Luigi Pirandello e la «Rivista d’Italia» (1918-1920) (Parte prima)


Emilio Sommariva, Michele Saponaro, 1925

La fase che inizia nel 1918 segna perciò davvero una rinascita del periodico.  Saponaro, che ne fu in pratica il vero responsabile fino al 1920[4], impresse infatti,  fin dal primo numero, un forte rinnovamento alla rivista. Ne modificò innanzitutto l’articolazione interna: la prima parte comprendeva articoli di cultura generale, alternati a testi letterari; la seconda  aveva, invece, un carattere  informativo ed era basata su varie rassegne, affidate a noti specialisti, relative alla letteratura, all’arte, alla musica, al teatro, ma anche alla storia, alla politica, all’economia, alla sociologia, alle scienze, ecc.; la terza parte, infine, era costituita da un notiziario.

            Ma soprattutto invitò alla collaborazione alcuni degli esponenti più illustri della cultura italiana: da Benedetto Croce a Giovanni Gentile, da Luigi Einaudi a Vilfredo Pareto, da Giuseppe Rensi ad Angelo Conti, da Vittorio Pica a Emilio Cecchi e a Giuseppe Prezzolini. Inoltre diede ampio spazio alla letteratura, pubblicando, fra l’altro: novelle di Federico De Roberto, Federigo Tozzi, Alfredo Panzini, Marino Moretti, Roberto Bracco, Marco Praga; liriche di Ada Negri, Diego Valeri, Francesco Chiesa, Enrico Cavacchioli, Angiolo Silvio Novaro; testi drammatici di Luigi Pirandello, Sabatino Lopez, Nicola Moscardelli, Ettore Romagnoli.  Diede fiducia, infine, anche a scrittori e critici giovani o esordienti come Francesco Flora, Giuseppe Toffanin, Giovanni Titta Rosa e Orio Vergani[5].

Una delle maggiori novità fu rappresentata dalla rubrica intitolata Gli uomini dell’Italia odierna, inaugurata nel fascicolo di giugno 1918 con un profilo di Gabriele d’Annunzio redatto da Ettore Janni. Nelle intenzioni di Saponaro questa rubrica, che egli stesso, in una lettera inviata al Direttore, rivendicò come una «innovazione originale nelle riviste contemporanee», avrebbe dovuto costituire «per lo storico futuro il documento più autentico dello stato di cultura dell’Italia contemporanea»[6]. In effetti, qui apparvero ritratti non solo di letterati e artisti, ma anche di politici, scienziati, giuristi ed economisti. Tra i numerosi profili pubblicati, ricordiamo, ad esempio: Benedetto Croce di Cecchi, Luigi Einaudi  e Ardengo Soffici di Prezzolini, Giuseppe Antonio Borgese  di Luigi Tonelli, Giovanni Giolitti  di  Corrado Barbagallo.  

            Anche le rassegne vennero affidate a illustri specialisti: Ettore Ciccotti curò la rassegna politica, Giacomo Orefice quella musicale, Giuseppe Prato quella economica, Gino Borgatta quella finanziaria, Alfredo Niceforo quella sociologica, Pietro Silva quella di storia, Ernesto Bertarelli quella scientifica, Margherita Sarfatti quella d’arte, Prezzolini quella letteraria, lo stesso Saponaro la rassegna drammatica.

             Per lo scrittore salentino, peraltro,  questa  non era  la prima esperienza svolta nella redazione  di una rivista. A Napoli, tra l’agosto del 1908 e il febbraio dell’anno seguente, era subentrato a Biagio Chiara come redattore-capo del periodico «La Tavola Rotonda», aprendolo sorprendentemente al futurismo attraverso il suo rapporto personale con F. T. Marinetti[7]. Nato a San Cesario di Lecce nel 1885, Saponaro aveva pubblicato fino ad allora, oltre a due raccolte di racconti, Le novelle del verde (1908) e Rosolacci (1912), un romanzo, La vigilia, (1914), che gli aveva dato larga notorietà in campo nazionale[8]. Nel 1911 aveva vinto un concorso come aiuto bibliotecario presso le biblioteche pubbliche, che l’aveva portato prima a Catania e poi a Torino e dal 1914  a Milano, dove per un certo periodo aveva lavorato presso la Biblioteca di Brera. Qui però aveva rinunziato a quell’incarico per dedicarsi interamente all’attività letteraria e alle collaborazioni giornalistiche.

In un articolo rievocativo, scritto a distanza di quarant’anni esatti da questa vicenda, Saponaro racconta che  il giorno della vigilia di Natale del 1917 venne convocato dall’avvocato Zanetti, il quale gli offrì la responsabilità della rivista che aveva acquistato con l’intenzione di rilanciarla. Dopo un attimo di perplessità, perché – come confessa nello scritto – avrebbe preferito «fare una rivista nuova che rifare una rivista vecchia»[9], egli accettò mettendosi subito al lavoro e il mese successivo, alla fine di gennaio del 1918, uscì già il primo fascicolo della rinnovata «Rivista d’Italia». Si trattava di un corposo fascicolo, di ben 114 pagine, che conteneva testi di scrittori come Ada Negri, Alfredo Panzini, Luigi Pirandello, di filologi e critici letterari come Nicola Zingarelli e Alfredo Galletti, di giuristi come Ettore Ciccotti, di economisti come Achille Loria, di scienziati come Orso Maria Corbino, oltre alle rassegne e al notiziario.

