“(…) La Rivoluzione egli [cioè padre Bresciani] l’ha studiata per le piazze, ne’ trivii, nei caffé, nelle gazzette, nelle sale degli oziosi (…). Il padre Bresciano qualifica tutti quasi i liberali di settarii, e tutti quasi i settarii di assassini. Eppure non teme egli, no, il pugnale del settario, egli non vi crede; teme il suo riso; è l’Europa liberale che lo sgomenta (…) Adunque, mi chiederà il lettore, che cosa è l’Ebreo da Verona? (…) E’ la rivoluzione rappresentata plebeamente, nuda di tutte le sue forze interiori di movimento e di resistenza. E’ la rivoluzione nella sola sua corteccia quale apparisce all’uom della plebe (…)[2]. Il lettore si rende conto che ci troviamo di fronte ad una vera e propria diffamazione, da parte di padre Bresciani, dei patrioti liberali del nostro Risorgimento. Ebbene Gramsci, per teorizzare il brescianismo nel suo primo momento di natura squisitamente politica, sviluppa proprio l’analogia tra gli scritti antiliberali di padre Bresciani della seconda metà dell’Ottocento e gli scritti che intorno al 1920 nella stampa occidentale furono di moda per diffamare i rivolzionari russi. Incidentalmente osserviamo che, se Gramsci recupera De Sanctis al di là di Croce, è perché egli considera la critica e la cultura del primo più progressiste, dal momento che il filosofo napoletano, astraendosi dalla lotta politica, risulta elemento riduttivo di vita e di vitalità etica.
Tornando al concetto di brescianismo, invitiamo il lettore a leggere gli articoli di Antonio Gramsci La Compagnia di Gesù e Viltà e leggerezza[3], e soprattutto Cronache, storie e false storie[4] e Muli bendati[5]. E’ significativo che questi scritti abbiano visto la luce nel 1920, l’anno in cui venne definita l’applicazione delle clausole del Trattato di pace dopo la prima guerra mondiale, quando l’Europa trovò un assetto politico diverso rispetto all’inizio del secolo, ed ogni nazione del nostro continente consolidò al suo interno nuove stratificazioni sociali. Questi scritti, difatti, sono tutti traversati da una sola idea, da una sola verità: nei momenti decisivi, allorché nella realtà effettiva prima che nel diritto avviene il trasferimento del potere sociale da una classe all’altra, appaiono categorie umane che hanno come tipi il padre Bresciani, il quale vede nei liberali dei briganti libertini. La casistica presenta l’imbarazzo della scelta. Un nuovo padre Bresciani, per esempio, può essere considerato Filippo Turati che scrive una prefazione denigratoria del potere sovietico al volume La Russia com’è di Gregorio Nofri e Fernando Pozzani, i quali hanno fatto parte a Mosca della delegazione socialista italiana al II congresso dell’Internazionale comunista, ed al ritorno hanno iniziato, in coerenza col riformismo italiano di tutti i tempi, una campagna violentemente diffamatoria della Russia ed antisovietica. Per continuare l’esemplificazione, sulla stessa linea ancora si muove l’anonimno scrittore de La Stampa (forse Arturo Cappa?) il quale nel 1920 raccoglie e coordina da fonti ufficiali bolsceviche singole notizie vere e ne confeziona una falsa, dalla quale deve risultare rovina, miseria ed arretramento della classe operaia in Russia e sfacelo di quell’apparato industriale, ma si fa di tutto per non parlare del “sabato comunista”, cioè della istituzione in virtù della quale la classe operaia si impone spontaneamente una giornata senza lavoro, al fine di rafforzare lo Stato e il governo bolscevici.
Intanto dal 1928 al 1933, come si deduce dai Quaderni del carcere nella ricostruzione filologica di Valentino Gerratana[6], Gramsci ripensa con maggiore distacco nella solitudine della cella alla categoria del brescianismo e la estende alla sfera della letteratura mediante spunti, idee ed avviamenti che sin dalla prima edizione einaudiana delle sue opere sono stati sistemati in una sezione intitolata I nipotini di padre Bresciani[7].
