Don Quintino Sicuro: la vita da eremita oggi (II)

 Tutte queste caratteristiche mostrano e comprovano l’eccellenza e la nobiltà della vita eremitica. Eppure non è difficile imbattersi in atteggiamenti ostili o ascoltare valutazioni irriverenti, con cui si accusano l’inutilità e addirittura il parassitismo dell’eremita; i più benevoli vorrebbero che ci fosse almeno qualche ricaduta a livello di servizio sociale. Questa richiesta, peraltro legittima, trova risposte chiare ed esaurienti nell’insegnamento e nell’esempio di don Quintino Sicuro. Egli, col suo modo d’impiegare il tempo d’ogni giorno, indica cos’è la vita eremitica, qual è il rapporto concreto che l’eremita ha con la vita sociale reale, quali sono i “lavori produttivi” cui si dedica, in cosa consistono la sua povertà estrema e la sua ubbidienza totale. Nella giornata dell’eremita Quintino Sicuro lo scorrere delle ore segnava la sua fedeltà al messaggio evangelico e, nello stesso tempo, il suo contributo fattivo alla società, affinchè diventasse maggiormente capace d’affrontare le sfide storiche sempre nuove, che la investivano. Don Quintino incarna le caratteristiche fondamentali della vita eremitica: solitudine, silenzio, preghiera, ascetica alternati al lavoro continuo e al servizio discreto verso tutti, soprattutto verso gli ultimi, gli umili e i bisognosi. Infatti, per lui l’eremo non dev’essere inaccessibile né deve rimanere qualcosa di straordinario, bensì deve proporsi come realtà ed esperienza accessibili a tutti. E’ questa la forma nuova di povertà e d’obbedienza, cui egli si è votato e a cui si vota anche l’eremita dei nostri giorni. La “solitudine” dell’eremo deve stare unita con l’impegno attivo nella società. Basti pensare, per esempio, alle fatiche che comporta la cura dei malati, ai sacrifici che richiede il sostegno dei poveri: sono impegni che richiedono fede perseverante in Dio, speranza ardente nella produttività del bene, amore profondo verso il prossimo. Don Quintino Sicuro, infatti, quando s’accosta a un malato, o quando allevia qualche necessità o quando consola un’anima in difficoltà, è consapevole che, invisibilmente, s’accosta a Cristo; e mentre adempie queste opere, custodisce la mente sana e il cuore puro; con le labbra, poi, recita sempre una preghiera: le ore delle sue giornate diventano, così, un rosario vivente.

         Ma – ci si chiede – da dove deriva il dovere di amare il mondo (dominato dall’egoismo, dall’errore e dal male) e di servire la società (regno di conflitti disumani e di lotte anche cruente), una volta che si sceglie di distaccarsene, per dedicarsi interamente a Dio? Forse per tirarsene fuori e non rimanerne schiacciati? Oppure per un senso di malintesa superiorità, che farebbe pensare d’essere meritevoli di sorte migliore? A quest’interrogativi risponde don Quintino. Egli conosceva certamente le dichiarazioni contrastanti riguardo al mondo, che si leggono nei Testi Sacri; soprattutto aveva scolpita nella mente l’invocazione, con cui Gesù Cristo alla vigilia della sua morte pregava per i suoi discepoli (che erano “nel mondo, ma non del mondo”), ma sapeva anche che lo stesso Gesù Cristo si era fatto crocifiggere per il bene del mondo; sentiva, quindi, che il mondo non poteva essere quella realtà corrotta, da cui guardarsi e stare alla larga. Da qui il comportamento coerente di don Quintino. Egli, infatti, aveva conosciuto i disordini della vita umana nel mondo; aveva provato i pericoli, che minacciano la vita morale e spirituale; aveva sperimentato gli stordimenti generati dall’ambizione e dalla frenesia. Ecco, allora, il suo progetto: desidera che il mondo dimentichi lui, perché lui non è più “del” mondo; nello stesso tempo, però, sulle orme del Maestro, rimane “nel” mondo, per servirlo e amarlo. Di fatto don Quintino, nella sua concezione del rapporto tra la via eremitica e il mondo, si muove con estremo realismo. Comprende, infatti, la situazione di diffusa decadenza della vita sociale (si pensi alla sua insoddisfazione per la vita anche nella Guardia di Finanza), non si nasconde un certo declino della stessa vita monastica (si pensi alla sua inquietudine nei conventi francescani), e tuttavia crede fermamente nella speranza della rinascita della fede e della morale, cioè della “felicità” tra gli uomini. Per lui il rinnovamento morale e religioso si realizza solo mediante il dialogo disponibile e rispettoso con il mondo, senza mai rinunciare ai valori veri e agli ideali supremi, in quanto ciò significherebbe un cedimento alle mode passeggere del tempo e, quindi, un regresso ancor più pericoloso.

Nel tentativo, però, di conciliare il “diritto” di rifugiarsi in un eremo per dedicarsi a Dio con il “dovere” di contribuire fattivamente alla vita sociale, non si corre il rischio di sostituire – sotto il pretesto di servire l’umanità – i comandamenti religiosi con stili di pensiero e di vita mondani e civili? Non si può provocare la dimenticanza della vita interiore a vantaggio degli impegni sociali? Ecco, anche qui, la risposta del nostro Servo di Dio: proprio il cammino di solitudine nell’eremo, la conversione e il distacco dal mondo che l’eremita intraprende quotidianamente nella sua vita, di fatto sono un invisibile, ma vero servizio verso il mondo. Infatti, per amare in modo autentico, bisogna purificare il cuore dalle passioni, bisogna umiliarsi, conoscere se stessi e la propria debolezza; questo è il compito essenziale dell’eremita, che non rifiuta il servizio sociale, ma lo compie solo quando si sente preparato e in esso scorge la stessa volontà di Dio. Accusato di fuggire il mondo, di rifugiarsi in una sterile ricerca di tranquillità privata e di salvezza personale, in un ascetismo incapace di piegarsi sulle sofferenze degli uomini, don Quintino Sicuro sfida tutto e tutti, incurante d’essere considerato un folle e di venire trattato da pazzo, anche dai più intimi. Egli è convinto che il rinnovamento è davvero tale, solo quando tocca il cuore stesso di chi è chiamato a intraprendere il cammino di conversione, per cui, nella solitudine dell’eremo e nell’ombra dell’umiltà, si compie, invisibilmente, il lavoro costruttivo per il mondo. L’eremita – avverte il nostro Servo di Dio – viene mandato al mondo solo se e quando sono guarite le sue infermità. Solo dalla sua conversione interiore scaturisce il servizio principale, che l’eremita può dare al mondo: cioè, indicare ad ogni uomo la vera direzione, che conduce alla pienezza della vita.

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