Banfi è così approdato alla resistenza militante. Dopo la laurea in lettere nel 1908 e quella in filosofia nel 1910, ha frequentato a Berlino per due anni, fino a tutto il 1911, un seminario filosofico, e d’ora in poi la filosofia diventa una misura critica della sua originaria preparazione letteraria. Viene quindi l’insegnamento nei Licei di Lanciano, di Iesi, di Urbino e di Alessandria. Scopre Hegel, “(…) che per un anno ho letto con una vera frenesia e una gioia senza limite: un pensiero libero, aperto trionfante sul dramma dialettico dell’esistenza, ricco d’esperienza (…)”[31]. Letture su letture. Poi gli studi si volgono alla politica (l’incontro con Marx è decisivo), all’economia, alla pedagogia e persino alle scienze matematiche e naturali.
Ne esce irrobustita la sua esperienza letteraria, ma soprattutto si precisa la sua filosofia. La cultura europea col suo idealismo spregiatore della realtà materiale e sensibile ha edificato un mondo astratto di concetti infinitamente distanti dalla realtà ed ha prosciugato le sorgenti pratiche ed esistenziali del pensiero.
Pensiero ed azione
Banfi è stato forse l’unico filosofo italiano che nel primo Novecento ha richiamato l’attenzione degli intellettuali sui testi della problematica religiosa e della teologia della crisi, da Kierkegaard a Nietzsche. Nella storia del suo pensiero, difatti, sono presenti tre maestri, la cui opera ha chiamato in causa il problema dell’irrazionalismo: Piero Martinetti, per il quale è possibile determinare soltanto il male, cioè l’antiragione e l’assurdo; Giorgio Simmel, dalle cui lezioni a Berlino Banfi apprende che bisogna eliminare i compromessi etici e gli inganni ideologici al fine di penetrare nel fondo della crisi sociale e politica; Edmund Husserl, simbolo della ragione aperta e libera e perciò garanzia di un comune lavoro per gli uomini che ricercano il vero. Sono queste le radici intellettuali e spirituali di Banfi. Per capirne il valore ed il significato, si deve tener conto che nella cultura europea del Novecento interi cicli speculativi sono stati corrosi e spazzati via dalla storia stessa, certezze morali ed intellettuali si sono infrante e sono venute meno, ed è rimasta vanificata anche la pretesa dell’uomo di scorgere nella vita la presenza di fondamenti universali e necessari e di valori eterni ed indiscutibili. L’irrazionalismo molto spesso ha così preso il sopravvento su ogni tentativo di spiegare in termini di ragione il mondo moderno.
Banfi, che dal Liceo “Parini” è passato a professare nell’Università milanese il suo magistero di Estetica, fondendo in perfetta armonia filosofia e letteratura, proprio alla filosofia della crisi ha dedicato lunghi studi, cogliendone l’importanza teorica e storica. Non gli sfugge, difatti, che una cultura in crisi come quella del Novecento, è una cultura in movimento che fa emergere contraddizioni e tensioni profonde nella vita civile, nel costume, negli istituti e nei valori. D’altra parte l’armonica unità dell’uomo con la natura, ricomposta ad opera della filosofia hegeliana, è venuta meno. Di conseguenza, il destino dell’uomo appare sempre più alienato e sacrificato a potenze ignote ed impersonali. Nonostante ciò, la filosofia irrazionalistica della crisi non è per Banfi né una visione del mondo né una crisi speculativa o metafisica. E’ invece una crisi storica che nasce dalle contraddizioni presenti nel mondo dei rapporti tra gli uomini reali e che soltanto la vita e la storia possono superare. A questa crisi Banfi oppone il suo realismo critico assumendo nelle vicende del suo tempo un atteggiamento consapevole. Egli difatti si oppone alla prima guerra mondiale, aderisce al socialismo e, nel 1925, firma il manifesto degli intellettuali antifascisti, professa antifascismo nelle sue lezioni e agli inizi degli anni Quaranta stringe legami, come abbiamo detto, con la rete clandestina del Partito comunista italiano. Momento essenziale del suo impegno di politica militante è la partecipazione alla Resistenza, allorché la sua casa di via Magenta a Milano diventa un centro attivo di collegamenti e di rifornimenti, nonché rifugio per i perseguitati politici e per i combattenti partigiani.
