Don Quintino Sicuro, Servo Di Dio (III)

Dal 18 settembre al 5 novembre1949 intercorrono appena cinquanta giorni: pochi come spazio di tempo, ma colmi di eventi straordinari nella vita di don Quintino. Egli, infatti, passa dalla gioia raggiante per la vestizione del saio francescano nel monastero di Treia alla decisione sorprendente di ritirarsi nella solitudine assoluta nell’eremo. Possiamo immaginare il tumulto di sentimenti che agitò in quelle giornate l’animo di don Quintino, continuamente inquieto, sempre alla ricerca della “sua strada”. Eppure, anche in quei giorni così particolari, egli pensa e si preoccupa costantemente per i familiari, e soprattutto per la mamma. Egli sa, infatti, che con la sua scelta d’entrare in convento l’ha resa molto “felice”, tanto che si rammarica per non averla potuta avere vicina in quel giorno indimenticabile. Invece, ora è consapevole che, con la sua decisione d’intraprendere l’eremitaggio, l’affliggerà fortemente nell’animo. Ciò nonostante, egli non arretra; dà ascolto e ubbidisce alla voce interiore della sua coscienza, che gli indica con assoluta certezza la strada delle privazioni e della sofferenza.

Questo comportamento rivela la personalità forte di don Quintino, testimone di una coerenza tanto estrema da sembrare uomo insensibile e figlio ingrato; ma in realtà è d’un’umanità piena e armonica. E’ sufficiente leggere ciò che scrive subito dopo la cerimonia della vestizione: “Che peccato a non essersi trovata anche lei (la mamma) per la vestizione (…). Anche per me sarebbe stata una grande gioia poter aver la mamma vicina il giorno della vestizione”; ora, invece, che ha fatto la scelta eremitica, non le indirizza alcuna lettera, ma tuttavia si preoccupa di farle giungere la notizia tramite il suo direttore spirituale, al quale, peraltro, si limita a dire “Quando riceverà la presente, sarò già all’eremo. Domani nel convento dei Frati Minori di Ascoli lascerò il saio e poi coi panni della Provvidenza, da vero sposo di Madonna Povertà, imboccherò il nuovo sentiero”. Solo dopo un mese si farà vivo con i suoi; ma non per dare qualche spiegazione, bensì informarli soltanto che “sta benone” e, soprattutto, per raccomandare loro di non rompere il suo silenzio, che durerà ancora a lungo. “Vi raccomando – insiste – una cosa molto interessante (sempre per la pace del mio spirito) e cioè: di non venire a trovarmi né di scrivermi a meno che non sia necessario (almeno per un periodo che non ho ancora stabilito)”.

Anche in questi momenti particolari, comunque, nutre e manifesta sentimenti veri di bontà filiale e di sensibilità umana; ovviamente a modo suo, cioè mettendosi a servizio dei bisognosi e pregando di più per le loro necessità. Ecco, allora: dedizione agli uomini e devozione verso Dio si fondono nell’animo e nell’azione di don Quintino, tanto che in lui l’umano si sublima, elevandosi alle dimensioni della pura spiritualità, e questa si umanizza, incarnandosi nei gesti della vita reale d’ogni giorno. E don Quintino realizza ciò senza interruzione nel suo relazionarsi quotidiano con tutti quelli che incontra sul suo cammino e, quindi, anche con la madre. Egli non scaccia mai il pensiero che lo lega alle sue origini né trascura chi lo ama anche solo umanamente. Per questo intuisce sino in fondo i sentimenti che affliggono l’animo della mamma; vive lo strazio d’una madre costretta ad assistere impotente agli sberleffi della gente che deride il proprio figlio, bollandolo come “sciagurato” e “pazzo”; non nasconde nemmeno a stesso la percezione che anch’ella, magari timidamente e nel segreto del suo animo, quasi quasi creda che lui sia davvero un “vigliacco”, che, per paura delle difficoltà della vita, sia scappato via e abbia preferito ridursi a vivere da “semplice mendicante”. Don Quintino comprende tutto e giustifica tutti, senza farsi, comunque, né condizionare né turbare. Tuttavia non può fare a meno di tranquillizzare la mamma; e le scrive, pregandola di stare certa che suo figlio è solo “apostolo sulle orme del Maestro”, veramente “felice, perché il Padre, nel dolce amplesso nel quale si è interamente abbandonato, non gli fa mancare nulla”. Fatto ciò, però, non cede oltre a sentimenti puramente terreni. Infatti, subito dopo le ricorda, senza esitare, che “i figli non sono fatti per i genitori, ma per la missione a cui la Provvidenza li destina”.

