Una poesia per capire il senso profondo della storia

La poesia non è potere, non ha potere.
In un libro di Yves Bonnefoy conservo il ritaglio di un’intervista – che non so più da dove provenga – in
cui il poeta francese dice che la poesia è la cosa che può rianimare la società, rifondare la democrazia. Poi
aggiunge che “la poesia non è abbastanza cosciente dell’importanza della sua funzione, e si consacra
troppo spesso ad esercizi puramente letterari”.
Però a volte accade che dai poeti vengano espressioni che consentono di comprendere il senso profondo della Storia, dei giorni che si vivono, perfino degli scenari che si profilano all’orizzonte. In fondo il mestiere del poeta consiste nell’ oltrevedere, nel proporre come condizioni di possibilità quelle che gli altri considerano impossibili, come concretezze probabili quelle che gli altri considerano assolute improbabilità. Loro scaraventano il pensiero al di là delle frontiere stabilite  dalla logica, dalla possibilità, dalle convenzioni, dal pensiero consueto, dalle comuni opinioni, e nella loro visionarietà, nella  sfrenatezza della loro immaginazione configurano visioni che poi a distanza di tempo, spesso di molto tempo, si ripresentano come forme  della realtà. Corteggiatori delle verità, a volte riescono a sedurle e a farsi rivelare una parola carica del significato di categoria alla quale si dovrà fare riferimento per rappresentare quello che sta accadendo. Quasi sempre si tratta di espressioni ad alto livello di semplicità, perché la metafora, l’allegoria, sono il tentativo di ricondurre la complessità in una forma semplice e trasferibile in  situazioni e contesti diversi da quelli in cui si sono generati. Forse potrebbe anche sembrare strano ma a volte si ha bisogno della poesia per capire. Forse se ne ha bisogno soprattutto quando molti significati sembrano sfuggire alle nostre categorie, ai nostri sistemi di pensiero, alle strutture nelle quali organizziamo i nostri concetti. Forse se ne ha bisogno quando i tempi che vengono sono diversi, con i fili delle storie aggrovigliati, quando non si riesce a trovare paragoni e quindi gli esempi delle soluzioni, quando non si sa bene o non si sa per niente verso quale direzione sia più giusto andare, quale sia il modo migliore per scansare i macigni.

Durante l’omelia della vigilia di Natale del 2020,  Papa Francesco ha citato Emily Dickinson; Ursula Von DerLeyen durante un discorso ha citato Romeo e Giulietta di Shakespeare e due versi  da Littte Gidding, uno degli straordinari Quattro quartetti di Eliot: “ Ciò che chiamiamo il principio è spesso la fine/e finire è cominciare” ( Cito dalla traduzione di Filippo Donini).

Allora questo secolo, o questo primo tempo di secolo nuovo, di nuovo millennio, chiede soprattutto una poesia che si liberi da ogni forma di esercizio, da ogni maniera, che si ponga nella condizione di ascoltare l’altro, di accoglierlo, di liberarlo, anche – per quanto è possibile, per come è possibile – da ogni solitudine, da ogni esilio, dall’oppressione, dalla
sofferenza, dall’arroganza, dalla prepotenza, dalla superficialità, dall’indifferenza, dalla bruttezza, dalla guerra che incombe ed accerchia, dalla vanità e dalla sonnolenza della coscienza, dalla tristezza del cuore e della mente.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 20 marzo 2022]

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