Le sparse note gramsciane danno così vita ad un brescianismo che ci sembra giusto qualificare letterario. Esso rivela il carattere tendenzioso e propagandistico di una certa letteratura del nostro Novecento, e precisamente di quella conosciuta come buona stampa, fatta dalla schiuma del perbenismo e del benpensantismo nazionali. E una letteratura che non aiuta l’uomo a comprendere il proprio valore storico, la propria funzione nella vita, i propri diritti e i propri doveri, perché non è stata preceduta da un intenso lavorio di critica e di penetrazione culturale e di permeazione di idee. Il suo carattere più spiccato è un’appariscente vena tra gesuitica e retorica.
Il paradigma più rappresentativo di essa è Ugo Oietti, il quale, subito dopo il Concordato dell’11 febbraio 1929 ed i Patti Lateranensi, e precisamente il 9 marzo di quell’anno, scrive una Lettera al rev. padre Enrico Rosa, riportata il 6 aprile su “Civiltà Cattolica” di cui il Rosa medesimo è il direttore, al fine di riconfermare la propria “appartenenza a famiglia papalina, il battesimo nella chiesa gesuitica, l’educazione gesuitica, l’idillio culturale di queste scuole, i gesuiti soli o quasi soli rappresentanti della cultura nazionale, la lettura della “Civiltà Cattolica” ed il padre Rosa come vecchia e propria guida spirituale”. Non manca insomma niente del tradizionale gesuitismo seicentesco del padre Segneri. La vita di Ugo Oietti diventa davvero un esempio predicabile.
Ed ecco Alfredo Panzini, i cui scritti fra nazionali a patriottici e specialmente La vita di Cavour, si possono qualificare come modello di brescianismo laico. Nell’opera citata viene esaltata la tradizione militare del Piemonte e della sua aristocrazia. E Gramsci annota rapidamente: “(…) in Piemonte esisteva una tradizione militare “popolare”, dalla sua popolazione era sempre possibile trarre un buon esercito, apparvero di tanto in tanto capacità militari di prim’ordine, come Emanuele Filiberto, Carlo Emanuele, ecc., ma mancò appunto una tradizione, una continuità nell’aristocrazia, nell’ufficialità superiore. La situazione fu aggravata dalla restaurazione e la prova se ne ebbe nel ’48 quando non si sapeva dove mettere le mani per dare un capo all’esercito e dopo aver domandato invano un generale alla Francia si finì con l’assumere un minchione qualsiasi di polacco (…)“[8]. E’ chiara l’allusione al generale Chzarnowsky, capo dell’esercito sardo, la cui sconfitta a Novara il 23 marzo 1849 è stata dalla storiografia ufficiale giustificata in modo ed a scopo accomodante col pretesto della incomprensione della lingua. E dopo Panzini, Giovanni Papini.
Le osservazioni rapide ed acute di Gramsci riguardano il libro papiniano su Sant’Agostino. Vi si riscontra un’untuosa tendenza al seicentismo che ha fatto parlare di una conversione di Papini non al cristianesimo, ma propriamente al gesuitismo. Gramsci postilla così: “(…) (si può dire, del resto, che il gesuitismo, col suo culto del Papa e l’organizzazione di un impero assoluto spirituale è la fase più recente del cristianesimo cattolico) (…)“[9].