            Lo stesso Saponaro, nell’articolo citato, spiega come sia riuscito a realizzare questo primo numero in un tempo così breve a sua disposizione:

Miracoli non si compiono nelle redazioni delle riviste, ma è certo che oggi, a riguardare da così lunga distanza tanto lavoro macinato in poche settimane, mi pare davvero cosa incredibile. Non avevo scorte e riserve, dovevo cominciare dal nulla. Non avevo nemmeno chi mi aiutasse in redazione e in tipografia. Avevo con me solo la volontà di riuscire e l’ardore e la prodigalità dei trent’anni. Avevo anche dentro, a tutti nascosta, la forza dell’orgoglio di essere a capo di una rivista, io l’ultimo arrivato in una città dove circolavano già tante barbe letterarie e giornalistiche. Da poco giunto a Milano e alcuni mesi persi per il richiamo alle armi, che mi tenne confinato in una caserma e in un ospedale a Napoli, mi mancavano però le buone conoscenze dirette, fuori di Ada Negri e di Alfredo Panzini, che abitavano a Milano, e mi avevan ricevuto con fresca familiarità nelle loro case. Anche Pirandello conoscevo, per essere andato a salutarlo nel camerino di un teatro, dove si rappresentava con grande successo la prima delle commedie che gli dié grande fama: Così è, se vi pare[10].

Egli quindi entrò subito in contatto con numerosi scrittori, critici e intellettuali di primo piano, come dimostra il ricco carteggio che fa parte dell’Archivio Saponaro, conservato presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università  del Salento. Tra questi, non poteva mancare  Luigi  Pirandello che aveva già collaborato negli anni precedenti  alla «Rivista d’Italia»[11]. Saponaro, che era un grande amante del teatro, lo invita dunque  alla collaborazione con una lettera inviata «da Milano, in data 26 dicembre 1917»[12], cioè due giorni dopo che aveva ricevuto l’incarico da parte di Zanetti, richiedendogli una novella per il primo numero.  Lo scrittore siciliano gli risponde con una lettera datata «Roma, 31. XII. 1917», nella quale, dopo aver ringraziato  lui e la Direzione per l’invito a collaborare alla rivista, lo informa di non avere pronta alcuna  novella e che tutt’al più per il primo numero gli poteva mandare un saggio dantesco. Ecco il testo integrale della lettera:

Caro Saponaro,

La ringrazio cordialmente del cortese invito e la prego di ringraziare anche a mio nome codesta nuova onorevole Direzione della «Rivista d’Italia», di cui fui nei primi anni, ai tempi cioè della direzione dello Gnoli e poi del Chiarini, assiduo collaboratore.

Non ho pronta nessuna novella né potrei, in così breve tempo, approntarla per il primo fascicolo. Potrei, se crede, mandare un mio studio originale su «La commedia dei diavoli e la tragedia di Dante» che è un commento nuovo e sui generis al canto XXI dell’Inferno. Questo, in mancanza d’una novella, se la nuova Direzione tenesse alla mia firma per il sommario del 1° fascicolo. La novella verrebbe poi.

Le ricambio con tutto il cuore gli auguri per il nuovo anno e mi creda sempre

Suo affmo

Luigi Pirandello

Via Alessandro Torlonia, 15 Roma[13]

Subito dopo però Pirandello cambia idea e il 16 gennaio del 1918 invia a Saponaro  un  telegramma che recita testualmente così:  «spedito oggi novella sceneggiata   per risparmiar tempo corregga lei accuratamente bozze – vorrei qualche estratto saluti – Pirandello».

Qual era la «novella sceneggiata» spedita dallo scrittore?  L’atto unico La patente, riduzione teatrale della famosa novella già apparsa sul «Corriere della Sera» il 9 agosto 1911 e raccolta nel 1915 presso Treves nel volume La trappola, la quale esce infatti sul primo fascicolo della «Rivista d’Italia». Che cosa era successo allora? Pirandello, in quei primi quindici giorni di gennaio, non avendo a disposizione una novella nuova,  traduce  in italiano l’atto unico in dialetto ‘A patenti e quindi glielo invia a Saponaro come «novella sceneggiata». L’atto unico venne stampato nel 1920, sempre con Treves, con un finale diverso, nel volume Maschere nude, insieme ad altri copioni d’argomento siciliano[14]. La prima, invece, ebbe luogo al teatro Alfieri di Torino il 23 marzo 1918 con la compagnia di Angelo Musco.

Questi documenti epistolari rafforzano dunque l’ipotesi, prospettata da Alessandro d’Amico,  che la prima stesura di questa commedia, composta alla fine del 1917 per il grande attore siciliano, sia stata in dialetto e può essere considerata anzi «l’ultimo testo originale siciliano scritto da Pirandello»[15]. A dire il vero, il testo è misto, in dialetto e in italiano. Comunque, non avendo molto tempo a disposizione Pirandello preferì tradurre in lingua questo atto unico per essere presente sul primo numero della «Rivista d’Italia», e sia pure non con una novella ma con una «novella sceneggiata».

Protagonista di essa, com’è noto, è Rosario Chiàrchiaro[16], il quale, ingiustamente accusato da tutti di essere iettatore, perde il lavoro e si ritrova in miseria con una famiglia sulle spalle e un intero paese che lo sfugge come un appestato al suo passaggio. Al culmine della disperazione, si decide per una soluzione che ha in sé tutto il sapore del paradosso pirandelliano: non solo accetterà il ruolo di iettatore, ma ne farà la propria fortuna, ricavandone una fonte inesauribile di sostentamento. Per far questo, deve convincere il giudice istruttore D’Andrea a istruire un processo nato da una querela per diffamazione che Chiàrchiaro ha mosso contro due personaggi di spicco del paese, colpevoli, per così dire, di aver fatto pubblici e scurrili scongiuri al suo passaggio. D’Andrea, uomo onesto e dotato di una forte pietà, vorrebbe dapprima risparmiare a Chiàrchiaro il ridicolo che inevitabilmente gli deriverebbe dal processo, ma ciò perché egli stesso è inizialmente ignaro dei disegni del protagonista.

Il piano di Chiàrchiaro è semplice e geniale al tempo stesso: perdere appositamente il processo, far risultare infondata l’accusa di diffamazione mossa ai suoi avversari, essere dichiarato quindi iettatore anche dal tribunale legale e, in nome di questa «patente»  ufficialmente rilasciatagli, esigere una sorta di tassa da tutti gli abitanti del paese, i quali sarebbero stati ben felici di pagare pur di evitare la malasorte.

