di Antonio Errico
Alle volte ci sono storie del mondo che rifiutano le parole, perché ogni parola si rivela inautentica o impropria o precaria, inadeguata, smottante, insicura, effimera, superficiale, banale. Qualche volta anche stupida, insensata. Ci sono storie che in questi tempi girano per il mondo per le quali forse non esistono parole capaci di rappresentarle nella loro essenzialità, nella loro concreta sostanza. Allora non si può fare altro che fermarsi su quella soglia del linguaggio che si limita alla descrizione, alla cronaca, all’informazione. Non si riesce a sprofondare nell’abisso, non si riesce a rintracciare il senso profondissimo di quello che accade. Si può solo descrivere quello che si vede, quello che si sente, ma non si riesce a comprendere quello che viene prima del vedere e del sentire, quello che viene dopo. Non si riesce. Forse l’assurdo respinge la parola; richiede o pretende o impone il silenzio: quel silenzio che è l’esito di una confusione dei sentimenti, di uno sbalordimento della ragione. Forse l’assurdo si propone e si rappresenta attraverso il silenzio, attraverso la parola che si zittisce, si disintegra, si consegna senza condizioni all’indicibilità. Si possono anche azzardare metafore ardite, ma l’indicibile resta indicibile, comunque. Si possono anche proporre analisi accurate, ipotesi dalla logica rigorosa, ma ogni logica, ogni analisi, va a schiantarsi sul muro di quella indicibilità.
Eppure bisogna dire, bisogna raccontare. Nella narrazione delle storie che in questi giorni corrono nel mondo, lo sforzo e la difficoltà di raccontare sono evidenti. Inviati pallidi e dalle labbra tremolanti di emozione cercano di trovare la parola che in qualche modo sia capace di dire la tragedia, e in quel cercare spesso si fermano, perché la parola che vorrebbero non c’è, perché il silenzio reclama il diritto di significare più di qualsiasi altra espressione.