Gramsci e dintorni 1. “Brescianesimo” politico e letterario da De Sanctis a Gramsci

di Giuseppe Virgilio

Vogliamo fissare in alcune note la genesi di una categoria culturale diffusa più di quanto si crede nel mondo intellettuale italiano, e tuttavia inosservata o tenuta in non cale da molti o con incoscienza praticata dai più per arroganza di spirito e di mente: il brescianismo. Esso consiste in un processo di assoluta incomprensione della storia contemporanea e in una forma di maramaldismo intellettuale.  Di solito  si manifesta in ogni periodo storico di lotta e di profonda trasformazione sociale, ad opera di coloro che credono di comprendere lo sviluppo storico generale e i sentimenti e le volontà reali che lo sostengono, ed invece non comprendono niente di quanto accade sotto i loro occhi e mirano ad accreditare la propria tesi mediante l’ambigua velleità di rinnovare la vita nazionale senza tener conto delle nuove forze sociali.

Dobbiamo la denominazione di brescianismo ad Antonio Gramsci che, analizzando il saggio di Francesco De Sanctis su L’Ebreo da Verona del gesuita padre Antonio Bresciani (apparso nel febbraio 1855 nel Cimento, V, Torino, pp. 302-323[1]) dal cognome dell’autore ricava l’epigrafico nome che resterà emblematico della sua incessante critica contro la tradizione intellettuale italiana: appunto il brescianismo.

Padre Bresciani nella sua opera L’Ebreo da Verona raccoglie e coordina notizie sulla tradizione liberale italiana  tratte dai giornali dei gesuiti, nemici dei liberali. Digiuno, com’egli è, di storia e di filosofia,  non possiede lo strumento di ricerca che è il metodo storico. E perciò il De Sanctis può scrivere:

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