Lo scrittore con cui il brescianismo diventa veramente una forma pedantesca di ipocrisia intellettuale è Giuseppe Prezzolini. Questi nel settembre 1922, quando ancora il fascismo non è giunto al potere, ma non vi è dubbio che vi giungerà, perseverando nel compito di moralista volto a rinnovare la cultura italiana, scrive a Piero Gobetti una lettera Per una società degli Apoti, cioè di coloro che non la bevono, prospettando il compito dell’intellettuale “(…) di chiarire delle idee, di far risaltare dei valori, di salvare, sopra le lotte, un patrimonio ideale, perché possa tornare a dar frutti nei tempi futuri (…). Prezzolini, in altri termini, delega all’intellettuale il compito di farsi storico del presente[10]. Gobetti gli risponde da par suo: “(…) di fronte ad un fascismo che con la abolizione della libertà di voto e di stampa volesse soffocare i germi della nostra azione, formeremo bene, non la Congregazione degli Apoti, ma la Compagnia della Morte (…)[11]“.
Oltre a quello di Gobetti, registriamo ancora un intervento di Augusto Monti, il maestro dell’antifascismo torinese, il quale propone anch’egli una società, in risposta a Prezzolini, e precisamente l’ordine dei nuovi Scolopi, che debba battersi, tra l’altro, perché il popolo come classe abbia una sua scuola, “(…) e non più la scuola che piglia il figlio del contadino, il figlio dell’operaio e te lo trasforma in borghese o in aspirante impiegato: ma la scuola che del piccolo contadino e del piccolo operaio faccia un migliore contadino, un migliore operaio, capace di ogni elevamento e di ogni fortuna, ma sempre contadino, sempre operaio, sempre se medesimo (…)”[12].
A distanza di cinquant’anni Prezzolini insiste nel suo sofistico gesuitismo partigiano e, mettendo a profitto il pretesto che egli ha espresso il suo disimpegno politico prima dell’avvento al potere del fascismo, pubblica il suo carteggio con Gobetti[13], al fine di rivendicare ed accreditare la coerenza del proprio atteggiamento. Noi però sappiamo che, alla lunga, il migliore è stato Gobetti che è morto nel 1926 senza mai smentire la sua fede in una vittoria dello spirito democratico, mentre Prezzolini, proprio rifiutando consapevolmente il sacrificio, ha aiutato col suo atteggiamento la realtà fascista ad affermarsi. Noi non vogliamo valutare il disimpegno politico di Prezzolini come una vigliaccheria morale e civile, e tuttavia riteniamo di doverlo considerare un agnosticismo che si delinea come la forma peggiore del brescianismo teorizzato da Gramsci. Con la proposta prezzoliniana di una Società degli Apoti giunge a perfezione un tipo di letterato che nel 1922 è già presente da tre anni nella nostra società letteraria, il letterato teorizzato dai rondisti, i quali, sin dal 1919 si sono fatti difensori della decenza contro il mugghiare del popolo e ritengono di essere gelosi protettori di un olimpo spirituale contro la storia che avventa i suoi attacchi e turba gli dei. Non dimentichi il lettore che nel settembre del 1920, quando a Torino vengono occupate le fabbriche e si attua il primo esperimento sovietico della storia italiana contemporanea, “La Ronda”, indotta a varcare i confini della letteratura ed a concedere nelle sue pagine maggiore spazio alla politica, si schiera su posizioni giolittiane e dedica una minima attenzione agli avvenimenti di quel mese, mentre Gobetti vive tutta intera quell’esperienza tanto che il suo unitarismo lo spinge ad affermare: “(…) La democrazia demagogica è diventata il fascismo sommandosi con il dannunzianesimo. Nessuno storico non esaltato riuscirà a scorgere delle differenze sostanziali tra Mussolini e Giolitti (…)”[14].
Non si tratta di due scelte diverse della borghesia intellettuale italiana al declinare degli anni Venti o di opposte connotazioni di geografia spirituale: una Roma sonnolenta, burocratica ed archeologica, simboleggiata da Cardarelli e “La Ronda”, ed una Torino aperta alle esperienze più mature della classe operaia italiana, quella di Gobetti e dei suoi lieviti morali; si tratta invece di due atteggiamenti verso la letteratura e verso la vita. Il letterato dei rondisti e degli Apoti, difatti, prefigura quel modello di comportamento che prende corpo durante il fascismo ad opera dell’intellettuale che non si compromette, che si salva per il bene proprio e quello degli altri, ed accetta il fatto compiuto. L’intellettuale, insomma, alla Prezzolini.
