Il brigantaggio post unitario in un libro di Carmine Pinto

È in questo contesto, in questo scenario, che non è solo locale, ma nazionale e, per certi aspetti, europeo, che Pinto inserisce quel fenomeno così caratterizzante della storia del Sud che è il brigantaggio e, in particolare, il brigantaggio post unitario, che gli storici chiamano il “grande brigantaggio”, e che è poi al centro della sua ricerca. E già questa è una prima rilevante novità, perché finora questo fenomeno era stato sempre affrontato, per così dire, isolatamente, quasi come fatto a sé, a partire dal classico studio di Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l’Unità, pubblicato nel 1964. D’altra parte, il titolo del libro di Pinto è appunto La guerra per il Mezzogiorno e reca il sottotitolo Italiani, borbonici, briganti 1860-1870, dove sono già indicati appunto i principali attori, i protagonisti di questo conflitto.

Come era stato interpretato finora il brigantaggio? Una prima interpretazione, quella borbonica, che nasce già alla fine dell’Ottocento, è quella che vede i briganti come patrioti, anzi come martiri della causa legittimista che si battono cioè per la riconquista del Regno delle due Sicilie da parte di Francesco II. Un’altra interpretazione, che risale allo storico socialista Antonio Lucarelli e a un suo studio del 1922, Il sergente Romano. Notizie e documenti riguardanti la reazione e il brigantaggio pugliese nel 1860, vede questo fenomeno legato alla questione demaniale del Mezzogiorno, cioè alla mancata concessione di quote dei terreni demaniali ai contadini meridionali. Poi ancora, c’è quella sabauda che vedeva nel brigantaggio esclusivamente un fenomeno criminale e delinquenziale legato all’arretratezza sociale ed economica del Sud. Ma l’interpretazione prevalente, che ha avuto larga presa anche in campo letterario e cinematografico, come vedremo più avanti, è quella sociale, che considera il brigantaggio come una lotta di classe dei contadini contro i proprietari terrieri e la borghesia, una vera e propria rivolta contadina. La figura del brigante insomma, nell’immaginario collettivo, si è identificata spesso con quella di Robin Hood che ruba ai ricchi per dare ai poveri.

Questa interpretazione “sociale”, che nasce dalle note riflessioni gramsciane sul Mezzogiorno, è stata poi ripresa da storici marxisti come, fra gli altri, il già citato Molfese e il lucano Tommaso Pedio, ma qui mi piace ricordare anche un salentino, il magliese Aldo De Jaco, il quale non era uno storico di professione ma un giornalista e scrittore, militante del Partito comunista italiano. De Jaco, fra l’altro, pubblicò cinque volumi col titolo complessivo Antistoria dell’Italia unita, anticipando certe tendenze più recenti anche se con uno spirito diverso. Di questa serie faceva parte il volume Il brigantaggio meridionale apparso nel 1969 con gli Editori Riuniti che, come si sa era proprio la casa editrice del PCI, poi ristampato nel 1998 con qualche modifica, col titolo Briganti e piemontesi. Alle origini della questione meridionale, presso l’editore Curto di Napoli, dove confermava sostanzialmente la sua interpretazione. Ora, negli ultimi tempi, questa interpretazione si è incrociata stranamente, come è stato notato da qualcuno, con quella borbonica a causa della nascita di quel movimento anacronistico e folcloristico che è il movimento neoborbonico. Ma essa è stata ripresa anche da certa pubblicistica di largo successo che ha diffuso con grande leggerezza tesi assai discutibili, basandosi sull’idea della “Borbonia felix”, come una storica autorevole, Renata De Lorenzo, ha intitolato un suo libro. E qui mi riferisco ai libri di Pino Aprile, Giordano Bruno Guerri, Gigi Di Fiore e altri.

Ma, per ritornare a De Jaco, a parte l’impostazione del suo lavoro e il metodo seguito, molto diversi ovviamente da quelli di Pinto, già il titolo del suo libro ci permette di notare una differenza fondamentale con l’interpretazione del brigantaggio che ne dà l’autore del volume qui preso in esame. Mentre infatti De Jaco cita soltanto i briganti e i piemontesi come protagonisti di questa vicenda, Pinto aggiunge fin dal titolo una terza componente fondamentale: i borbonici, e parla giustamente di italiani invece che di “piemontesi” come fa De Jaco, perché il conflitto continua anche dopo l’Unità d’Italia.

