La questione del pane incomincia ad investire acutamente gli interessi di tutta la popolazione tra il 1913 ed il 1914 allorché la Russia e la Romania, tra i maggiori paesi esportatori di grano, pongono il veto alla esportazione granaria degli Stati Uniti e del Canada cui da poco si è aggiunta l’Argentina. Questo fatto crea enormi difficoltà al commercio italiano che ha invece tutta un’organizzazione predisposta per la provvista del frumento dal Mar Nero.
Stando così le cose, a quale soluzione ricorrere? Perché Nordamericani ed Argentini vendano all’Italia di preferenza che agli Inglesi ed ai Francesi, bisogna decidersi a pagare il frumento a più alto prezzo, tenendo conto che i noli New-York-Genova e Buenos Aires-Genova sono più alti dei noli tra i medesimi porti e Londra ed i porti francesi. Inoltre il grano deve sopportare una quota maggiore di spesa per il viaggio di andata e ritorno, in quanto l’Italia non ha, come l’Inghilterra e la Francia, molte merci da esportare. C’è ancora un altro ostacolo da fronteggiare: la minaccia di requisizioni forzate, di calmieri od altri provvedimenti di carattere medievale che toglierebbero al commercio interesse alle importazioni.
Le linee maestre del dibattito: Da Einaudi a De Viti De Marco
L’area liberale della cultura italiana propone la sospensione totale del dazio sul grano che già è stato ridotto da 7,50 a 3 lire fino al 31 marzo e poi sino al 30 giugno 1915 con i due decreti del 18 ottobre e del 1° dicembre 1914, mentre in Germania, in Austria ed in Inghilterra il dazio è stato completamente abolito. La proposta di abolizione totale appare tanto più necessaria in quanto il dazio sul grano si porta dietro indivisibilmente quello sulle farine. La cultura liberale inoltre si oppone alle requisizioni perché esse spaventerebbero i detentori di grano e li indurrebbero ad usare ogni astuzia, pur di non palesare l’esistenza del frumento posseduto, ed il mercato verrebbe così a rarefarsi. Dopo le requisizioni bisogna fare i conti anche con il monopolio, cioè con il provvedimento per mezzo del quale lo Stato si appropria di tutto il grano esistente nel Paese e mette gli abitanti a razione. Il provvedimento potrebbe essere efficace a patto che sia pronta l’enorme e complessa macchina occorrente per requisire e razionare il grano, il che non è, e perciò la cultura liberale prospetta la seguente soluzione: il governo importi grano per il fabbisogno dell’esercito e metta il sovrappiù in vendita qua e là nei luoghi dove i prezzi facciano degli sbalzi all’insù ed in disarmonia con i prezzi dei grandi mercati interni. In questo caso l’azione calmieratrice del governo non scoraggerebbe il commercio di importazione. Infine si propone l’uso del pane di guerra. Scrive Luigi Einaudi: “(…) con la restrizione dell’uso del pane bianco, con la utilizzazione delle farinette e di parte della crusca nella confezione di un unico tipo di pane, con la mescolanza di una moderata quantità di farina di riso, pare che si possa riuscire di utilizzare, meglio di quanto non accada oggi, il grano esistente in Italia ed a diminuire la necessità di ricorrere all’estero. Molti ritengono che il pane L (integrale) ed il pane R (pane integrale, con mescolanza di farina di riso) siano altrettanto o più nutrienti del pane bianco, che la popolazione cittadina si è ormai abituata a mangiare. Se davvero si riuscisse con la panificazione integrale a far durare le provviste esistenti in paese quindici giorni o un mese di più, nessuno sforzo dovrebbe essere risparmiato per contribuire in tal modo a risolvere il problema del pane”.[25]
La proposta della cultura radical-repubblicana viene formulata dal nostro corregionale prof. Antonio De Viti De Marco. Il governo dovrebbe dare un sussidio ai consumatori più miserabili i quali non possono pagare i prezzi attuali del frumento. In una situazione che predispone al malcontento ed all’irritazione popolare, la proposta di dare qualche sussidio potrebbe avere il pregio di costituire una sanatoria, ma le difficoltà sono tutte di ordine pratico, perché tutti reclamerebbero il sussidio e sarebbe difficile nella moltitudine dei postulanti distinguere i veramente bisognosi.