Gramsci con la categoria del brescianismo vuole esprimere propria la condanna di tale inerzia del dotto. Colui che si professa apolitico, difatti, è soltanto un retore, un disertore, un complice del tiranno o di chi aspira a diventarlo. I valori della cultura non può pretendere di salvarli il letterato che accetta le cose già fatte, ma li conserva e li arricchisce con consapevolezza storica e fermezza morale chi fa sacrificio di sé come Gramsmi e come Gobetti. Gramsci con la teoria del brescianismo non ha voluto bollare soltanto chi, in tempi in cui hanno operato i tribunali speciali, ha rinunciato all’impegno civile ed è rimasto chiuso nel suo orto letterario, ma anche il letterato che, col pretesto di mettersi al di sopra della mischia, riproduce l’antico difetto della nostra cultura letteraria, cioè la frattura tra l’arte e la vita. Dopo il brescianismo, Gramsci scoprirà e teorizzerà l’altra categoria culturale del lorianismo, e solo allora fisserà la dottrina del nazionale-popolare nella nostra letteratura. Ma già da ora sono chiari i connotati ideologici che consentono ai nostri lettori di individuare gli intellettuali italiani che meritano la qualifica di nipotini di padre Bresciani.
[“Brescianesimo” politico e letterario da De Sanctis a Gramsci, in “Il Corriere di Galatina”, Anno III N. 5 – 6 maggio 1976, pp. 3 e 4.]
Note
[1] In F. De Sanctis, Saggi critici, I, Laterza, Bari 1952, pp. 44-70.
[2] Ibidem, pp. 45, 49 e 64.
[3] in A. Gramsci, L’Ordine Nuovo (1919-1920), Einaudi, Torino 1955, rispettivamente pp. 347-349 e 416-419.
[4] in A. Gramsci, Sotto la Mole, Einaudi, Torino 1960, pp. 488-490.
[5] in A. Gramsci, Socialismo e fascismo, Einaudi, Torino 1971, pp. 36-39.
[6] Edita da Einaudi, Torino 1975. E’ l’edizione critica dell’Istituto Gramsci.
[7] Cfr. A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, Einaudi, Torino 1954, pp. 145-183.
[8] Cfr. A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, cit., p. 156.
[9] A. Gramsci, Letteratura e vita nazionale, cit., p. 163.
[10] Cfr. “La Rivoluzione liberale” del 28 settembre 1922, poi in Gobetti e la “Voce”, Sansoni, Firenze 1971, p. 58.
[11] “La Rivoluzione liberale ” del 25 ottobre 1922.
[12] Cfr. Augusto Monti, Lettere scolastiche a Piero Gobetti, in “La Rivoluzione liberale”, anno III, 1923: I) Scuola libera e riforma scolastica (n. 6); II) Dalla scuola dell'”orator” alla scuola del Citojen (n. 7); III) La scuola dei padroni e la scuola dei servi (n. 8); IV) Esiodo, il maestro del villaggio (n. 10); V) La scuola del popolo (n. 11). Questi articoli, che peraltro indicano sin dal titolo, come il lettore può constatare, il rimedio che avrebbe potuto evitare il dramma angoscioso della gioventù contemporanea, sono ora rifusi in Augusto Monti, I miei conti con la scuola, Einaudi, Torino 1965. Il brano citato è a p. 368.
[13] Cfr. Gobetti e la “Voce”, cit., p. 217.
[14] P. Gobetti, Lo storicismo di un mistico, Postilla. “La Rivoluzione liberale”, 7 dicembre 1922.