Gli Scritti letterari di Antonio Banfi non sono una pubblicazione recente[32], ma tra gli intellettuali del Salento sono scarsamente conosciuti, forse perché la cultura salentina, prona ad un meridionalismo di stato che ha prodotto un nuovo trasformismo, non ha rinnovato in tempo le proprie esperienze, e ci pare perciò che non sia in pari con la storia. La presentazione di questi Scritti è un contributo allo svecchiamento della nostra cultura.
Presentato da una introduzione di Carlo Cordiè, che lascia un po’ in ombra la milizia comunista di Banfi, la quale si è svolta con contributi di prim’ordine nel Senato della Repubblica a convalida di una attività civile che si è espressa con la fondazione a Milano, dopo la Liberazione, della Casa della Cultura, e con l’importante opera svolta presso il Centro di difesa e di prevenzione sociale, il libro raccoglie gli scritti letterari (recensioni, meditazioni, ricordi, appunti di viaggio ed impressioni in forma di lettere) che Banfi è venuto pubblicando in vari periodici.
Una prima impressione: gli scritti sono nati da un pensiero che si è sistemato nelle forme della filosofia. Lo stile però ha superato il lento svolgersi del pensiero dimostrativo, proprio di un’educazione filosofica, per rendere il senso della parola precisa e concreta. Ecco una compendiosa formula, indicativa ex adverso dell’umanesimo moderno contrario ai privilegi di classe e di popoli ed all’isolamento dei dotti: “(…) Certo l’umanesimo classico e la creazione d’una aristocrazia di liberi, che divennero poi dei privilegiati e fra i privilegiati dei dotti e fra i dotti dei pedanti. Così la tradizione classica si spense, si falsificò, mancandole la base stessa sociale, chè i pedanti, i dotti, i privilegiati proprio perché tali cessarono di essere liberi (…)”[33].
Nello scritto Il pensiero filosofico nell’opera dantesca, che riproduce una conferenza tenuta il 23 aprile 1921 al Liceo “Plana” di Alessandria, Banfi trova modo di illustrare come più profonda la crisi dell’età nostra, in quanto epoca infranta e traversata dalle forze elementari della vita sociale, che quella dell’età di Dante. Tuttavia la storia si compie con la necessità di un destino di contro alle intenzioni delle “anime belle”. Si badi alla data dello scritto. Siamo alla vigilia del fascismo, e Dante è ricondotto a simbolo di ciò che è stato sacro. Nonostante che il fascismo, l’umanità acciecata, appaia prossimo a spezzare l’equilibrio tra idealità e realtà sociale, “(…) il mondo dello spirito, nelle sue forme più libere e più pure della bellezza, della fede e della verità, s’eleva nelle anime migliori come l’unico modo certo ed incorruttibile, il cielo immobile che tutto muove, in cui l’ideale prepara nuove forme alla vita e donde, come a Dante la tragedia e la commedia dell’umanità acciecata, appare quale l’atto d’una profonda indefettibile giustizia”[34].
Gli scritti letterari di Banfi vanno giudicati tenendo conto della concezione che egli ha avuto della filosofia. Allora vi si rinviene la nascita e lo sviluppo delle forme della realtà come momenti interni di una storia concepita e vissuta alla luce di una salda fedeltà alla ragione.