Osserviamo che sia la posizione liberale che quella radical-repubblicana ci sembra che non siano prive del tutto di una ispirazione aristocratico-tomistica, al di là dello scopo pratico della loro indicazione. Non vogliamo dire che l’una e l’altra postulino in senso assoluto il pretium justum, ma certamente teorizzano la valutazione morale di un fatto economico. Difatti, in data 30 gennaio 1915, a proposito del provvedimento di immediata sospensione del dazio sul grano, Einaudi scrive: “(…) In un momento in cui la solidarietà tra le diverse classi sociali deve essere piena, in cui fa d’uopo escludere il sospetto che una qualsiasi classe tragga vantaggio dalle attuali circostanza straordinarie, è socialmente dannosa la permanenza di un dazio, che può apparire voluta a favore degli interessi dei proprietari di terreni. Costoro ottengono già, per causa della guerra, prezzi così elevati e superiori al normale, che deve essere tolto ogni dubbio che abbiano un ulteriore indebito lucro grazie ad un favore consentito dal legislatore (…)”[26].
Per parte sua De Viti De Marco afferma che la soluzione migliore della sua proposta sia da rimmettersi “(…) agli organi già esistenti – congregazioni di carità ed opere pie – incoraggiandoli ad esercitare un’azione più rapida e provvida del solito (…)”[27].
Il pensiero di Gramsci nel rapporto tra i contadini e lo Stato
Al lettore non sfugga che nelle precedenti argomentazioni il movimento volitivo procede da un pensiero che si limita a ritenere gli eventi come svolgentisi a seconda della situazione economica di fatto, ed in realtà ricaccia nell’ombra la complessità sociale di essi: vedremo invece quanto sia più sprofondato nella storia il pensiero di Gramsci circa il medesimo problema.
Per intanto annotiamo che, come è sempre accaduto negli anni di crisi bellica, anche durante il primo conflitto mondiale la questione del pane è stata risolta ricorrendo al provvedimento del pane unico ed a quello del razionamento in un regime politico che, con o senza spirito tomistico, è passato attraverso i consorsi provinciali e attraverso commercianti e mugnai che hanno lavorato per conto del governo, ma senza l’iniziativa e l’accortezza che si mettono in opera negli affari propri, e cioè senza i tecnicismi relativi ai grani duri ed ai grani teneri, alle crusche, ai corpi estranei, all’immagazzinamento, all’umidità, alle muffe ed alla macinazione del grano e delle farine.
E’ significativo che Gramsci affronti la questione del pane nel 1916, anno che da tutti gli storici è considerato il più critico e maggiormente carico di difficoltà per tutte le classi sociali lungo il conflitto. Nel giugno, con la caduta del governo Salandra, e l’entrata in guerra dell’Italia contro la Germania il 27 agosto, quell’anno prelude difatti alla crisi di Caporetto.
Nel gennaio 1916 il giornale cattolico del Veneto, “Il Momento”, svolgendo una campagna contro l’alto prezzo del pane, viene appoggiando la tesi degli agrari secondo la quale il prezzo di 36 lire al quintale fissato per il grano è addirittura rovinoso per l’Italia meridionale e va perciò aumentato. In questa tesi, come spesso è accaduto nella storia d’Italia dall’Unità in poi, fa capolino in maniera felpata la tesi del protezionismo, con lo scopo di rendere antagonistici gli interessi immediati delle campagne con quelli della città. Lasciamo a Gramsci la parola: “(…) In sostanza si vuole che, per non rovinare nessuno si prenda come punto di partenza per fissare il prezzo massimo del grano la produttività delle terre improduttive. Il dazio produttivo sul grano ha spinto molti nelle campagne a seminare in terre mezzo sterili nella sicurezza di un tenue guadagno procurato dallo Stato, artificialmente, per la solita ragione dell’incremento dei prodotti nazionali. Lo stato di monopolio creato dalla guerra, che da 29 franchi ha portato il grano a più di 40 franchi, serve a creare l’illusione che anche seminando sulla sabbia ci sia da guadagnare sempre abbastanza. Intanto però gli agrari della Valle Padana, che non seminano sulla sabbia, ma nelle fertili ed irrigate terre della Lombardia e dell’Emilia specialmente, realizzano dei guadagni favolosi, che trovano solo riscontro nei superprofitti di guerra degli industriali (…)”[28].
