della vita sociale il sentimento che ci spinge a identificarci con gli altri. Dopo tutto il modo più semplice di identificare un altro con se stesso consiste nel mangiarlo”.
Quella di Rousseau sembra una boutade, ma non lo è. Se io deducessi tutto il deducibile da questa affermazione, dovrei dire infatti che identificarsi in un altro significa comprenderlo – già questa parola nel suo significato letterale appare piuttosto aggressiva (prendere, afferrare, far proprio qualcosa) -, ed anche compatirlo, ove ricorra una circostanza che susciti la compassione. Si capisce bene, allora, che la comprensione dell’altro e la compassione verso l’altro siano espressioni civilizzate del cannibalismo primitivo, il volto buono di una pratica antichissima e nefanda, e dunque messa al bando dall’umanità, che tuttavia continua a praticarla in modi indiretti.
Pertanto, ha ragione Giacomo Leopardi, quando, a proposito della compassione, scrive nello Zibaldone 3108-3109 (Edizione Damiani, p. 1950): “L’atto della compassione è un atto d’orgoglio che l’uomo fa tra se stesso. Così anche la compassione che sembra l’effetto il più lontano, anzi il più contrario, all’amor proprio, e che sembra non potersi in nessun modo e per niuna parte ridurre o riferire a questo amore, non deriva in sostanza (come tutti gli altri affetti) se non da esso, anzi non è che amor proprio, ed atto di egoismo. Il quale arriva a prodursi e fabbricarsi un piacere col persuadersi di morire, o d’interrompere le sue funzioni, applicando l’interesse dell’individuo ad altrui. Sicché l’egoismo si compiace perché crede di aver cessato o sospeso il suo proprio essere di egoismo.”.
La compassione come atto d’orgoglio, atto d’egoismo: il bene altrui cui è diretta la compassione non riesce a nascondere il movente primo dell’azione umana, che rimane l’amor proprio. Non è forse questo un buon esempio di come “l’uomo non cessa di diventare umano e non cessa di restare non umano, animale” (Agamben)?
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I romanzi polizieschi e la fede. Graham Greene, Il console onorario, in Romanzi II, a cura di Paolo Bertinetti, Mondadori, Milano 2001, pp.1264-1265, per bocca di un suo personaggio (Leon), ci dice che “è rilassante leggere una storia che sai già come va a finire. La storia di un mondo di sogno in cui vince sempre la giustizia. Non esistevano romanzi polizieschi nell’epoca della fede. Cosa interessante, se ci pensi. Il solo e unico investigatore era Dio, quando la gente credeva in Lui. Era Lui la legge. Era Lui l’ordine. Era in gamba. Come il vostro Sherlock Holmes. Era Lui che scopriva tutto e perseguitava l’uomo malvagio per punirlo…”.
L’invenzione di genere letterario, in questo caso il poliziesco, è legata al cambiamento del paradigma della modernità ed ha dunque una solida motivazione antropologica. Venuta meno la fede in un Dio guardiano e giudice, un uomo più intelligente degli altri ne prende il posto e ne assolve la funzione, solo con modalità diverse. Al paradigma teologico, infatti, la modernità ha sostituito il paradigma scientifico, impersonato benissimo da Sherlock Holmes. Il lettore di romanzi polizieschi ha trovato un sostituto alla perdita della fede.