Non conosco epoca storica nella quale non ci sia stata guerra. Da quando sono nato, ho sempre e solo sentito parlare di guerra; e il tempo di pace, nel quale sono vissuto, mi è stato assicurato solo da un potere soverchiante che ha spostato la guerra altrove. Fino a che punto posso essergli grato? Così, lo studio della storia mi ha insegnato che il tempo dell’uomo è stato sempre un tempo tragico. Nel tempo tragico della guerra l’uomo ha elaborato una civiltà che parla di pace perché è fondata sulla guerra. Si vis pacem, para bellum, dice l’antico adagio. Allo stesso modo, oggi occorre dire: si non vis bellum, para pacem. Questo è il tempo di elaborare i modi per far cessare la guerra. Gli homines sono diventati così sapientes che i loro ordigni potrebbero distruggere cento volte il mondo intero. Questo è il nostro massimo potere e la nostra massima impotenza.
Se sono pacifista non è perché semplicisticamente auspico la pace, ma perché la via della pace è obbligata, perché tengo in piedi, nel mio pensiero, almeno un brandello di questo vessillo colorato con i colori dell’arcobaleno. Questo forse fa parte della mia personale elaborazione del lutto e non escludo che tutto il movimento pacifista nelle manifestazioni di piazza esprima il medesimo sentimento.
Ma so per certo che solo una totale metamorfosi antropologica – per ora del tutto assente dal nostro orizzonte – potrebbe dare un senso definitivo alla parola pace. Fino ad allora, prepariamo la pace, fino alla prossima guerra.