Perché ho voluto fare questo confronto, questo accostamento? Perché in tal modo ci avviciniamo alla tesi sostenuta da Pinto nel suo libro. Cioè che il brigantaggio, oltre ad essere un fenomeno esistente da secoli nel Mezzogiorno, come già si sapeva, è stata l’arma principale di cui si servì la monarchia borbonica, attraverso i numerosi comitati diffusi sul territorio, per contrastare il movimento unitario dopo il successo della spedizione dei Mille e soprattutto dopo la caduta di Gaeta (13 febbraio 1861), allorché Francesco II e la sua corte, che si erano rifugiati lì per resistere all’avanzata degli unitari, si trasferirono in esilio a Roma, accolti dal Papa che era un loro tradizionale alleato. È allora che si concluse la guerra regolare tra i Borbonici e gli italiani, che durò pochissimo, e iniziò la guerra irregolare, per bande, della quale i protagonisti furono proprio i briganti. Da quel momento i Borbone non poterono più contare sulle istituzioni (esercito, forze di polizia, magistratura, amministrazioni locali) delegate alla difesa del territorio, che erano passate tutte con gli unitari (rimasero fedeli al monarca soltanto l’alto clero, gli aristocratici e una parte del popolino), e si rivolsero quindi ai briganti per la riconquista del Regno delle due Sicilie, a questo esercito di irregolari che per vari motivi (interesse di arricchimento personale, desiderio di promozione sociale, spirito di vendetta verso i notabili dei loro paesi, ecc.) risposero all’appello dei Borbonici. Lo stesso Pinto così riassume la sua tesi a un certo punto:

I briganti resero necessario un grande investimento logistico, e causarono perdite di vite umane, mettendo in difficoltà il movimento unitario e le sue istituzioni, soprattutto nel rapporto con le popolazioni civili. Tuttavia non riuscirono mai a mettere in discussione il successo dell’unificazione, né a sfidare seriamente il dispositivo militare italiano. Il sistema di sostegno di cui beneficiarono fu trasversale ai ceti sociali e ai gruppi territoriali e largamente ispirato da nobili, religiosi e notabili borbonici, ma non furono capaci di provocare  una grande rivolta e una vera e propria guerra civile generale, per non parlare poi di una guerriglia contadina a sfondo sociale.

Se le loro azioni erano connesse a rivalità locali e tensioni sociali, in nessun caso emerse un conflitto più ampio, in cui i briganti si presentarono in qualche modo come rappresentanti di ceti bassi contro gruppi dominanti. La guerra che scatenarono alla nazione coinvolse i contadini come collaboratori o come vittime, mai come rivoluzionari. Anzi, gran parte delle loro azioni colpivano proprio i contadini più di altri ceti; lungi dal difendere il popolo meridionale, spesso lo attaccarono. Le masse contadine non furono protagoniste di sommosse sociali. Il brigantaggio politico, a differenza dei rivoluzionari meridionali, non fu mai in grado, neppure per brevi periodi, di proporre il messaggio di un programma politico o un esercito veramente capace di sfidare gli unitari italiani (p. 374).

L’autore del libro segue fino alla fine questa vicenda, non trascurando alcun aspetto che possa illuminarla, dagli aspetti militari a quelli sociali a quelli culturali. A tal proposito, forse per la prima volta in una simile ricerca, si parla anche di una «guerra di idee», cioè della mobilitazione di intellettuali, scrittori, artisti, giornalisti, fotografi, musicisti che si schierarono da una parte e dall’altra. E anche da questo punto di vista ‒ fa notare Pinto ‒ la vittoria arrise nettamente agli unitari che poterono contare su una possente macchina di propaganda e di persuasione, al contrario dei borbonici. E a tal riguardo fa tanti esempi anche qui, ma io vorrei ricordare la funzione svolta dalla letteratura che peraltro già dai primi secoli, con Dante, Petrarca, ecc. (non c’è bisogno di ricordarlo) aveva creato (si può dire) il concetto dell’Italia come di una nazione unita. E nell’Ottocento, gli unitari avevano dalla loro parte autentici giganti, da Leopardi (basti pensare al canto All’Italia) a Manzoni (“Una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor”, Maggio 1821), e ancora Carducci, Nievo, De Sanctis, ecc. Innumerevoli furono poi i cosiddetti “poeti della patria”, ai quali di solito viene riservata una consistente sezione nelle antologie dei poeti minori dell’Ottocento (Pinto cita Mercantini e la sua allora famosa Spigolatrice di Sapri, ma accanto a Mercantini, ci sono, ad esempio, Dall’Ongaro, Fusinato, lo stesso Goffredo Mameli, ecc.).

