Non si poteva concludere meglio una campagna di scavo realizzata, con risultati di grande rilievo scientifico, in collaborazione tra Comune di Castro (Sindaco Luigi Fersini, Assessore Alberto Capraro), Soprintendenza (arch. Francesca Riccio, Serena Strafella) e Università del Salento, da una squadra di giovani archeologi (coordinamento cantiere Amedeo Galati, con Alessandro Rizzo, Emanuele Ciullo, Donato Merico e Luigi Bene) entusiasti, capaci e vigorosi, e con finanziamenti assicurati dal prof. Francesco De Sio Lazzari, figlio del geologo Antonio Lazzari al quale è intitolato il Museo, e dal Club Inner Wheel Tricase Leuca, grazie alla Presidente Graziana Aprile.
Dalle osservazioni effettuate durante lo scavo risulta ormai chiaro che anche questa parte della statua di culto era stata volontariamente sepolta durante le complesse fasi di ex-auguratio, cioè di sconsacrazione del santuario nel momento in cui, all’inizio del II sec. a.C., i Romani avevano iniziato la costruzione di poderose fortificazioni. Al loro arrivo a Castro avevano trovato in rovina il celebre Santuario di Atena distrutto, intorno al 214 a.C., dalle milizie cartaginesi di Mauri e Numidi, che avevano abbattuto anche le statue della dea Atena. Essi avevano però riconosciuto il luogo in cui si veneravano le memorie troiane di Enea che era sbarcato proprio in questo luogo, esule da Troia, prima di raggiungere la foce del Tevere e dare origine alle vicende che portarono alla fondazione di Roma. All’interno delle mura avevano perciò deciso di seppellire, con un rito speciale, quanto restava del santuario: il busto fu collocato in una teca di blocchi, con l’offerta di monete di bronzo, mentre la parte inferiore del simulacro era stata deposta sotto un piccolo tumulo di pietre, come i rilievi della balaustra a motivi floreali. E il modo vivace di rendere le pieghe del simulacro, insieme alla ricchezza del linguaggio scultoreo dei fregi, portati alla luce negli scorsi anni, che annunciano i rilievi dell’Ara Pacis di Roma, ci fanno comprendere come gli scultori tarentini attivi nel Santuario di Castro avessero scoperto per la prima volta un nuovo materiale che non erano abituati a lavorare, la “pietra leccese”, e come si fossero accorti delle sue enormi potenzialità: grazie alla sua facilità di lavorazione essi potevano accentuare gli effetti decorativi, facendo risaltare i panneggi, moltiplicando nei fregi le specie vegetali rappresentate, animandoli con figure alate, eroti, animali, in un tripudio di forme che celebrava la ricchezza e la fecondità della natura e dell’opera di uomini e divinità. Un barocco leccese di duemila anni prima!
Ora bisognerà restaurare questo capolavoro e ricostituire l’originale integrità della statua; nel Museo del Castello Aragonese, potremo così ammirare la più grande scultura greca, alta tre metri e trenta, sinora rinvenuta in Italia meridionale. Con questa nuova opera, che si aggiunge ai rilievi e ai numerosi frammenti in calcare e in marmo, il Museo di Castro si pone, subito dopo il MaRTA, come la seconda collezione in Puglia di scultura greca. Prima del Museo di Brindisi, di Ceglie Messapica, di Ugento e di Ascoli Satriano, dove pure sono conservati gli straordinari grifoni in marmo: l’iniziativa della Mostra al MaRTA sarà il primo passo in un percorso di valorizzazione di un’altra, non secondaria, manifestazione del patrimonio artistico di Puglia.
[“La Repubblica – Bari ” del 20 marzo 2022]