L’uomo copernicano
Per questo, tra gli altri, hanno grande rilievo gli scritti su Leonardo e su Galilei che rivelano la vitalità dell’esperienza rigenerata nell’età moderna dal sapere storico e dall’affermazione delle scienze fisico-naturali. Ecco in uno scritto di Leonardo la sublime epopea dell’acqua: “(…) Volentieri si leva per lo caldo sottile vapore. Il freddo la congela, stabilità la corrompe. Ripiglia ogni odore, calore e sapore, e da sé non à niente. Possi con moto e balzo elevar in alto. Quando essa cala sommerge con seco nelle sue ruine le cose (…)”. L’acribìa del critico scopre che “la poeticità ha anticipato la concezione scientifica”. E’ una formula epigrafica per dire che la parola di Leonardo fa della materia un principio di vita, come concatenazione di cause e conservazione dell’essere di contro al sapere metafisico. Il vero segreto di Leonardo artista è la ricerca come indagine della realtà in mille aspetti ed in mille forme. Che cos’è un filo d’erba legato ad un piccolo stelo che termina in fiore e poi l’erba è disegnata in ciuffo ed i ciuffi sono disegnati gli uni vicini agli altri? E’ l’emblema di un vitale sforzo comune. E cosa sono le figure di ermafrodito degli adolescenti leonardeschi in cui il problema del sesso vive nel significato creativo della natura? Sono l’esempio di un grande sforzo e della via aperta alla scoperta e al riconoscimento della realtà, per farci uscire dal mistero di male e di bene, di ragione e di sensibilità, e celebrare così la vita dell’universo e, nella vita dell’universo, l’uomo. Leonardo è stato scopritore delle tecniche che hanno permesso all’uomo di conseguire il primato nel regno della natura, e di stringere, prima del patto giuridico, il patto di lavoro e di azione comune e convergente nella comune utilità. Così Banfi ha presentato Leonardo agli operai in una conferenza tenuta alla Camera del lavoro di Milano e provincia il 9 ottobre 1952, e così egli è venuto educando il popolo al culto della scienza e dell’arte. E’ questo lo spirito della scienza nuova.
E dopo Leonardo, Galilei. Avanza l’uomo che ha rotto il ferreo cerchio del mito e nella natura vive non a subire un destino metafisico, ma a crearsi una propria storia ed un proprio mondo, perché compito dell’uomo non è più l’attesa della morte e la sottomissione al trascendente, ma la celebrazione ardita della vita. E’ nato l’uomo copernicano. Passa nella parola di Banfi quasi la celebrazione di un rito: “(…) Egli non è al centro del mondo metafisicamente ordinato secondo un sistema di ideali valori che gli prescrivono i fini, le azioni, il destino, che ne determinano la storia. Gettato su un piccolo astro rotante tra l’innumerevole moltitudine dei mondi, nell’infinità dell’universo, egli non ha un divino ordine da celebrare in un prescritto destino. Egli crea a se stesso la sua vita ed il suo destino nel corso operoso dei millenni; le sue armi sono la coscienza razionale ed il lavoro. E con l’una e con l’altra foggia a se stesso il suo mondo, che non gli è dato, ma è l’opera sua. La storia è l’epopea di questa grande conquista, il lavoro è l’arma di questa grande lotta. Lotta in cui ciascun uomo è impegnato con l’altro a fianco dell’altro, in un’indistruttibile solidarietà (…)”
Con Galilei, secondo Banfi, il sapere scientifico diventa cultura scientifica perché impara a conoscersi come storicità. Nasce così la civiltà moderna, perchè è nato il sapere che non ha autorità e tradizione al di fuori della sua evidenza e continuità, che ha la sua sede non nei libri e nelle aule accademiche, ma là dove ferve l’opera umana. Per questo, dice Banfi, Galilei abbandona lo studio padovano e ritorna a Firenze. Egli vuole recuperare la libertà dell’impegno accademico, ma si rifiuta di formare l’uomo cattedratico, il cui posto deve essere preso dall’uomo che accetti e collabori al nuovo sapere scientifico. L’uomo moderno non è destinato a concludere la vita in un’astratta formula di saggezza, ma ad aprirla ed a sorreggerla nella costruzione tecnica di un mondo corrispondente alle positive esigenze degli uomini.
