Marcello Buttazzo, custode del Bello

I temi che si scorgono nei testi dell’opera sono antichi ma – si badi bene – né scontati né ripetitivi: si parte sin da subito dall’esaltazione della vita di cui viene messo in evidenza ogni peculiare aspetto, dalla fugacità alla fragilità, dal suo movimento eterno alla sua straordinaria e fanciullesca bellezza che la rendono, in maniera incontrovertibile, divina. È tutto un battagliare, un fremere, un desiderare; ogni cosa è come un’onda che non arresta mai il suo scontro con la battigia ma, in fondo, spera di arenarsi delicatamente su un lido che sappia custodirla. Questo è ciò cui anela l’io lirico di Buttazzo che tende sempre al bene, all’appagamento dei sensi da realizzarsi in una vibrante sospensione fra estatica sensualità e ingenua semplicità. Il poeta concede al lettore un dono divenuto oramai rarissimo, quale la lentezza, la lentezza di osservare il mondo, di catturare i più piccoli dettagli, di tornare su di sé e sulla propria coscienza, mettendo da parte la frenesia contemporanea e la pesantezza dei giorni, depurando i ricordi dal buio al fine di esaltare la magica vena nostalgica di cui inevitabilmente sono carichi.

Saper aspettare, proiettarsi sul futuro, ricercare con attenzione, imparare a cogliere i segni che si incontrano sulla strada della vita, ascoltare i cuori, restare smarriti nell’incanto dei mattini, mettere a tacere il dolore, sospendere il tempo, nutrirsi avidamente di emozioni: questi sono solo alcuni degli imperativi morali suggeriti dal poeta al fine di «non sfiorire», «per non morire» (p. 17).

Buttazzo, in linea con la più nobile poesia simbolista, coglie innumerevoli e inedite corrispondenze fra le cose, ascolta i colori del mondo circostante e, grazie a una fremente immaginazione che gli è intimamente propria, riesce ad assaporare anche il gusto delle esperienze non vissute, di ciò che non è accaduto, di quello che è destinato a rimanere inappagabile desiderio e pertanto, paradossalmente, ricordo incorruttibile. Nella bipolarità dell’esistenza, l’io poetico è pronto a indagare ogni sentiero, a tuffarsi a capofitto in tutti i sentimenti che nell’uomo possono nascere, ad andare coraggiosamente «oltre i deserti dell’insoddisfazione» (p. 25), alla scoperta di tutto quanto può far aumentare le proprie palpitazioni. Non poteva, infatti, mancare il tema dell’amore, filo rosso di ogni parola del poeta, cantore dell’emozione più forte, impetuosa, sfaccettata, ambivalente, che possa esistere, quel motore primo capace di ribaltare le prospettive e di aprire sempre nuovi orizzonti. L’amore è un’esperienza totalizzante in tutta la produzione poetica di Buttazzo che comprende e studia quasi analiticamente – non sarebbe azzardato, infatti, definire il nostro poeta uno scienziato dell’anima, che non può permettersi che qualcosa sfugga al suo occhio attento – questo sentimento, fino a dipingerlo in tutte le sue sfumature.

Il cromatismo, il frequente ricorso all’analogia, l’utilizzo straordinario di metafore e similitudini, le personificazioni, le sinestesie, la ricchezza di fiori e di vegetazione, le immagini incantevoli e dalla commovente delicatezza (come ad esempio: le «stelle ferite», p. 22; le «foglie di ruggine», p. 24; l’«anima di giglio», p. 61), che solo una penna sensibile ed esperta possono imprimere su carta, smarriscono il lettore, risucchiandolo in una spirale di bellezza e di utopica speranza, facendolo riappropriare del vigore della giovinezza e donandogli, infine, l’illusione che «un’altra vita / è possibile» (p. 41).

Erede a pieno titolo della migliore tradizione lirica italiana, Buttazzo, con questa sua recente pubblicazione, conferma la sua maestria e la sua voglia di non rimanere «ai bordi del mondo / con l’anima in spalle» (ibid.), per poter innalzare i suoi fascinosi versi che, col tempo, stanno conquistando un posto di grande rilievo nello scenario poetico contemporaneo. Tra il sacro e il profano, nella raccolta Nei tuoi arcobaleni, Marcello Buttazzo costruisce un vero e proprio monumento in onore della poesia e rinnova la fede in un culto che non ha confini né spaziali né temporali, divenendo egli stesso ‘custode’ della bellezza purissima della scrittura, o meglio, ispirandoci alle sue parole, ‘sacerdote del bello e del tempo’.

S’aggruma di dolcezza

il tuo sguardo di sacerdotessa del bello.

S’ammassano foglie di ruggine

cadute nel pomeridiano giardino del malcontento,

s’apre la ferita

che mi smembrò l’anima.

Ma quando la sera

si veste d’organza,

il tuo sguardo di donna

mi riappacifica con Dio

e mi toglie le spine profonde.

Ti vedo

che carezzi lentamente

il tuo bimbo saltellante.

Ti vedo

nel tuo scialle di cielo

che apparigli le anime riottose.

S’aggruma

il tuo bel viso

di sacerdotessa del tempo,

che misurò ogni attimo

in una benedetta fragilità

di spazi alteri.

(in M. BUTTAZZO, Nei tuoi arcobaleni… e altre poesie, Sannicola, I Quaderni del Bardo, 2019, p. 24).

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