Ma per restare nel campo della letteratura, vorrei accennare adesso all’interpretazione di questo fenomeno da parte di alcuni scrittori del Novecento, perché esiste tutto un filone di opere sul brigantaggio. Io qui però mi fermo a due dei più noti, anche se il primo era proprio un “piemontese”, cioè Carlo Levi e Rocco Scotellaro. Ebbene, anche la loro interpretazione, come quella della maggior parte degli scrittori che hanno trattato questo tema, che giungono fino al Raffaele Nigro dei Fuochi del Basento (1987) e oltre, coincide con quella sociale che vede cioè nel brigantaggio una forma di rivolta delle plebi del Sud, che vivevano in condizioni di estrema miseria, contro i possidenti terrieri e i notabili dei loro paesi. Anche se Levi, coerentemente con la sua visione del Sud, vede i briganti fuori del tempo e della storia, quasi figure mitiche, predestinati alla sconfitta. Ecco il brano di Levi tratto ovviamente dal suo celeberrimo Cristo si è fermato a Eboli (Torino, Einaudi, 1945):

La quarta guerra nazionale dei contadini è il brigantaggio. Anche qui, l’umile Italia storicamente aveva torto, e doveva perdere. Non aveva armi forgiate da Vulcano, né cannoni, come l’altra Italia. E non aveva dei: che cosa poteva fare una povera Madonna dal viso nero contro lo Stato Etico degli hegeliani di Napoli? Il brigantaggio non è che un accesso di eroica follia, e di ferocia disperata: un desiderio di morte e di distruzione, senza speranza di vittoria. ‒ Vorrei che il mondo avesse un solo cuore; glielo strapperei, ‒ disse un giorno Caruso, uno dei più tremendi capibanda (p. 131).

Il lucano Scotellaro, invece, richiama le figure dei briganti nella sua poesia più famosa, che è addirittura una sorta di “manifesto”, Sempre nuova è l’alba, compresa nella raccolta È fatto giorno, apparsa postuma nel 1954. Qui, oltre a rievocare l’immagine delle teste tagliate dai soldati e appiccate ai pali per ammonimento, li descrive mentre dormivano nelle grotte per sfuggire alla cattura, e ne fa un  simbolo della ormai prossima e inevitabile riscossa delle genti del Sud:

Non gridatemi più dentro,

non soffiatemi in cuore

i vostri fiati caldi, contadini.

Beviamoci insieme una tazza colma di vino!

che all’ilare tempo della sera

s’acquieti il nostro vento disperato.

Spuntano ai pali ancora

le teste dei briganti, e la caverna ‒

l’oasi verde della triste speranza ‒

lindo conserva un guanciale di pietra…

Ma nei sentieri non si torna indietro.

Altre ali fuggiranno

dalle paglie della cova,

perché lungo il perire dei tempi

l’alba è nuova, è nuova.

D’altra parte, anche in campo cinematografico, tra i registi che hanno affrontato questo tema (Pietro Germi, Il brigante di Tacca del lupo, 1952; Mario Camerini, I briganti italiani, 1961; e più recentemente, nel 2016, Giovanni Brancale, con Le terre rosse; ma anche Noi credevamo, del 2010, di Mario Martone tratta questo tema nell’ultimo episodio) è prevalsa questa interpretazione. Per non parlare poi di un altro contestatissimo film, Li chiamarono… briganti di Pasquale Squitieri, del 1999, la storia romanzata del più famoso brigante post unitario, Carmine Crocco e del suo luogotenente, l’altrettanto noto Ninco Nanco, film che addirittura riprende e rilancia tesi neoborboniche e fa di questi capibanda quasi due Che Guevara dell’800.

Un altro punto che vorrei affrontare è relativo alla questione della nazione napoletana, come l’ha definita lo stesso Pinto perché questo mi permette di accennare anche a un personaggio storico implicato in questi fatti. Che cosa sostiene acutamente Pinto, che dimostra anche così una visione più ampia di tutta questa vicenda? Che una delle cause della guerra per il Mezzogiorno è stata la mancata risoluzione della questione della nazione napoletana che si conclude soltanto nel 1860, allorché si risolve la questione della nazione italiana. Quale era questa questione? Pinto fa notare che in ben tre occasioni, nel 1799, nel 1820-21, nel 1848-49, la monarchia borbonica aveva sempre rifiutato una qualsiasi apertura di tipo liberale ed era rimasta arroccata sul suo assolutismo, rifiutandosi di concedere lo statuto nonostante le promesse fatte e procedendo con una spietata repressione nei confronti di larga parte dell’élite napoletana che nel 1860-61 si schierò ovviamente compatta con la monarchia sabauda.

