Ecco, Leopardi. Uno che a vent’anni aveva letto un oceano di libri. A un certo punto dello Zibaldone scrive d’essersi accorto “ che la lettura de’ libri non ha veramente prodotto in me né effetti o sentimenti che non avessi, né anche verun effetto di questi, che senza esse letture non avesse dovuto nascer da sé:ma pure gli ha accelerati, e fatti sviluppare più presto, in somma sapendo io dove quel tale affetto moto sentimento ch’io provava, doveva andare a finire, quantunque lasciassi intieramente fare alla natura, nondimeno trovando la strada come aperta, correvo per quella più speditamente”.
Probabilmente è davvero così: ogni uomo ha già tutti i sentimenti, forse anche tutte le passioni; ha già sensazioni, percezioni, emozioni, sogni, suggestioni, quello che appartiene all’istinto. al sangue, alla natura. Ha anche cognizioni e visioni della vita. Forse confuse, però. La lettura le armonizza, le dispiega, le organizza in categorie, le dispone in una rete di relazioni, ne sviluppa le prospettive. Allora non si vede soltanto la propria esistenza, la propria storia, non si ha confronto soltanto con la propria memoria, con le creature che si sono conosciute, con i luoghi che si sono abitati, ma lo sguardo arriva più lontano, fino alle cose e agli esseri mai conosciuti. Si scopre l’altro da sé; si rivela un universo sconfinato, nel quale ci sono tutte le storie e tutti i destini possibili, tutti i volti e tutte le voci, tutti i vivi e tutti i morti, e i paesi, e le verità, le finzioni, il bene, il male, la felicità, il dolore, tutte le meraviglie e tutte le paure, tutte le disperazioni e tutte le speranze, tutta la saggezza e la stoltezza delmondo.
Forse almeno una volta, una sola volta nella vita, è capitato a ogni uomo, a ogni donna, di lasciarsi portare via da una lettura: un romanzo, un reportage, una poesia di quattro versi. Forse almeno una volta avrà avvertito la sensazione che gli altri si siano allontanati tutti, di essere rimasto solo in una stanza, sulla panchina di un viale, nella sala d’aspetto di una stazione, solo dentro il paesaggio di quel libro, di quel reportage, solo con i personaggi che raccontano la loro storia, solo con le parole di quella poesia da cui flottano immagini, pensieri, colori.
E’ bella, quella solitudine: a condizione che duri poco, che dopo ricominci il brusio delle voci, l’ansioso andirivieni, il frastuono della giostra, il salto degli ostacoli, l’affanno del giorno. Ma per il tempo che è durata la lettura, si è stati in un posto dove gli altri non sono stati mai, nemmeno se hanno letto la stessa pagina, lo stesso verso, perché hanno letto in un modo diverso, in un’altra situazione, per un altro bisogno.
Ciascuno ha letto soltanto in compagnia di se stesso, e il se stesso è sempre diverso da ogni altro sé. Lo diceva Proust che in fondo si legge sempre e soltanto se stessi e che un libro è soltanto uno strumento che permette al lettore di scoprire in se stesso quello che senza un libro non avrebbe mai scoperto.
Ci sono uomini, ci sono donne, che aspettano la sera quando in casa tutti si addormentano, per mettersi sul divano con le gambe stese sul tavolino e un libro tra le mani: qualche pagina, anche una, e la casa diventa una spiaggia d’inverno, un treno nella notte, una foresta. Ci sono pendolari che nella calca dell’autobus del mattino, aprono alla pagina dove c’è il segnalibro e fanno, ogni mattino, un loro viaggio segreto.
Ci sono ragazze, ci sono ragazzi, che sognano con gli occhi aperti sui versi di Pavese o di Jacques Prévert, magari mentre l’insegnante sta cercando disperatamente di spiegare che cosa sono gli asintoti o di rivelare la simbologia delle tre fiere dantesche.
I libri a volte sono luoghi di rifugio.
Racconta Machiavelli nella lettera a Francesco Vettori che dopo essersi ingaglioffato nell’osteria con l’oste stesso e un beccaio, un mugnaio e due fornaciai, giocando a cricca e a tricche trach, ritorna a casa e nello scrittoio si abbandona all’incantamento dei libri, e per quattro ore , dice, “sdimentico” (un verbo bellissimo, che dà concretamente il senso dell’oblio) “ogni affanno, non temo la povertà; non mi sbigottisce la morte”.
