Non sopporto il popolo quando si fa trascinare dai trappolatori delle masse, dagli opinion leader, dal sentimento unisono, e ancor meno quando segue l’umore penieno o uterino anziché la mente raziocinante. E la pandemia ha sicuramente esasperato una condizione già fortemente critica. Il costretto isolamento nelle quattro mura domestiche, lo smart working, la didattica a distanza dinanzi ad uno schermo per svariate ore, l’isolamento sociale, tutto questo ha fatto precipitare adulti e giovani in una profonda solitudine che ha contribuito ad acuire le già presenti fragilità. Le restrizioni hanno accentuato le somatizzazioni ansiose, i disturbi dell’apprendimento e dell’attenzione dei ragazzi, rendendo più problematico il loro percorso di crescita e il rientro nella quotidianità. C’è stato un vero e proprio appiattimento emotivo, al quale sono seguite svariate reazioni. La frustrazione, l’aumento delle patologie psichiatriche con ricorso al suicidio, la non accettazione del proprio corpo, con evidenti disturbi alimentari, il ritorno di una massiccia dipendenza da sostanze psicotrope e stupefacenti sono i segni evidenti di un malessere sedimentato. Alcuni docenti (ché il mondo della scuola è stato quello più duramente colpito dallo stress da covid) non volevano più mettere piede fuori da casa per paura del contagio ed alcuni di essi hanno dovuto sostenere percorsi di riabilitazione psicologica per tornare a fare lezione in presenza. Così il popolo si fa trasportare dalle fobie, che un nonnulla può scatenare. “Non confonderti, ad ogni impulso dell’istinto fa valere i sensi del giusto equilibrio, ad ogni idea che ti si presenta esercita liberamente la tua facoltà di assenso”, dice ancora Marco Aurelio. Chiaro che dal popolo si giunga facilmente al populismo quando qualcuno voglia approfittare di questa evidente debolezza dei nostri simili per strumentalizzarla a fini elettorali: mi riferisco ovviamente ai politici e alla becera demagogia utilizzata da buona parte dei rappresentanti delle destre europee e non solo. Io, per parte mia, populista non potrei mai essere perché disprezzo il popolo quando questo è correo di certe anomalie, discrasie, tipiche del nostro Paese. Del pari, disprezzo le élite, quelle che ritengono di farsi carico del pensiero comune e di indicare la via, tracciare la rotta. E se per populismo, come sostiene il professor Richard Baldwin dell’Università Bocconi di Milano, si intende l’idea che il solo il popolo sia puro e le élite corrotte, ancora una volta mi sento lontanissimo da questo atteggiamento mentale perché ritengo che anche il popolo possa essere corrotto come la sua classe dirigente, intimamente corrotto. Tuttavia, se questo farsi gregge del popolo mi fa davvero arrabbiare, capisco poi che attenuare l’ira, non farsi trasportare dal furore verso eccessi incontrollabili, è mio preciso dovere, e mi viene di pensare al De ira di Seneca. L’uomo saggio infatti non è soggetto alle offese e ai fendenti della vita, egli è come una fortezza inespugnabile, un muro invincibile, proprio come dice Seneca nel De constantia sapientis. Certo, la mia lontananza dal popolo in questi casi non vuole essere superbia o albagia, ma una presa di distanza, quasi un’immunità dalle psicosi collettive, una serena apátheia che fa giudicare con distacco gli accadimenti. Perché il popolo meschino e instabile non riflette prima di agitarsi scompostamente in preda ai più elementari sentimenti? Perché non analizza a mente serena le cause e gli effetti di ogni avvenimento, senza seguire il primo ciurmatore desideroso solo di gloria e di onori o ripetere a pappagallo frasi fatte e uniformarsi a stati d’animo, umori e vizi collettivi? La ragione è ancora lontana dal reggere il mondo e gli uomini.
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