Anche nel 1840-41 le migliori intelligenze del Reame, a volte, come per il caso di Sigismondo Castromediano, solo per aver chiesto a Ferdinando II di ripristinare lo Statuto, sono rinchiuse nelle peggiori galere borboniche, dove restano per quasi dieci anni: da Carlo Poerio a Silvio Spaventa, da Luigi Settembrini a Nicola Nisco, da Nicola Palermo a Nicola Schiavoni, da Michele Pironti a Giuseppe Pica, a Domenico Lopresti, il protagonista del romanzo di Anna Banti, Noi credevamo, e a tanti altri. Una volta liberi, attraverso quell’avventuroso dirottamento della nave che doveva portarli in America e che invece approda in Irlanda, alcuni di loro riprendono a partecipare alla vita civile e politica dell’Italia unita. Castromediano, come anche altri (Nisco, Schiavoni, Pironti, Pica), fu eletto nel primo Parlamento italiano e intervenne, come viene segnalato da Pinto nel suo libro, nel dibattito sul brigantaggio che si sviluppò tra novembre e dicembre 1862, da cui doveva scaturire prima l’istituzione di una Commissione d’inchiesta e poi la relazione Massari. Da questa poi nacque la famosa legge Pica sul brigantaggio del 1863.

Ecco un brano significativo del suo intervento, riportato da Salvatore Coppola nel suo articolo su L’attività politico-parlamentare di Sigismondo Castromediano dopo l’Unità d’Italia, compreso negli Atti del Convegno Sigismondo Castromediano: il patriota, lo scrittore, il promotore di cultura, a cura di A. L. Giannone e F. D’Astore (Galatina, Congedo, 2014):

In una provincia [quella di Terra d’Otranto] sgombra di  monti e di boschi bisogna supporre che esista una gran rete di intelligenza tra i briganti che assalgono palesemente e i briganti occulti. Ciò mi fa supporre che il Governo non abbia una polizia efficace per essere avvertiti di ciò che avviene in quelle località; e ne deduco un’altra conseguenza, cioè che , o il Ministero abbia voluto nascondere quello che egli sa, asserendo essere il brigante in quella provincia in diminuzione, oppure non sia servito bene e non sappia nulla di quanto là giù succede […]. Una relazione intorno agli ultimi fatti del brigantaggio in Terra d’Otranto mi perviene dal nostro onorevole collega Schiavoni […]. Si rileva dalla medesima ciò che è io intimo convincimento, cioè che il brigantaggio colà non è perseguito con unità d’azione, né si ha efficace polizia che ne spii i movimenti e le relazioni, onde sorprenderlo opportunamente e fiaccarlo (p. 168).

Ebbene, qui il duca di Cavallino si allineò all’interpretazione sabauda del brigantaggio e alle posizioni politiche della Destra, considerandolo un fenomeno malavitoso, non accennando nemmeno alle condizioni di gravissimo disagio sociale in cui vivevano le plebi meridionale, come poi in qualche modo si rileva anche nella relazione Massari. Ma di ciò non bisogna meravigliarsi: Castromediano, che era un conservatore, non dimostrò mai di avere una particolare sensibilità sociale, come emerge anche dall’immagine, letteraria ma veritiera, che ne dà Anna Banti nel suo romanzo, dove viene contrapposto alla figura di Lopresti, che invece era un fervente democratico e repubblicano. Ciò che colpisce di più è invece l’affermazione di Castromediano che criticava il Governo il quale, a suo giudizio, non affrontava adeguatamente il fenomeno del brigantaggio e lo sollecitava invece a una maggiore attenzione al fine di scoprire anche quelli che lui chiama «i briganti occulti». A chi si riferisce Castromediano con questa espressione? Coppola sostiene che alluda a connivenze generiche (autorità comunali, guardie nazionali), ma forse non è assurdo pensare che qui egli si riferisca proprio a quei comitati borbonici che in effetti stavano dietro l’azione dei briganti, cioè a coloro che, come ha dimostrato Carmine Pinto nel suo libro, promuovevano, sostenevano, finanziavano la loro attività.

[In “L’Idomeneo”, n. 32/2021, pp. 393-399]

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