Qui, come nella novella da cui è tratto il testo teatrale, si rivela pienamente il carattere corrosivo dell’umorismo pirandelliano. Ma esaminiamo più da vicino i due personaggi principali. Il giudice D’Andrea è una figura di giudice-filosofo, di stampo leopardiano-montaliano potremmo dire. A Leopardi rimanda l’ affermazione che «la natura forse non sa neppure che noi esistiamo»[17], mentre un’altra sua convinzione, presente nelle novella, «la certezza di non poter nulla sapere e nulla credere non sapendo»[18], ricorda sorprendentemente, piuttosto da vicino, anticipandoli di qualche anno, i celeberrimi versi montaliani di Non chiederci la parola, tratti da Ossi di seppia: «Codesto solo oggi possiamo dirti, /  ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». Da questa convinzione – osserva Pirandello – gli derivava «qualche seria costipazione. Costipazione d’anima, s’intende»[19].

 «Sbilenco»  di corpo,  ma «diritto»  moralmente, «prodotto umano» che viene fuori da «mostruosi intrecci di razze» e da «misteriosi travagli di secoli»[20], il giudice è una figura intimamente tormentata, sempre alla ricerca della verità, in preda a dubbi esistenziali, ma anche pieno di incertezze riguardo all’amministrazione della giustizia nei confronti di quelli che definisce  «questi poveri piccoli uomini feroci»[21]. Animato da un senso di compassione, di pietà verso i perseguitati ingiustamente («compreso di profonda pietà»[22], si legge nella «novella sceneggiata»), passa le notti meditando e osservando il cielo stellato, sentendosi «come un ragnetto smarrito»[23] di fronte a quella immensità.

Da aggiungere, come ha osservato Sarah Zappulla, che nella versione in dialetto il giudice è l’unico che parla in italiano, quasi a sottolineare le sua diversità rispetto a tutti gli altri  (uscieri,  altri magistrati), appartenenti a classi sociali diverse ma accomunati dalla credenza nella iettatura e dalla conseguente crudeltà dei comportamenti verso Chiàrchiaro[24].

Ma passiamo ora al protagonista. Questi si presenta davanti al giudice acconciato già da perfetto iettatore. Così lo introduce Pirandello:

Rosario Chiàrcaro s’è combinata una faccia da jettatore che è una meraviglia a vedere. S’è lasciato crescere su le cave gote gialle una barbaccia ispida e cespugliuta; s’è insellato sul naso un pajo di grossi occhiali cerchiati d’osso che gli dànno l’aspetto d’un barbagianni; ha poi indossato un abito lustro, sorcigno, che gli sgonfia da tutte le parti, e tiene una canna d’India in mano col manico di corno. Entra a passo funebre, cadenzato, battendo a terra la canna, e si para davanti al giudice[25].

 Egli insomma,  fin dall’aspetto fisico,  assume il ruolo di iettatore che gli viene assegnato, accetta cioè fino in fondo il linguaggio delle convenzioni sociali, delle sciocche e crudeli credenze popolari anche nell’abbigliamento e nell’atteggiamento, portandolo fino all’assurdo e mostrandone l’interna contraddizione e l’intrinseca paradossalità.  In tal modo persegue lucidamente  il suo proposito di vendicarsi nei confronti dei suoi concittadini che l’hanno «assassinato», in quanto, a causa di questa sinistra fama, ha perso il lavoro ed è rimasto con una moglie paralitica e con due figlie «belline» ma che nessuno guarda e vuole più,  ed è costretto a farsi mantenere dal figlio che a sua volta ha una famiglia con tre bambini. E, nel corso del colloquio col giudice,  Chiàrchiaro gli spiega il suo progetto lasciandolo esterrefatto, sbalordito, o «imbalordito» come scrive Pirandello, chiedendo «il riconoscimento ufficiale della  sua potenza », cioè la «patente di jettatore»[26], di cui servirsi per guadagnare e poter vivere. Quando il giudice gli obietta che quella è la tassa dell’ignoranza, Chiàrchiaro risponde così con grande lucidità:

Dell’ignoranza? Ma no, caro lei! La tassa della salute! Perché ho accomunato tanta bile e tanto odio contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo, signor giudice, d’avere qua, in questi occhi, la potenza di far crollare dalle fondamenta un’intera città! [27]

E subito dopo incomincia a mettere in atto il suo piano, approfittando della caduta della gabbia col cardellino che il giudice portava sempre con sé, a causa del forte vento, provocando la morte dell’animale. Dell’accaduto, infatti, Chiàrcaro si attribuisce il merito, col terrore degli astanti (i tre giudici e l’usciere), che incominciano a versare a lui denaro per evitare danni peggiori.

Ecco allora «la qualità eversiva»[28] dell’umorismo pirandelliano: «far crollare dalle fondamenta» opinioni consolidate, smascherare le convenzioni, false, di comodo, su cui spesso si regge la società. Insomma, come ha scritto Ettore Catalano:

La poetica dell’umorismo altro non è  che la costante dissoluzione di ogni idea solidale del sociale, la più aperta, crudele e hobbesiana rivalsa di chi si sente defraudato e schiacciato e reagisce ai meccanismi dell’esclusione con la violenza rabbiosa e crudele di chi sa di essere arrivato all’ultima spiaggia, all’unica occasione da cogliere e praticare per la propria vendetta[29].

Dopo la pubblicazione della novella, Pirandello inviò a Saponaro un’altra lettera, datata «Roma, 7. II. 1918», nella quale gli sollecita l’invio del primo fascicolo, che non aveva ancora ricevuto, e degli estratti:

Caro Saponaro,

so che il fascicolo è stato pubblicato; ma ancora non vedo nulla. Vi prego di farmelo mandare al più presto, e non vi dimenticate gli estratti.