Cinque mesi dopo (28 maggio 1950), sollecitato dal suo direttore spirituale, don Quintino scrive nuovamente ai familiari. Sono poche righe, ma anche queste ricche di grande umanità e di nobile spiritualità. Aprendo candidamente il suo cuore, riconosce che pure lui vive intensamente il “gran soffrire” dei suoi, causato anche dal suo lungo silenzio; poi, quasi sorprendendosi della sua confidenza, continua: “ma, pensando alla nostra Madre Celeste che, anche Lei addoloratissima, cercò il suo diletto Figliolo, mi consolo e vi affido al Cuore Immacolato”. Riprende, così, il controllo dei suoi sentimenti, ed esorta i suoi a non pensare il falso, in quanto lui sta molto bene e conclude avvertendoli freddamente: “non potreste scrivermi, ma se voi mi assicurate che non tratterete che argomenti strettamente necessari, potete scrivermi una volta tanto”. Anche in questo caso, tuttavia, non congeda la lettera senza annotare, apparentemente di passaggio: “Voglio augurarmi che la presente abbia a trovare la mamma in ottima salute”. Tre mesi dopo (24 agosto 1950), comunicando che sarebbe partito per Roma a piedi per l’Anno Santo, conoscendo qualche problema di salute della mamma, si limita ad aggiungere soltanto: “Mi duole per mamma che sta poco bene; avrò per lei un pensiero particolare al buon Dio”. Lo stesso contenuto e lo stesso tono nella lettera di tre mesi dopo (20 novembre 1950), al ritorno da Roma all’eremo di San Francesco.

Nell’anno successivo (1951) scrive solo quattro lettere. Il nostro Servo di Dio è al corrente della salute della mamma e, rivolgendosi direttamente a lei, la esorta solo ad accettare la volontà di Dio e ad aver fiducia nei disegni della Provvidenza; da parte sua le assicura il costante ricordo nella preghiera. Distacco ascetico dai sentimenti umani? Solo apparentemente; infatti, il 5 dicembre 1951 confida alle sorelle: “Non mi sfugge l’afflizione della cara mamma (l’Addolorata con fra le braccia il suo Gesù sanguinante) … Anche il mio cuore è straziato. Ma per poco; perché si vuota nel Cuore Sacratissimo, come il fiume nel mare”. Don Quintino non “spiritualizza” il suo dolore umano, ma lo assimila, lo vive intensamente, lo fonde con quello del Cristo, come suggerito dall’apostolo Paolo, quando dichiara di completare nelle sue sofferenze la passione del Redentore.

Durante il 1952 le condizioni di salute della mamma si fanno sempre più critiche, ed egli progetta di recarsi a piedi a Melissano, per offrirle la sua vicinanza anche fisica. Nel frattempo scrive ai suoi: “Mi sembra d’aver capito che mamma sta male, tanto male, e vi pregherei di volermi dire senza nulla nascondermi, quali (sono) le sue condizioni di salute attuali. Caso mai anticiperei la mia venuta di qualche giorno, questo però qualora fosse necessario, mi spiego? Qualora fosse necessario”. Nel dicembre si mette in cammino a piedi verso la casa natale, per abbracciare la mamma, sofferente nel corpo ma forse ancor più straziata nello spirito. Resterà a fianco a lei alcuni giorni; poi, fedele alla sua scelta eremitica, con animo umanamente affranto ma pieno di fede in Dio, chiesta in ginocchio e ottenuta la benedizione materna, riprende la via che lo porta al suo eremo. Quante volte – nell’assoluta solitudine della montagna – avrà rivissuto i colloqui segreti, intimi avuti con la mamma in quei giorni! Poche settimane prima che morisse, le scriverà: “Ti raccomando, mia carissima! Sii sempre paziente nel sopportare la croce che Gesù ha messo sulle tue spalle, e vedrai che non ti mancherà la forza di portarla”. Il 3 aprile muore la mamma. Don Quintino, appresa la notizia, non sa dire altro che “è stata veramente dolorosa la perdita! Pazienza! Attendo, se non vi dispiace, dettagliate notizie sulla morte della cara mamma. Coraggio, miei cari, l’anima benedetta vi sarà più efficace dal cielo”. Alla sorella Antonia, che continuava a lamentarsi forse eccessivamente per la grave perdita, scriverà il 9 giugno ’53: Non ti sembra, cara sorella, cosa fuori posto il calcar troppo sulla scomparsa della nostra benedetta, che dal cielo guida i nostri passi! (…). Ti prego, cara sorella, non piangere più. Dispiace alla mamma il tuo lamento continuo! La mamma vuole saperti nelle tue faccende quotidiane con lo stesso brio di quando c’era lei, e tu devi ubbidire”. Per don Quintino terra e cielo, tempo ed eternità, mondo e regno di Dio s’intrecciano, fondendosi in unità indissolubile nella storia dell’esistenza d’ogni uomo, dalla nascita fino alla morte.

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