Comincia F. Engels il 4 ottobre 1894: “(…) L’Italia è la terra della classicità. Dalla grande epoca in cui spuntò sul suo orizzonte l’alba della civiltà moderna, essa ha prodotto grandi caratteri, di classica ineguagliata perfezione, da Dante a Garibaldi. Ma anche l’età della decadenza e della dominazione straniera le ha lasciato maschere classiche di caratteri, fra cui due, e particolarmente elaborati: Sganarello e Dulcamara. La loro classica unità noi la vediamo impersonata nel nostro illustre Lòria (…)”[16]. Al lettore non sfugga il riferimento a Dulcamara che simboleggia il tipo umano del ciarlatano, e l’ironia che batte sull’aggettivo illustre, nome ed attributo naturalmente riferiti al Lòria. E si rammenti che Dulcamara è topico del lessico di Engels, se ritorna per esempio nella prefazione all’edizione tedesca del 1890 al Manifesto del Partito Comunista a proposito dei socialisti utopisti. Due anni dopo, nel settembre 1896, Benedetto Croce recensisce l’opera di Achille Lòria dal titolo Teoria economica della costituzione politica. In essa, attraverso interminabili logomachìe finalizzate a fissare il concetto di homo oeconomicus, l’autore afferma che tutte le manifestazioni dello spirito sono solamente strumenti di cui l’homo oeconomicus medesimo si serve. Il Croce allora perentoriamente postilla: “(…) In tutta questa trama di teorie colpisce, in primo luogo, la curiosa incapacità del Lòria a porre e mantenere la distinzione tra il fatto e l’idea, o meglio, tra il fatto particolare ed il concetto del fatto; operazione elementare senza cui qualsiasi disputa scientifica è impossibile (…)”[17]. L’intervento di Croce è il secondo momento, dopo quello di Engels, della critica al lorianesimo inteso come categoria intellettuale incapace di legare al tempo ed alla storia ogni prodotto umano, in quanto non si ritiene che esso, proprio perché nasce dalla storia, si riversi e si collochi in essa e concorra a formarla e a svilupparla.
Il terzo momento critico, quello che mette allo scoperto le prerogative del lorianesimo inteso come una categoria intellettuale che nega all’uomo la capacità di essere sensibile alla storia, è teorizzato da Gramsci. A Gramsci siamo debitori se la critica del lorianesimo è diventata autentico elemento di dottrina che trova la sua applicazione nella critica politica ed in quella letteraria.
Come è noto, uno dei problemi più importanti che Gramsci ha dovuto risolvere, riguarda la necessità di storicizzare l’ideologia generale del proletariato per dimostrare che esso vive nel complesso della vita statale come elemento nazionale. Gramsci ha dovuto cioè liberare il proletariato dalle incrostature di cui la stampa, la scuola e la tradizione borghesi lo hanno rivestito. Uno strumento di tale operazione culturale è stato appunto Achille Lòria, vero propagandista della borghesia, che ha contribuito a divulgare in forma capillare con affermazioni pseudo-scientifiche l’idea che il socialismo fosse una cosa morta, incapace di uscire “(…) dalla palude dell’arruffata e confusa concezione positivistica (che era una caricatura del materialismo storico) (…)”[18]. Nel fatto che il Lòria ignori il primo dovere degli scienziati, e cioè quello di vagliare i documenti e servirsi soltanto di quelli che hanno la prerogativa della genuinità e della autenticità, Gramsci ha individuato una delle articolazioni fondamentali del lorianesimo, che altrove egli chiama “volgarità e trivialità spirituale”, consistente nella mancanza di serietà propria degli studiosi che si spacciano per non dilettanti. Che cos’altro è se non un esempio di “volgarità e trivialità spirituale” l’accostamento fatto da Achille Lòria tra Dante Alighieri e Carlo Marx, tra il Capitale e la Divina Commedia, accostamento giustificato dal fatto che l’Alighierti e Marx sono vissuti ambedue in esilio ed hanno scritto in esilio la loro opera maggiore? Per queste considerazioni lorianesimo non è tanto volgarità e trivialità dell’apparenza verbale, ma della vita interiore, è manifestazione di un pensiero volgare, anche se espresso in forma elegante. L’eleganza, difatti, è solo apparenza vistosa, ma non è arte. Rispetto a Lòria ed al lorianesimo, per esempio, Gramsci è scrittore che crede nel principio della necessità della cultura per l’istaurazione dell’autorità spirituale accettata spontaneamente come riconoscimento di una morale e consapevole gerarchia di valori. Il lorianesimo, invece, ammette che lo scienziato si serva per fini politici di valori che possono anche non essere politici, di autorità non controllabili che spesso nella realtà sono puri pregiudizi che incoraggiano il servilismo, residuo morale delle dominazioni dispotiche. Ecco due esempi di lorianesimo come forma di autorità non controllabile.
Il prof. Lòria nell’articolo Le influenze socili dell’aviazione (verità e fantasia)[19] espone la teoria dell’emancipazione operaia dalla coercizione del salario e del lavoro di fabbrica per mezzo degli aeroplani che, opportunamente unti di vischio, permettono ad ognuno di nutrirsi con i numerosi uccelli impaniati.