Cordiali saluti dal

vostro

Luigi Pirandello

Lo scritto  dantesco, a cui lo scrittore siciliano  accennava  nella prima lettera, vide la luce, invece, qualche mese dopo, nel fascicolo di settembre 1918. Il saggio deriva da  una lettura tenuta da Pirandello a Firenze il 3 febbraio 1916, che a sua volta era tratta da un gruppo di lezioni da lui svolte presso l’Istituto superiore di Magistero di Roma[30].  Qui  egli prende in esame il canto XXI dell’Inferno, il canto dei «barattieri» di Malebolge, e lo osserva alla luce della sua concezione ‘umoristica’. Da questa  stringente indagine emerge la motivazione profonda che sta alla base di esso e che affonda le radici nell’animo stesso di Dante.

All’inizio contesta l’interpretazione di Francesco De Sanctis che nei canti di Malebolge  aveva visto il regno del comico dantesco. Per Pirandello «il comico non è della materia, è dell’animo del poeta, cioè nel modo come questa materia s’atteggia innanzi a lui e nel modo come il poeta a sua volta s’atteggia innanzi alla materia. Ora,  ‒ sostiene l’autore  ‒  che questi due atteggiamenti, in genere, per tutto Malebolge siano comici io non mi sento proprio d’affermare»[31]. Poi passa rapidamente in rassegna i canti precedenti confermando il suo giudizio, cioè che non si tratta mai di comico, ma semmai di disprezzo, ironia, disgusto, nausea, satira, raccapriccio, «perché non è mai comica l’intenzione del poeta»[32].

Nel canto XXI, in particolare, non c’è una rappresentazione comico-grottesca, ma «sotto, nell’intimo e segreto sentimento del poeta, più che mai drammatica e dolorosa»[33], anche perché qui Dante allude a un episodio reale che lo riguardava direttamente e che lo colpì moltissimo, cioè all’accusa di baratteria  che la città di Firenze gli rivolse in contumacia e all’ingiusta condanna che subì. E la scurrile immagine che lo chiude vuole essere proprio, secondo Pirandello, la «grottesca parodia dello squillo di tromba del banditore che andò a citarlo a nome del podestà»[34].  L’«indole vera e la segreta ragione del riso di Dante» stanno dunque nel disprezzo per quella «indegna accusa»[35]. Tutta questa commedia insomma altro non è, secondo Pirandello, che una «finzione che nasconde sotto l’apparenza grottesca il dramma più doloroso»[36]. E così conclude:

La crudezza appunto di questa rappresentazione che non s’arresta innanzi ai particolari più sconci e triviali, anzi ci assalta con essi, dimostra che non c’è affatto la compartecipazione di Dante alla commedia, e che perciò essa non va considerata per sé, nella sua volgare sconcezza, ma in relazione col poeta che non solo non ne ride né può riderne, e non rideremo più neanche noi, allora, perché avremo inteso che qui c’è un sarcasmo; il sarcasmo, che non è mai commedia, ma è sempre un dramma che non può rappresentarsi tragicamente come dovrebbe, perché troppo buffi, indegni e solo meritevoli di disprezzo sono gli elementi e le ragioni ond’è determinato[37].

Il rapporto tra Pirandello e la «Rivista d’Italia», nei tre anni della redazione affidata a Saponaro,  non è limitato però alla collaborazione diretta dello scrittore con La patente e il saggio dantesco. A dimostrazione della grande stima che aveva per lui, infatti, il redattore del periodico milanese volle dedicargli anche  un profilo nella citata rubrica Gli uomini dell’Italia odierna che, nelle sue intenzioni, doveva essere un’ideale galleria dei personaggi più significativi della nazione. All’inizio egli lo chiese a un amico e collaboratore di Pirandello, Pier Maria Rosso di San Secondo, uno dei più significativi drammaturghi italiani del Novecento, che aveva collaborato alla  rivista con una novella dal titolo Grifa, i miei tradimenti… (lettera d’amore)[38].  Questi gli rispose con una lunga e sofferta  lettera, datata «Roma 25 – 6 – 918», accettando questo invito, ma  a due precise condizioni,  cioè una lunghezza  fra «12 e 18 pagine» e un compenso adeguato. Ecco l’inizio della missiva:

Caro Saponaro,

Ricevo la vostra lettera e la riscontro. Ecco: vi dico sinceramente che perché io parli di Pirandello prima di tutto occorre  non mi si pongano limiti di spazio, o almeno[39] mi siano lasciate tra 12 e 18 pagine;  e secondo che io non potrei mettermi all’opera se non mi venisse assicurato almeno un compenso coscienzioso di lire quattrocento. Ed eccone la ragione.

Dopo aver chiarito la ragione di queste sue richieste, continuava mettendo strettamente in rapporto l’opera di Pirandello con la sua sicilianità e inserendolo in una linea di scrittori e artisti isolani, in cui si colloca anche lo stesso Rosso di San Secondo. Così prosegue la lettera:

Due o tre anni fa io scrissi di Pirandello a lungo ma analiticamente sulla Nuova Antologia. Il mio studio unanimemente riconosciuto come uno dei saggi più riusciti di critica contemporanea, citato tutt’ora a ogni passo, a me non finì di piacere. C’era sì, in esso, una parola precisa sull’arte dello scrittore, non c’era la spiegazione umana dello scrittore. Ora se io devo riprendere la penna per scrivere di Pirandello – cosa che per il cumulo di sofferenza conterranea che mi costa varrebbe a superare di cento volte lo sforzo di scrivere un romanzo – bisognerebbe che io non parlassi delle novelle novelle o del teatro teatro, ma esprimessi mettendone a nudo i lacerti sanguinosi, la tragedia della razza isolana, in maniera definitiva, cominciando da Verga fino al buffone Musco e al poeta vernacolo Martoglio, e dir che cosa significa nella sua provincialità tetra, dura, arida, angosciosa, Pirandello, altrimenti il mio studio non significherebbe nulla. E non lo farei a nessun prezzo. Insomma per determinarmi io devo sapere quel che s’intenda fare e so che, in caso affermativo mi tocca soffrire di lacerazioni per 15 giorni, tralasciando ogni mio lavoro.

