di Giuseppe Virgilio
Nell’aula prima dell’Università Statale di Milano al n. 10 di Corso Roma l’anno accademico 1939-40, il professor Antonio Banfi tiene le sue peripatetiche lezioni di Estetica che infondono a noi, imbarazzati studenti di primo anno nell’ora di una giovinezza fervida ma ancora scomposta, un calore di vita che ci riempie l’anima. Passa nelle sue parole un’umanità profonda ed insieme una provata saggezza, ma noi avvertiamo celata in quella voce una profondità che appartiene soltanto al Maestro. Intelligenza e coscienza si sono fuse in una grande forza morale e Banfi già in quegli anni sublima la sua passione civile in resistenza ideologica al fascismo.
Dall’Unità in poi in Italia vi è stata una vita democratica insufficiente. Perciò Banfi promuove un antifascismo rinnovatore e rivoluzionario, di cui l’esponente più popolare sarà Parri, di contro a chi ha creduto che il fascismo finisce con il dominio della vecchia classe dirigente: si pensi a Croce. Attorno a Banfi si compone per naturale aggregazione una gruppo di giovani. Tra gli altri v’è Eugenio Curiel, fondatore del Fronte della gioventù e della rivista La nostra lotta, caduto per mano dei fascisti repubblichini. Col ritmo incalzante e drammatico della paratassi, così Banfi riattualizza il sacrificio del giovane studioso triestino in uno scritto del 1951: “(…)Una mattina di nebbia gelida e grigia, pesante come cenere. Alla periferia desolata, la casa deserta… i colpi convenuti all’uscio. Giorgio [nome di battaglia di Curiel] mi ha preceduto; si passa le mani tra i capelli come a cacciarne il sonno che vi s’è nascosto. C’è da ridiscutere un articolo sui partiti cattolici e non siamo d’accordo: ce ne sfugge la ragione precisa; bisogna cercarla. Altre cose premono; bisogna riconoscere e controllare i movimenti di altre città, bisogna fissare gli appuntamenti e determinare il lavoro dei giovani del Fronte. Ma occorre anche guardare al futuro: il programma di quello che sarà il Fronte della cultura e di quello che doveva essere la sua rivista… Ci lasciammo; mi raccomandò di evitare piazzale Baracca: “E’ divenuto pericoloso”. Egli ci passò l’indomani, per doveri di lavoro. Lo attendevano… lo abbatterono sul marciapiedi (…)” 30.