Don Quintino Sicuro, l’eremita-sacerdote di Melissano (I)

Da questo punto di vista, l’operato di don Quintino si può leggere e interpretare secondo tre cifre significative: l’essenzialità dell’esistere, la reale dimensione degli “altri”, la coerenza morale unita alla fedeltà secondo l’evolvere delle situazioni concrete.

Generalmente una delle preoccupazioni di chi s’affaccia all’età adulta è quella di trovare qualcosa da fare nella vita, che garantisca un futuro sicuro e redditizio. Anche don Quintino s’è trovato davanti a quest’interrogativo, e a 12 anni chiede d’essere ammesso alla vita religiosa fra i Frati Minori Francescani a San Simone; ma inutilmente, perché non supera la prova d’ingresso e non viene ritenuto idoneo. Non conosciamo le ripercussioni sul suo animo di fanciullo, ma sono facilmente immaginabili: essere non accettato o addirittura escluso ed emarginato per insufficienza di doti è un’esperienza molto frustante sempre e comunque, ma in tenera età è un fatto che lascia segni strazianti e indelebili. Quintino resta  ovviamente amareggiato, ma non disarmato; accetta la situazione e si dedica con esito positivo agli studi superiori nella Scuola Tecnica Industriale di Gallipoli, per poi arruolarsi nel Corpo della Guardia di Finanza, divenendo vicebrigadiere.

A questo punto sembrerebbe che l’obiettivo sia felicemente raggiunto e che Quintino abbia risolto pienamente il problema di cosa fare nella vita. Ma non è così, poiché egli è assillato da un’altra domanda, forse più rara e più difficile a percepirsi perché più profonda e più impegnativa, e comunque certamente decisiva: cioè, cosa fare della propria vita. E’ quest’interrogativo che cova nell’animo del giovane militare; e lui non si sottrae a cercarne fino in fondo la risposta corretta e vera: vuole trovare l’essenza d’ogni vita umana; s’interroga sul senso, innanzi tutto, della sua vita. “Nelle nostre azioni – annoterà – siamo sempre tentati di fermarci alle apparenze”; per questo sta attento alla fretta e alla frenesia, che secondo lui portano a “operare preoccupati più del compimento materiale del nostro dovere che della ragione per cui questo dovere ci è stato chiesto”.

Entra in una profonda crisi spirituale, che tormenta il suo animo, sempre inappagato e desideroso di trovare la sua vera: una via strana e opposta al comune sentire, che in genere è proteso alla ricerca del proprio maggiore benessere e di sempre più confortevoli comodità. Quintino, invece, è posseduto dalla presenza e dalla dignità degli “altri”. Confesserà anche a se stesso: “la tua vita è triste, perché ne hai fatto un deserto. Tu devi popolare questo deserto, devi fare entrare gli altri. Nella tua vita devi fare entrare gli altri”. Scopre la dimensione dell’altro; s’accorge che non si è completamente uomini integrali, se si rimane nel ristretto recinto del privato, inseguendo il proprio tornaconto anche se legittimo. Si convince a poco a poco che deve allargare il suo cuore il più possibile e porsi al servizio non solo di chi lo circonda, ma di tutti, vicini e lontani, amici o contrari, del presente e del futuro. Gli altri non sono solo quelli che si vedono o s’incontrano per strada, ma anche chiunque s’imbatterà in noi grazie anche all’eventuale eredità di valori umani da noi lasciata. Ecco, quindi, la riflessione di Quintino: “Se è grande per l’uomo di genio salvare l’umanità da un flagello con la sua scoperta, è più grande per un apostolo salvare un’anima immortale”.

Depone, allora, la divisa della Finanza e chiude una carriera sicura e promettente. Eccolo ritornare, senza timori e rimpianti, al suo primo proposito e chiedere, di nuovo e con ferma convinzione, d’entrare nella vita monacale; ma anche volta (considerato ciò ch’egli è e l’età già considerevole) gli vengono frapposti intoppi; addirittura viene accusato d’essere solo “una vittima di un falso punto d’orgoglio”. Ma la sua aspirazione è un “sentire veramente alto e sano e non esaltazione momentanea”; per questo, tenace e umile nello stesso tempo, non s’arrende e, dopo sofferenze e umiliazioni, alla fine può vestire il saio dell’Ordine di San Francesco. Inizia una vita di preghiera e di penitenza nel convento prima di Ascoli Piceno e poi in quello di Treia, nella provincia di Macerata.

Ma sente che non è ancora quello che deve e vuole fare. Prendendo tutti alla sprovvista (compreso il suo confessore), abbandona il saio francescano, si riveste “dei panni della Provvidenza da vero sposo di Madonna Povertà” e, a soli 29 anni, si ritira definitivamente come eremita nell’assoluta solitudine tra le montagne romagnole, prima nell’eremo di san Francesco a Montegallo, poi sul monte Carpegna e infine nell’eremo abbandonato di sant’Alberico. Ormai, com’egli stesso scriverà, sua unica ragion d’essere è “con la silenziosa, ma attivissima vita di amore, guarire il mondo dal pernicioso male moderno, che non è diciamo l’azione, ma il frastuono dell’azione non vivificato dallo Spirito di Dio”. Solo dopo alcuni mesi d’assoluto isolamento, scrive ai familiari poche scarne, ma illuminanti parole: “Avrei tante cose da dirvi onde giustificare il passo fatto e per pacificarvi del mio nuovo stato di cose, eppure mi astengo, perché superfluo, e vi dico semplicemente di aver fatto la volontà di Dio e di star bene, perché sulla mia strada. Poco importa se la gente mi dice pazzo. Basta che piaccia all’Amore. E voi, miei cari, non pensatemi ora un semplice mendicante, ma un apostolo sulle orme del Maestro (…). I figli non sono fatti per i genitori, ma per la missione a cui la Provvidenza li destina”. E lui sente che “Il suo massimo ed unico desiderio è che tutti gli uomini conoscano Dio e Gli diano gloria, salvando la loro anima così da raggiungere il fine per cui sono stati creati”.

Vestito d’uno spolverino bianco, sandali, barba lunga, si stabilisce nell’antico ormai cadente eremo di sant’Alberico; dopo anni di penitenza e di preghiera, con povertà di mezzi e lavorando duro, inizia a ricostruirlo integralmente, facendolo più grande ed ospitale. Nel frattempo, però, l’eremita Quintino non perde mai di vista il suo ideale sommo: il sacerdozio. E lo raggiunge; dopo sei anni di studio inteso e per lui difficoltoso a causa anche dell’età. Il giorno di Natale del 1961 celebra la sua prima messa a Balze alle falde del Fumaiolo, circondato dagli amici e da tutta la popolazione del luogo. Il 6 gennaio dell’anno successivo torna nella sua Melissano da sacerdote, e celebra la Messa nella chiesa in cui aveva ricevuto il Battesimo. Ma, deciso a rimanere anche eremita, fa ritorno tra le montagne romagnole; lavora per sette anni fino alla morte; viene sepolto e riposa tuttora nel “suo” eremo in un masso scavato con le sue mani, all’aperto, di fronte alla chiesa. Da quella solitudine irradia ancor oggi una forte testimonianza umana cristiana, che porta a lui ammiratori e devoti da ogni parte.

Irrequietezza, volubilità, inquietudine, immaturità, irresponsabilità, fuga dai problemi della vita? No, solo fedeltà ai dettami della sua coscienza, che di volta in volta gli suggeriva quale percorso prendere. E, per amore si fanno scelte anche difficili e dolorose, fino a donare tutta la propria vita.

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