di Antonio Errico
Lunedì 21 marzo: giornata della poesia.
Al tempo dell’eccesso e del superfluo, della caduta dei miti, della morte degli dei, della tecnologia
vorticosa, delle crisi d’ogni sorta, al tempo della fine di tutte le utopie, di ricchezze e di miserie
ugualmente vergognose, al tempo dell’impero dei mercati, dei disastri irreparabili, dei terrori indescrivibili, al tempo della guerra che strangola le vite che senso può avere la poesia. Oppure: quale poesia può avere ancora un senso, può dire di ragioni e di
passioni oltrepassando il valico dell’ Io per conquistare – o recuperare – il riconoscimento dell’altro, degli
altri. Ma forse è proprio in un tempo che si mostra con una fisionomia deformata che serve la poesia, che serve una parola autentica e profonda, lontana da qualsiasi convenzionalismo, opportunismo, manierismo, artificio, accondiscendenza, autoreferenzialità, ambizione.
Il 12
dicembre del 1975, nel discorso per la consegna del premio Nobel, Eugenio
Montale si chiese se
fosse ancora possibile la poesia in un mondo nel quale il benessere è
assimilabile alla disperazione e l’arte,
ormai diventata bene di consumo, ha perso la sua essenza primaria. Poi
disse che si ritrovava lì, in quella
Accademia, per quel premio che rappresentava il riconoscimento che il mondo gli
tributava,
semplicemente perché aveva scritto poesie, “un prodotto assolutamente inutile,
ma quasi mai nocivo”.
Accade spesso che ritorni la domanda : a cosa serve la poesia.
La prima risposta che viene è questa: a niente. Perché la poesia non è pane e
non è acqua, non è la villa al
mare, non è un suv, l’attico, il conto in banca, la barca; non è nulla su cui
si possa investire, da cui si possa ricavare un guadagno. La poesia è una cosa
inutile com’ è inutile un notturno di Chopin, la luce strabiliante di Caravaggio, una pietà di Michelangelo.