Se accettate in tal senso e per tal compenso, lo faccio e molto, molto seriamente, e in maniera definitiva, altrimenti proprio non posso. D’altro canto dovrete considerare che avrete non parole, ma sangue del mio sangue migliore. Scrivetemi, vi prego con la stessa franchezza con la quale vi scrivo: ormai siamo veramente fraterni.

E grazie per la vostra novella: Purché non superi le due colonne e mezza. O se così potete senz’altro inviarmela.

Vi saluto cordialmente

Vostro

Rosso di SSecondo

Per motivi che ignoriamo, o forse proprio a causa delle condizioni poste dallo scrittore[40], il quale d’altra parte, come accenna anche in questa lettera, appena due anni prima aveva pubblicato un lungo saggio su Pirandello[41], sulla «Rivista d’Italia» non uscì il profilo di Rosso di San Secondo, bensì quello steso da un giovanissimo e promettente scrittore, Orio Vergani, destinato a diventare uno dei più noti giornalisti italiani del Novecento.  Questo  nome  venne suggerito a Saponaro dallo stesso Pirandello,  come risulta anche dalla seguente lettera, inviata da  Milano il  4  novembre 1918 su foglio intestato «Società “L’Editricie” [sic] / Il Messaggero»,  nella quale Vergani si impegnava a completare il suo articolo non appena ritornato a Roma. Si riproduce qui la lettera:

Gentilissimo Signor Saponaro

Rivista d’Italia

Milano

credo che il mio nome non le riesca nuovo. Pirandello anzi le ha promesso un mio ‘profilo’ per la rivista.

Io non ho potuto ultimarlo negli ultimi giorni a Roma, e adesso sono qui a Milano, soldato d’artiglieria a cavallo. Spero di tornare entro il mese a Roma e completare così il mio articolo.

Vuole essere tanto gentile da dirmi dove mi sarebbe possibile vederla? Sono libero dalle 5 ½ alle 8 ½ d’ogni sera.

Il mio indirizzo è questo: Orio Vergani. Via S. Andrea 9 – Milano

Ringraziandola distintamente la saluto

Orio Vergani

Nato a Milano nel 1898,  dopo aver interrotto gli studi,  il giovane scrittore si era trasferito a Roma e qui, secondo la testimonianza del figlio Guido,  «lavorava, come redattore tuttofare, al “Messaggero Verde”, il supplemento culturale del quotidiano romano, insieme a Federigo Tozzi e a Rosso di San Secondo. L’ispiratore, il direttore ombra di quel foglio era Luigi Pirandello. Orio aveva trovato in lui un maestro-padre»[42]. Questi,  a sua volta,  lo stimava e lo considerava il più promettente dei suoi allievi.  

D’altra parte,  com’è noto, Orio Vergani fu vicino a  Pirandello anche negli anni seguenti. Egli fu, infatti, uno dei dodici fondatori del «Teatro d’Arte» di Roma, di cui il drammaturgo siciliano assunse la direzione nel 1925. Ma anche altri componenti della sua famiglia ebbero rapporti con Pirandello. La sorella maggiore di Orio, Vera, negli anni Venti divenne una delle attrici pirandelliane più apprezzate. Fra l’altro, il 10 maggio 1921 al Teatro Valle di Roma fu l’interprete della Figliastra nella prima dei Sei personaggi in cerca d’autore rappresentata dalla compagnia di Dario Niccodemi.

Sul fascicolo di febbraio 1919 venne pubblicato, dunque,  lo scritto di Vergani, in cui egli tracciava un sintetico, ma informato e acuto, profilo dell’uomo e dello scrittore, anche se – sostiene all’inizio ‒ «l’unico scrittore che potrebbe scrivere di Luigi Pirandello degnamente sarebbe, sicuro, Luigi Pirandello»[43]. Dopo averlo definito «uno tra i maggiori scrittori nostri»[44] e aver giudicato Il fu Mattia Pascal, pubblicato appena quindici anni prima, «un’opera quasi classica»[45], individua giustamente  «il concetto informatore della sua arte»[46] nell’umorismo che è forse il primo passo verso l’assoluto, in arte. Ed ecco ‒ continua Vergani ‒ l’umorismo di Pirandello diventare non più contrasto di spirito e di forma, di reale e irreale, di logico e assurdo, ma assurgere alla linea della essenza classica, alla rarefazione della realtà e dell’irrealtà in uno, alla distruzione del naturalismo e dell’estetismo, per raggiungere, in alcune pagine dove la vibrazione è di una intensità tale da esser pressoché insensibile, quasi la linea perfetta dell’assoluto. Del vero fuori del vero. Raggiungere, infine, la totalità della costruzione nuova, omogenea, compatta, inintaccabile in ogni sua parte, fatta di mille esperienze nel conosciuto e di mille sbalzi nello sconosciuto, assoluto dentro lo spazio e fuori dello spazio[47].

Successivamente stabilisce un confronto con Verga, che «ha dato il concetto realista del romanticismo d’una sensibilità  e d’una razza», mentre Pirandello «ha affinato questa sensibilità romantica e passionale coll’analisi cerebrale, e ha raggiunto l’equilibrio classico della visione del dissidio, traverso la dolorosa esperienza umoristica della realtà materiale riflessa nella realtà immateriale»[48].

Nell’ultima parte del saggio, Vergani ritorna sull’uomo Pirandello e  immagina, quasi anticipando lo schema dei Sei personaggi, della cui stesura probabilmente era al corrente, che egli venga raggiunto nel suo studio dai suoi personaggi: Mattia, Baldovino, le dolenti madri, i bambini, gli uomini, qualche zolfataro, Ciaula, qualche pazzo e qualche donna innamorata. Alla fine preannuncia la pubblicazione, che però sarebbe avvenuta solo nel 1926, di Uno, nessuno e centomila, «che dovrà contenere ‒ scrive Vergani ‒ tutta l’essenza migliore della sua arte»[49].