Pochi scritti sono così problematici come quelli di Banfi. Il problema dell’uomo è sempre vivo alla mente del critico.
Partendo da un’analisi critico-razionale della filosofia della crisi, Banfi crede che l’umanità abbia perduto, agli urti del reale, la sua struttura etica. Da questa riflessione discende l’interesse del critico anche per l’esperienza intellettuale del Tasso e del suo tempo. Quel che colpisce negli scritti banfiani sul Tasso è un’acuta osservazione: non la solitudine, che può essere una forma di superiore umanità, né l’amore, che è libertà dai richiami del mondo, vanno isolati nell’opera del Tasso, ma l’idillio georgico. Al tempo del poeta, difatti, il regime signorile non soltanto ha introdotto nella campagna gli elementi della vita cittadina, ma ha assorbito nella vita cortigiana l’aspetto della rusticità campagnola, come momento interno di una sua libertà. Così si attua il processo di liberazione dell’uomo nella natura, e l’uomo in un momento di crisi, ricompone la sua umanità.
L’umanità di Banfi non è stata volontà di far la predica, bensì moralità di costruire il mondo attraverso contraddizioni, difficoltà ed asprezze. Il più suo tra i poeti è stato Carlo Porta, da lui studiato in una edizione del 1826 ereditata dal nonno e salvata attraverso traslochi e bombardamenti, e nell’edizione Carrara del 1865 passata per le mani del padre. Il Porta rimette il critico a contatto con un’umanità elementare. Il lettore rinvenga con noi nella citazione che segue quasi un approdo sicuro dal più vasto oceano della vita: “(…) La vecchia città di Milano, dal suo cielo ora grigio e pallido di nubi, ora effuso in soave morbida serenità; greve di nebbia d’inverno, affogata l’estate dal sole, quando i Navigli mandano, o mandavano, un sentore nostalgico di palude e l’umidore e l’ombre delle vie e dei cortili tra poggioli e baltresche di poveri fiori, consolava la sera dall’arsura; Milano dai cupi palazzi signorili chiusi come castelli, dalle larghe piazze piene di popolo ai Corpi Santi, distesa sino alle osteriette con la pergola ombrosa, lungo l’Olona o il Lambro, cui un secolo fra i colli di Brianza inviavano i loro vini leggeri e frizzanti. Una Milano d’aver tutta in mano od in cuore, con la sua bonaria scapigliatura d’amici intellettuali sparsi nei due o tre caffè del Centro (…)”.
Sempre in coerenza col suo razionalismo critico, che abbiamo detto essere l’impianto del suo pensiero, Banfi ricorre alla storia per spiegare ed interpretare la funzione che ha il dialetto del Porta. Esso è l’espressione dell’amore del poeta verso il suo popolo senza speranza, se è vero che, dopo Verri, Parini e Beccaria, e dopo l’invasione napoleonica, a Milano i ceti si dissolvono ed una nuova classe dirigente stenta a formarsi e il dialetto del Porta, quindi, diventa l’espressione viva ed organica di un tragico isolamento e di una crisi senza universalità.
A proposito di linguaggio, anche le meditazioni di Banfi sulla lirica contemporanea filtrano attraverso la riflessione storica. La poesia metafisica di Arturo Onofri, per esempio, si è fissata in un linguaggio come forma d’arte di un presentito e profondo essere assoluto, e in quella forma è passata l’esperienza di tutta la realtà, nonché tutto il processo della cultura umana, e quindi anche l’ansia della ricerca e la conquista del finito nell’Eterno come momento della crisi dell’arte moderna. Si rinnova così l’esigenza metafisica dell’età presente.