Il prof. Giuseppe Prato nell’articolo Ciò che non si vede del costo della vita[20] pretende di teorizzare che l’aumento della vendita del vino da parte dell’Alleanza Cooperativa Torinese diventa prova scientifica di alcoolismi intensivo. Meno demagogicamente la spiegazione di questo aumento potrebbe consistere nell’apertura di nuovi distributori dell’Alleanza e nell’accresciuto numero di clienti che bevono il vino a desinare.
Gli esempi addotti provano che lorianesimo significa anche fama fondata sulle parole e sull’opinione generica e non sulla cultura critica che può controllare i valori, col distorto risultato di poter influire sulla pubblica opinione per la generica autorità da cui si è circondati e non per la verità che si professa.
Il questo senso il lorianesimo è anche una categoria che trova larga applicazione nella critica letteraria. Se n’è accorto per primo il Croce, il quale così scrive: “(…) Debbo dire la mia impressione: il Lòria mi pare che non prenda troppo sul serio né le sorti della scienza né quelle della società. Egli è un vero temperamento di letterato, di quelli che amano scrivere libri, dare prova di ingegnosità e di eloquenza, raccogliere elogi e lasciarsi applaudire dagli studenti (…)”[21]. Ed ancora, come esempio di retorica di pessimo gusto, Croce riporta il seguente passo di Lòria, tratto dall’articolo già da noi menzionato L’opera postuma di Carlo Marx: “(…) poiché se in questa [la seconda parte del Faust] trovo una serie di scene inanimate, splendidamente interrotte dall’incantevole episodio di Elena, nel secondo volume di Marx le squisite pagine sul giro del Capitale sono la gemma fulgida e solitaria, cinta da una corona di inutili raziocinii. Se ti piacesse, o lettore, una diversa rassomiglianza direi che il primo Capitale sta al terzo Bonaparte, e che il secondo, rannicchiantesi tra l’uno e l’altro, ha tutta la moritura fiacchezza e la cadaverica tinta del Re di Roma (…)”[22]. Il lettore s’avvede che dall’iniziale rapporto tra il secondo volume del Capitale di Marx e la seconda parte del Faust, si è passati ad un giudizio storico sui Napoleonidi. Trattasi di un esempio loriano di disorganicità.
Il secondo volume del Capitale, insieme col terzo, invece, contengono la dottrina da cui si svilupperà la nuova storia, e cioè la legge dell’accumulazione capitalistica da cui nasce la lotta di classe del proletariato. Essi “(…) offrono qualche cosa di infinitamente più prezioso di ogni compiuta verità: l’incitamento al pensare, alla critica e all’autocritica, che è l’elemento più originale della dottrina che Marx ha lasciato”[23].
Che cosa resta, dunque, del pensiero di Achille Lòria? Soltanto l’inclinazione all’ambiguità ed al gioco allusivo e sfaccettato delle corrispondenze e dei contrasti (triste corona, cadaverica tinta), ma manca del tutto l’interpretazione e la visione storica. Siamo in presenza di una forma scadente di seicentismo che considera marginale l’attività scientifica ed invera una grossissima crisi dell’equilibrio ideale e dello spirito umano. Verrebbe fatto di dire che il lorianesimo riproduce un aspetto nuovo del seicentismo come goffaggine o maniera scomposta di superare contraddizioni conoscitive e ideali.
Possiamo quindi concludere che brescianismo e lorianesimo sono, secondo la dottrina gramsciana, due vizi della civiltà letteraria italiana, che una letteratura nazionale-popolare, in cui il documento ed il fatto letterari rappresentano i problemi concreti del popolo secondo la coscienza storico politica di esso, deve sapere individuare e combattere. Da essa non possono che rimanere esclusi i nipotini di padre Bresciani e quelli di Achille Lòria.
[Il lorianesimo da Engels a Croce ed a Gramsci, in “Il Corriere di Galatina”, anno III, n. 11-12, 23 dicembre 1976, pp. 3 e 4.]
Note
[15] A. Gramsci, Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, Einaudi, Torino 1959, p. 169.
[16] Cfr. F. Engels, Prefazione a Carlo Marx, Il Capitale, vol. III, 1, Editori Riuniti, Roma 1973, VII edizione, II ristampa, p. 27.
[17] B. Croce, Le teorie estetiche del Professor Lòria, nel “Devenir Social”, anno II, fasc. del novembre 1896, la rivista fondata da George Sorel. Il saggio è poi stato rifuso in Materialismo storico ed economia marxista, Laterza, Bari 1921, pp. 28-29.
[18] A. Gramsci, Achille Lòria ed il socialismo, in Scritti giovanili, Einaudi, Torino 1958, pp. 162-163.
[19] In “Rassegna contemporanea” del 1° gennaio 1910.
[20] In “Riforma sociale”, XXV, vol. XXIX, p. 13, n. 4.
[21] B. Croce, Materialismo storico ed economia marxista, cit., p. 50.
[22] Ibidem, p. 51 n..
[23] F. Mehring, Vita di Marx, Editori Riunti, Roma 1972, p. 380. Le parole citate appartengono anche a Rosa Luxenburg che ha vergato insieme al Mehring, e su suo invito, il III paragrafo, cap. XII della biografia di Marx.