Ma il nome di Pirandello, sulla «Rivista d’Italia», ricorre anche in varie altre occasioni. Saponaro dimostra,  infatti, un’attenzione costante per l’opera teatrale dello scrittore nel triennio in cui fu responsabile della rivista. Nella rubrica Rassegna drammatica, infatti, da lui curata, il nome del drammaturgo siciliano è spesso presente[50]. Nel primo fascicolo, ad esempio, sosteneva già, senza mezzi termini, che Pirandello era «il fatto nuovo e inconsueto, accaduto, in teatro, nel 1917» e lo definiva «l’autore drammatico dell’anno che oggi si chiude»[51]. Egli sottolineava la novità del teatro pirandelliano che induce il pubblico a riflettere, a ripiegarsi  su se stesso, a comprendere le umane debolezze della natura umana:

Questo teatro senza vicende drammatiche o comiche, ‒ continuava ‒ senza rilievo di caratteri, questo teatro di filosofia in azione, di massime viventi e parlanti, pur tra l’artifizio evidente della sua struttura paradossale e didascalica, ha dato al pubblico la sensazione di trovare ciò che in questi giorni dolorosi affannosamente va cercando: un po’ di verità. Il pubblico se n’è appagato ed è tornato a riaverla[52].

E concludeva il suo intervento con la certezza che Pirandello  non sarebbe stato mai un autore alla moda, « un dominatore di platee»[53], ma avrebbe conservato intatto il suo posto nel teatro che aveva  definitivamente conquistato.

Nella Rassegna drammatica del 28 febbraio 1919, dopo aver scritto che i giovani commediografi italiani (Chiarelli, Antonelli, Veneziani) ammettevano essi stessi di derivare da Pirandello, sottolineava le profonde differenze esistenti con gli altri autori teatrali. Mentre, infatti, egli era  giunto al teatro dopo una lunga esperienza d’arte e di riflessioni durata trent’anni, portandovi «una propria originale visione della verità, nella sua apparenza e nella sua essenza» e  cogliendo «il paradosso della vita al centro dell’anima umana»[54], gli altri la cercavano nelle convenzioni più viete dei palcoscenici.  Per questo, anche un lavoro, a suo giudizio, meno riuscito, come L’innesto, sovrastava  nettamente «la media e la mediocrità del teatro consueto»[55].

Saponaro, come s’è detto,  figura come redattore della rivista fino a luglio del 1920, in quanto poco prima si era dimesso dall’incarico a causa di contrasti sorti con la Direzione a cui imputava la  scarsezza costante di mezzi finanziari a disposizione per retribuire i collaboratori. Subito dopo le dimissioni egli promosse una vertenza nei confronti dell’Amministrazione per vedersi riconosciuta la funzione di redattore-capo, quale in effetti aveva svolto. A tale scopo venne chiesta la testimonianza ad alcuni collaboratori, i quali infatti, inviarono dichiarazioni autografe in tal senso, come dimostrano alcune missive conservate nell’Archivio dello scrittore. Anche Pirandello inviò una lettera datata «Roma, 15. VI. 1920» nella quale  dichiarava di avere trattato sempre con Saponaro per quanto riguardava la sua collaborazione con la «Rivista d’Italia». Eccone il testo:

Preg.mi Signori,

            mi arriva soltanto oggi, 15, la lettera in data 9 giugno a me diretta in nome di codesto On.le Collegio per rispondere quale testimone nella pendenza Saponaro – Società «Unitas».

Rispondo che ebbi sempre a trattare col Saponaro e non con altri nella richiesta della mia collaborazione alla «Rivista d’Italia».

Con ossequio

Luigi Pirandello

Ma Saponaro continuò ad occuparsi del teatro di Pirandello anche dopo il triennio in cui fu redattore al punto che si può considerare  uno dei critici che più assiduamente lo hanno seguito  per tutti gli anni Venti. Dopo un’interruzione di tre anni, infatti, nel marzo del 1923, egli riprende la Rassegna drammatica, ritornando ancora una volta sul drammaturgo siciliano e facendo notare che dopo sei o sette commedie scritte negli ultimi tre anni, ormai «il nome di Pirandello autore di teatro s’è sovrapposto al nome di Pirandello autore di novelle»[56] e il pubblico era disposto ormai a lasciarsi trascinare «nel labirinto di tutte le sue costruzioni cerebrali»[57]. Poi passava ad esaminare Vestire gl’ignudi, che, a suo giudizio,  non valeva le commedie precedenti, perché, pur essendo «bellissima di luce spirituale nella concezione», nella realizzazione scenica appare talvolta «frantumata in uno studio forse eccessivo di particolari pittorici e dialettici, e offuscata dalle tinte grigie di un panorama crepuscolare»[58]. Ciononostante,  anche qui «la sua arte, tutta interiorità – e dolorosamente, amaramente interiorità ‒ lavora di scavo nell’anima dei personaggi»[59], anche se la tecnica, secondo Saponaro, prevaleva sulla fantasia.

Anche nelle  cronache teatrali, da lui pubblicate sul quotidiano milanese «La Sera» dal 1924 al 1927[60], egli  prende spesso in esame sia  prime rappresentazioni di opere pirandelliane, sia repliche dei capolavori messe in scena da prestigiose compagnie, italiane e straniere. Anche in queste recensioni l’elemento costante della sua interpretazione sembra essere la ‘cerebralità’ che caratterizzerebbe i testi dello scrittore siciliano. Nella recensione a La vita che ti diedi, ad esempio, Saponaro sostiene che Pirandello ha avuto il torto di rappresentare il dramma potente della maternità «con mezzi puramente cerebrali», mentre «il dramma materno è sempre un dramma di sentimenti: nella madre il cuore soverchia la forza del pensiero»[61]. Anche in Ciascuno a suo modo, a giudizio di Saponaro, la riflessione sull’inconsistenza della realtà che è «il nucleo centrale della concezione pirandelliana della vita»[62], prevale sul dramma reale che si svolge sul palcoscenico, secondo un procedimento in lui consueto. Ma l’interesse che il pubblico prova per  il dramma umano fa passare in secondo piano il dramma dialettico. La signora Morli uno e due, infine, sembrerebbe la meno pirandelliana, almeno per tre quarti, tra le sue opere, dal momento che l’autore ha voluto rappresentare il «dualismo d’anime» e non esclusivamente teorie[63]. Anche qui però, a suo giudizio, l’introspezione inaridisce la sorgente dei sentimenti.