Vi sono pagine degli Scritti letterari di Antonio Banfi in cui la parola, redenta da ogni estrinseca finalità, riflette il senso immanente della realtà e della vita, ed altre per cui scorre il fiume della memoria: “(…) Sono sceso a Firenze per un convegno politico (…). Ma fuori, improvvisa, è anche la tentazione; tentazione di una notte obliviosa, serena di luna per i Lungarni. Mi ha colto all’uscita, come un incantesimo. La città assorta splende come una gemma: dal ponte alla Carraia sino alle umili ombrose arcate di Ponte Vecchio, e là di fronte Costa San Giorgio, ora desolata di rovine, con la via che percorremmo verso la serenità aerea di Pian de’ Giullari, che la luna incanta come ai giorni di Galileo e di Suor Maria Celeste (…). Isidoro Del Lungo leggeva infaticabilmente in Or San Michele i canti danteschi ed infaticabilmente la gente ascoltava le ultime notizie di Farinata e di Piccarda. Piccolo e severo, Rajna ti apriva cordiale lo schedario infinito della lunga erudizione e sorrideva compiaciuto della sua meraviglia.
Schiaparelli scoteva per te soavemente, con facile mano, dai diplomi e dai regesti la polvere del passato (…)”[37].
Ecco ancora un vivace bozzetto napoletano che studiosamente ingloba uno strale polemico anticrociano: “(…) Sei preso nell’onda calda di vita. La merce t’invita dai mille banchetti: affondare le mani nell’erbe fragranti di frescura, ritrarle pregne d’aroma d’arance dorate, saggiare il pane, sentir crocchiare nel sacco le noci. Ecco già ammicchi al bimbo che ti guarda sorridente e sfrontato: con lui t’avvicini alla rissa che infuria alla porta d’una taverna; ti richiama il chiacchericcio sommesso dei vecchi nell’angolo ombroso d’un portico; ti rapisce la scia luminosa di una fanciulla, tra stracci, fiera regina di un morbido mondo di calda passione. Tutto si agita ed a ogni urto sprizza scintille di passionalità viva, che in te penetrano, t’accendono, e l’anima trascorre portata dal vento primaverile della divina parola che vola, s’accoglie, s’infrange, echeggia: logo vivente come quello che sulle piazze d’Atene si sublimava nell’umana sapienza di Socrate. Ma no, qui non v’è Socrate; se non forse quello di Aristofane. Il filosofo cittadino, – ma i napoletani risentono dell’asprezza della terrra d’Abruzzo – dal suo palazzo secentesco specula il mondo dello Spirito e così gli si annebbia il mondo degli uomini (…)”[38].
Infine, una monade che rispecchia il cuore della questione meridionale attraverso una reminiscenza gozzaniana ed una dantesca, ci appare questo pensiero: “(…) Ecco il gruppo degli intellettuali autorevoli locali: ti chiedono notizie e con apprensione ti accorgi che parlano solo di morti o di sopravvissuti; dell’altra generazione, gli ultimi ammessi nel “nobile castello” della cultura umanistica tradizionale (…)”39.
Banfi non è né un filosofo né un critico, ma uno scrittore-letterato, filosofo e critico, se è vero che nella sua pagina passa la voce dell’umanità e della verità.
[Gli scritti letterari del filosofo Antonio Banfi, “Il Corriere Nuovo”, anno IV, n. 6, 1981, pp. 3-4]
Note
30] …… [manca l’indicazione bibliografica]
31] Cfr. la lettera dell’8 giugno 1942 a Giovanni M. Bertin ne La formazione del pensiero di Banfi ed il motivo antimetafisico in “Aut-Aut”, n. 43-44, gennaio-marzo 1958, pp. 26-37.
[32] Editori Riuniti, Roma 1970.
[33] A. Banfi, Per la rinascita dell’umanesimo classico, in Scritti letterari di Antonio Banfi, cit., p. 16.
[34] Ibidem, p. 38.
[37] A. Banfi, Giornate fiorentine, in Scritti letterari di Antonio Banfi, cit., pp. 265-266.
[38] A. Banfi, Giornate napoletane, in Scritti letterari di Antonio Banfi, cit., p. 272.
39] …… [manca l’indicazione bibliografica]