Il pensiero di Gramsci è tutto riversato nella sociologia della storia, perché attraverso la questione del pane lo scrittore risale alla questione meridionale, cioè all’unico problema veramente di spessore nazionale nonostante il conflitto mondiale, e forse proprio in virtù di esso. La questione del pane, infatti, investe diritto di proprietà e diritto di requisizione, diritti dell’individuo e diritti dello Stato. Essa può essere l’occasione per comprendere, una volta per tutte, quanto abbia influito ed influisca il moderno stato borghese sulla massa dei contadini ed in generale sulle classi agricole che, pur essendo il nerbo dello Stato, nel Sud specialmente non si sono evolute fino all’integrale senso della solidarietà economica di classe. Proprio partendo dalla questione del pane l’indagine di Gramsci si volge a verificare se il contadino sente lo Stato come economia; se, in altri termini, tra l’individuo e lo Stato sia stato spezzato il vincolo morale di natura feudale, per dar vita a quello di natura borghese; ed ancora, in parole più semplici, se si è passati dal tomismo allo storicismo sociologico. Scrive Gramsci: “(…) Il contadino non sente molta riluttanza al servizio militare, ma questa prestazione non è psicologicamente molto significativa (…). Il bene no; il contadino rifiuta di cederlo ad altri per imposizione autoritaria. O almeno rifiutava. Ed ecco come esso diventa l’unico indice sufficiente e necessario per valutare l’evoluzione che in un secolo ha subito la psicologia delle campagne, quale capacità politica, in senso capitalistico, i proprietari, in senso proletario, i poveri, abbiano acquistato. Quanto più il proprietario, astraendo dal suo immediato interesse, riconosce nello Stato l’organizzazione che tutela i suoi interessi permanenti, e solidarizza col governo economicamente per rafforzarlo, tanto più il “povero” si libera dell’abito idolatrico verso l’autorità centrale, e ne sente l’antagonismo: si sviluppa il senso della classe, ed il “povero” si abitua a vedere lo strumento della sua tutela nell’organizzazione giudiziaria dello Stato (…)”[29]. In questa pagina sono enunciati i presupposti che spiegano perché certe feudali abitudini mentali nell’Italia del Sud sono state e sono ancora dure a morire. Il contadino ha coniugato il concetto della legge alla persona del re e dei suoi messi, mentre i carabinieri per farsi capire hanno fatto le loro intimazioni in nome del re e non in nome della legge. Allo stesso modo i soldati di leva hanno dichiarato di essere stati chiamati dal re. Feudalesimo e servilismo? Può darsi, ma quel comportamento è stato certamente il prodotto della ignoranza degli istituti statali moderni da parte del contadino, e della sua assenza secolare dalla vita pubblica.
Alla luce dell’indagine gramsciana, comprendiamo che nella questione del pane il servizio di requisizione, se alle classi agricole appare addirittura come un vulnus inferto al nucleo originario della organizzazione sociale ed all’intima essenza della compagine umana, per la classe borghese quel servizio appunto diventa il simbolo di una sovrana funzione dello Stato. Ne viene di conseguenza che requisizione forzata, prezzo unico del pane, calmieri ed altri provvedimenti feudali, pur in periodo di guerra, sono stati sempre il prodotto di una necessità borghese, ma una necessità attraverso la quale lo Stato ha svolto una sua pedagogia verso le classi agricole intese come classi subalterne; e si sa che molto spesso il pedagogo è stato assai severo con i suoi sottoposti.
[Gramsci e la “questione del pane” nella prima guerra mondiale, “Il Corriere Nuovo”, anno VIII, 2, 28 febbraio 1985, p. 3. ]
Note
[24] Cfr. Denis Mack Smith, Storia di cento anni di vita italiana visti attraverso il Corriere della Sera, Rizzoli, Milano 1978, p. 136.
[25] L. Einaudi, Cronache economiche e politiche di un Trentennio 1914-1918,. I, Einaudi, Torino 1961, pp. 60-61.
[26] Idem, ibidem, p. 50.
[27] In Idem, ibidem, p. 60.
[28] A. Gramsci, Clericali ed agrari. Scritti giovanili, 1914-1918, Einaudi, Torino 1958, pp. 41-42.
[29] A. Gramsci, I contadini e lo Stato, ibidem, p. 248.