Non bisogna meravigliarsi eccessivamente di queste osservazioni. La cerebralità, com’è noto, è una delle accuse più frequenti che venivano rivolte  al teatro pirandelliano in quegli anni da quasi tutti i suoi critici[64]. D’altra parte Saponaro, in un pezzo sul Teatro di Stato, definirà Pirandello «il nome più alto del teatro contemporaneo, l’uomo e l’artista che in questi anni ha dato un’eco europea alla voce della nostra arte umiliata sino ad oggi alla parte della serva»[65].  E, a parte il curioso accento nazionalista, emergono qui, ancora una volta, tutta la stima e l’ammirazione che egli provava per il grande drammaturgo agrigentino.

[In A.L. Giannone, Ricognizioni novecentesche. Studi di letteratura italiana contemporanea, Avellino, Edizioni Sinestesie, 2020]


[1] Sulla figura e l’attività giornalistica ed editoriale di Zanetti cfr. B. Boneschi, Gian Luca Zanetti dall’avvocatura al giornalismo, all’editoria, Franco Angeli, Milano 2012.

[2] Cfr. V. Castronovo, La stampa italiana dall’Unità al fascismo, Laterza, Bari 1973, p. 254.

[3] Qualche notizia sulla «Rivista d’Italia»  in F. Fattorello, Giornali e riviste, in Problemi e orientamenti critici di lingua e letteratura italiana, vol. I, Notizie introduttive e sussidi bibliografici,  Marzorati, Milano 19602, Parte III, pp. 98-99, e in A. Accame Bobbio, Le riviste del primo Novecento, La Scuola, Brescia 1985, pp. 13-15.

[4] Saponaro figura come redattore della rivista fino a luglio del 1920. La «Rivista d’Italia» comunque andò avanti secondo l’impostazione data dallo scrittore salentino, che continuò a collaborare come critico drammatico, e venne diretta dal solo Zanetti dal 1921 al 1926 e, dopo la morte di questi, da Romolo Caggese, il quale la guidò fino al 1928, anno della sua  definitiva chiusura.

[5] Sulla rivista negli anni della redazione di Saponaro si rinvia a A.L. Giannone, La «Rivista d’Italia»: il triennio 1918-20, in «Rivista di letteratura italiana», Letterature e riviste, I, a cura di G. Baroni, 3, 2004, pp. 137-141.

 [6]La minuta autografa della lettera di Saponaro al Direttore della «Rivista d’Italia», senza data ma risalente al 1919, è conservata nell’Archivio Saponaro, custodito presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Salento..

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[7] Su questo aspetto dell’attività di Saponaro si rinvia a A.L. Giannone, Da «La Tavola Rotonda» alla «Rivista d’Italia»: Saponaro redattore (attraverso le lettere), in Michele Saponaro cinquant’anni dopo, Atti del Convegno Internazionale di  Studi (San Cesario di Lecce-Lecce, 25-26 marzo 2010), a cura di A.L. Giannone,  Congedo, Galatina 2011, pp. 269-284. Per un’accurata analisi di questo volume cfr. E. Catalano, La fortuna critica di Michele Saponaro, in Id., I cieli dell’avventura. Forme della letteratura in Puglia, Progedit, Bari 2014, pp. 73-78.

[8] Per un profilo di Saponaro cfr. M. Tondo, Un carducciano del Sud. Introduzione al vol., da lui curato, M. Saponaro, Adolescenza, Congedo, Galatina 1983. Ma ora si veda Michele Saponaro cinquant’anni dopo, Atti del Convegno Internazionale di  Studi cit. Sulla sua attività di narratore si rinvia a E. Tiozzo, Lo spettatore della vita. Poetica e poesia della contemplazione nella narrativa di Michele Saponaro, Aracne, Roma 2010.

[9] M. Saponaro, Come rinacque una rivista, in «L’Osservatore politico letterario», a. IV, n. 4, aprile 1958, p. 67.

[10] Ivi., p. 69. In effetti Così è (se vi pare) andò in scena per la prima volta all’Olympia di Milano il 18 giugno 1917, con la presenza dell’autore tra il pubblico. Cfr. Notizia a Così  è (se vi pare), in L. Pirandello, Maschere nude, a cura di A. d’Amico. Premessa di G. Macchia, Mondadori, Milano 1986, vol. I,  p. 426.

[11] Sulla  «Rivista d’Italia», Pirandello aveva pubblicato, fra l’altro, la novella Notizie del mondo,  nel n. di  marzo e aprile 1901 e sei poesie col titolo complessivo  In tristitia hilaris, nel n. di ottobre 1901.

[12] Cfr.  Notizia a La patente, in L. Pirandello, Maschere nude cit., p. 513.

[13] Tutte le lettere che qui si pubblicano fanno parte del ricco Carteggio dell’Archivio Saponaro, conservato presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Salento..

[14] Ora la stesura in dialetto di ‘A patenti è compresa in L. Pirandello , Tutto il teatro in dialetto, a cura di S. Zappulla Muscarà, Bompiani, Milano 1994, vol. II, pp. 137-153.

[15] Cfr. Notizia a La patente, in L. Pirandello, Maschere nude cit., p. 516.

