di Antonio Prete
Come ogni guerra, anche questa che il potere russo ha portato in Ucraina, è un teatro di morte e di violenza. L’atto del distruggere – vite, abitazioni, legami, istituzioni – soltanto in apparenza è strumento per un’affermazione di supremazia, di dominio territoriale, di controllo; nei fatti disvela la pulsione più propria di una politica fondata sul mito della potenza e non sulla cura della res pubblica, sui fantasmi del sacro suolo e non sulle regole del vivere civile: una pulsione che consiste nel togliere volto, pensieri, affetti, cioè singolarità vivente e senziente ai corpi di migliaia o milioni di individui, per il fatto che in un dato momento vengono considerati, in certo modo identificati, soltanto come appartenenti a un Paese ritenuto un pericoloso campo di minaccia. È dalle terre di confine che giungono sempre le minacce. Le motivazioni belliche invocano le loro ragioni, esibiscono i loro obiettivi geopolitici. Solo che nel dare forma visibile a queste ragioni, nel perseguire questi obiettivi, scelgono la via della cancellazione: di vite umane, di vite animali, di ambienti, di storia e cultura.
La politica delle armi, se osservata a distanza di qualche decennio dagli accadimenti, si è sempre rivelata come il rovescio dell’umano, e del razionale, e del sensibile. Abolizione, o sospensione, di quel sentire che fonda il sé sul riconoscimento dell’altro. Dinanzi a quel che accade in Ucraina, nelle sue regioni periferiche e nelle sue città, la condanna e l’indignazione non può che rivolgersi verso il potere politico russo e il loro primo rappresentante, ma allo stesso tempo lo sguardo e la premura e l’ansia non possono distogliersi dal dolore dei singoli, dalle morti, dai profughi, dai feriti. La compassione non può essere separata dal giudizio. E c’è ancora un altro passo nel cammino di comprensione: compassione e giudizio non possono essere riservati a un solo campo.
Accanto alle donne e ai bambini ucraini gli effetti della guerra li patiscono, in modi certo non cruenti, anche i russi, non solo per via delle sanzioni che colpiscono più i poveri dei possidenti, ma anche per via delle libertà sospese, delle opinioni censurate, dei dissensi perseguitati. In una guerra anche chi appartiene alla parte che ha generato il conflitto è esposto alla sofferenza. Un corpo ferito, e un corpo privato con violenza della vita non ha più un’appartenenza, è solo un corpo ferito, solo un corpo senza vita, e per questo la pietà, o il soccorso, non distinguono, per loro natura, il ragionevole dall’irragionevole, la causa giusta da quella ingiusta.