Altre volte i libri rassomigliano a quelle barchette di carta che si costruiscono da bambini, quelle che si affidano a un rivolo di pioggia che scorre lungo il marciapiede, e che si guarda andare via finchè non spariscono a una svolta, mentre si immagina che siano velieri magici che portano verso terre meravigliose e sconosciute.
Ciascuno di noi, almeno una volta, in un suo pomeriggio di bambino, ha lasciato per qualche minuto i compiti di scuola per costruire una barchetta di carta mentre la pioggia batteva sui vetri della finestra.
Quando prende un libro, certe volte, fa la stessa cosa: lascia per un poco i compiti di quel giorno e s’imbarca sul veliero che lo porta per mari tranquilli, con la certezza che al ritorno quel viaggio gli servirà a fare meglio i compiti.
Passiamo accanto ad essi evitando di guardarli, con un senso di colpa o di disagio, con l’impressione che ci rimproverino perché li trascuriamo, con una sensazione di malinconia velata.
Uno vicino all’altro, uno sopra l’altro, vivono un’attesa senz’ansia, rassegnata, forse mortificata dalla nostra noncuranza, forse consolata dal rammarico che proviamo.
I libri che non abbiamo letto, che forse non leggeremo mai, sono come un debito che non si paga, sono un rimpianto che rimane inconsolato, una peccato che talvolta confessiamo a noi stessi, agli altri, per illuderci di una pietosa remissione.
Quel libro che un giorno abbiamo appena sfogliato, di cui abbiamo spiato il principio o la fine,di cui abbiamo intravisto distrattamente un personaggio, come dalla finestra si guarda un passante, quell’altro che non abbiamo avuto il tempo nemmeno di aprire, sono la nostra pena silenziosa, a volte anche un motivo di inconsapevole tristezza.
Allora si vorrebbe avere di nuovo quindici anni, e certi pomeriggi d’estate, o certe sere d’inverno piovose, per rifugiarsi in un angolo e attraversare le pagine come se fossero foreste sterminate, passo dopo passo, parola per parola, senza nessuna fretta, senza l’affanno di concludere, senza l’assillo di un compito da fare.
Forse si legge davvero solo a quell’età, e poi basta. Forse si fanno solo a quell’età le letture che induriscono le ossa, strutturano il pensiero, spalancano i nostri occhi sull’universo, che maturano il sentimenti e le ragioni, che accendono sogni.
Se non si è letto Dostoevskij fino ai sedici anni, se non si è letto Kafka e Joyce e Proust, se non si è letta l’Antologia di Spoon River, Il deserto dei Tartari, Il Gattopardo, probabilmente non si avrà modo di leggerli mai più.
Perché dopo quell’età la giostra della vita comincia a sballottolarti come un tagadà; scompaiono gli angoli in cui puoi rifugiarti, gli spazi si fanno sempre più affollati, i richiami sempre più prepotenti.
Allora i libri che non hai letto cominciano a inquietarti: prima un’inquietudine sottile, giocosa quasi; poi si fa insistente,insolente, sfacciata. Più passano gli anni e più diventa aggressiva.
Si impasta con il rincrescimento, il pentimento. Con il disappunto per il tempo che manca.
I libri non letti sono come le storie che avresti voluto vivere e non hai vissuto. Eppure sarebbe stato possibile. Sarebbe bastato cominciare. Lasciare da parte altre cose che non sono essenziali. In fondo le cose essenziali non sono poi tante. Sarebbe bastato restare un minuto da soli. Dirsi che ne valeva la pena. Che si poteva anche evitare di uscire una sera. Che si poteva scappare in campagna o vicino al mare. O semplicemente chiudersi a chiave in una stanza. Avvertire tutti gli altri che per un po’ non ci sei, che devi fare qualcosa di molto importante.
Ma tutti i libri non si possono leggere, come non si possono vivere tutte le storie, per fortuna. Però ci sono libri e ci sono storie che fanno la differenza, che mutano il modo di pensare il mondo, di considerare la vita. Che restano per sempre dentro. Che non si dimenticano, comunque vada. Allora, probabilmente, bisogna leggere quei libri, vivere quelle storie che non hanno alternativa, non si possono compensare.
Perché ogni libro non letto è una storia impedita e ogni storia impedita un’emozione contratta e le emozioni contratte sono quelle che lasciano ferite che non guariscono mai.
[Scritto in occasione della Festa dei Lettori, il 28 settembre 2012]