[16] Sul significato di questo nome ha scritto una bella paginetta L. Sciascia,  Kermesse, Sellerio, Palermo 1982: «E lu cuccu ci dissi a li cuccotti / a lu chiarchiaru nni vidiemmu tutti. E il cucco disse ai suoi piccoli / al “chiarchiaro” ci rivedremo tutti. La morte raffigurata con un luogo scabro ed aspro dove tutti ci incontreremo. “Chiarchiaro” è infatti , in una collina rocciosa, un sistema di anfratti, di crepacci, di tane. Pauroso rifugio di selvaggina, di uccelli notturni; e vi si caccia col furetto, che spesso nelle tane resta imprigionato. La parola, intraducibile in altra italiana, si è italianizzata facendosi, in provincia di Agrigento, cognome. […] Al “chiarchiaro”, dunque, è come dire agli inferi. E senza dubbio vi agisce la memoria delle antiche necropoli scavate nelle colline rocciose, come intorno al paese se ne trovano. Dispogliata di mistero anche la morte: tutto finisce nelle buche del “chiarchiaro”».  La citazione è tratta da Notizia a La patente, in L. Pirandello, Maschere nude, cit., p. 514.

[17] L. Pirandello, La patente, in «Rivista d’Italia», I vol., fasc. I, 31 gennaio 1918,  p. 54.

[18] Id., La patente, in Novelle per un anno, a cura di M. Costanzo. Premessa di G. Macchia, vol. I, tomo I, Mondadori, Milano 1985, p. 568.

[19] Ibid.

[20] Ivi, p. 567.

[21] L. Pirandello, La patente, in «Rivista d’Italia»  cit., p. 51.

[22] Ivi, p. 60.

[23] L. Pirandello, La patente, in Novelle per un anno  cit., p. 568.

[24] Cfr. S. Zappulla Muscarà, Introduzione a L. Pirandello , Tutto il teatro in dialetto, cit., p. XXVI.

[25] L. Pirandello, La patente, in «Rivista d’Italia» cit., p. 57.

[26] Ivi, p. 59.

[27] Ivi, p.60.

[28] La definizione è di E. Catalano, Le caverne dell’istinto. Il teatro di Luigi Pirandello, Progedit, Bari 2010, p. 37. Su questo volume ci sia permesso di rinviare a  A. L. Giannone, Luigi Pirandello. Il teatro esplorato da Ettore Catalano, in «Alba Pratalia», n. 17, dicembre 2010, pp. 527-533.

[29] E. Catalano, Le caverne dell’istinto. Il teatro di Luigi Pirandello, cit., p. 36.

[30] Ora è compreso in L. Pirandello, Saggi, Poesie, Scritti varii, a cura di M. Lo Vecchio Musti,  Mondadori, Milano 19935, pp. 343-361

[31] L. Pirandello, La Commedia dei diavoli e la Tragedia di Dante, in «Rivista d’Italia»,  III vol., fasc. I, 30 settembre 1918, p.  33.

[32] Ivi, p. 34.

[33] Ivi, p. 35.

[34] Ivi, p. 44.

[35] Ivi, p. 36.

[36] Ivi, p. 41.

[37] Ivi, p. 45.

[38] In «Rivista d’Italia», II vol., 31 maggio 1918, pp. 71-75.

[39] I termini sottolineati nella lettera sono stati da noi posti in corsivo.

[40] In una lettera successiva inviata a Saponaro, datata «Roma, 28 – 7 ‒ 918»,  Rosso scriveva, fra l’altro:  «Ho ricevuto la vostra novella,  ma ancora nessuna  risposta alla mia ultima lettera. Se m’aveste scritto, è andata smarrita».

[41] Cfr. P. M. Rosso di San Secondo, Luigi Pirandello, in «Nuova Antologia», 1° febbraio 1916, pp. 390-403.

[42] G. Vergani, L’allegra epopea d’una famiglia: la mia, in «La Repubblica», 13 gennaio 1990.

[43] O. Vergani, Luigi Pirandello, in  «Rivista d’Italia», I. vol., fasc. II, 28 febbraio 1919, p. 220.

[44] Ibid.

[45] Ivi, p. 221.

[46] Ivi, p 224.

[47] Ibid.

[48] Ibid.

[49] Ivi, p. 226.

[50] Sull’attività svolta da Saponaro in campo teatrale, come critico e autore, si rinvia a E. Catalano, La faticosa tristezza del poeta moderno. Saponaro critico drammatico e autore teatrale, in Michele Saponaro cinquant’anni dopo, cit., pp. 299-313; ora in Id., I cieli dell’avventura. Forme della letteratura in Puglia cit.,  pp. 55-72.

[51] M. Saponaro, Rassegna drammatica, in «Rivista d’Italia», I vol., fasc. I, 31 gennaio 1918, p. 91.

[52] Ivi, p. 92.

[53] Ibid.

[54] M. Saponaro, Rassegna drammatica, in «Rivista d’Italia», I vol., fasc. II, 28 febbraio 1919,  p. 230.

[55] Ibid.

[56] M. Saponaro, Rassegna drammatica, in «Rivista d’Italia», I vol.,  fasc. III, 15 marzo 1923, p. 376

[57] Ivi, p. 377.

[58] Ibid.

.

[59] Ibid.

[60] Di queste recensioni di Saponaro,  in A. Barbina, Bibliografia della critica pirandelliana,  Le Monnier, Firenze 1967,  figura però  soltanto quella relativa  a Ciascuno a suo modo.

[61] M. Saponaro, La vita che ti diedi. Tragedia in tre atti di L. Pirandello, in «La Sera», 15 gennaio 1924.

[62] Id.,. Ciascuno a suo modo. Commedia di Luigi Pirandello, in «La Sera», 24 maggio 1924.

[63] Id., Due in una. Commedia in tre atti di Luigi Pirandello, in «La Sera», 7 aprile 1926.

[64] Sulla fortuna critica di Pirandello  cfr.  G. Ferroni, Luigi Pirandello, in I classici italiani nella storia della critica. Da Fogazzaro a Moravia, vol. 3, La Nuova Italia,  Firenze 1977, pp. 57- 129.

[65] M. Saponaro, Il Teatro di Stato,  in «La Sera», 2 dicembre 1926.

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