Di mestiere faccio il linguista 21. L’antilingua

Siamo in Salento. Roberto Costanzo, bravissimo medico ed esperto di araldica, richiama la mia attenzione su un cartello collocato all’«incrocio semaforizzato» della strada Lecce-Melendugno, secondo bivio per Vernole; una scritta avverte gli automobilisti che si tratta di «strada ad alto tasso di incidentabilità». In nessun vocabolario trovo attestata la parola «incidentabilità» che, nelle intenzioni di chi ha redatto quel cartello significherà verosimilmente ‘rischio di incidenti stradali’ e l’espressione  «alto tasso di incidentabilità» significherà ‘forte rischio di incidenti stradali’. Pensando di dare autorevolezza alle proprie parole, chi ha scritto quel cartello ha adattato al proprio caso espressioni come «tasso di mortalità», «tasso di natalità», «tasso di occupazione», ecc. (assunte come modello per il loro aspetto tecnico, e quindi autorevole); inoltre ha coniato un inesistente «incidentabilità», forse a partire da «incidentalità» ‘frequenza degli incidenti o numero degli incidenti commisurato al numero di veicoli circolanti’ (secondo la definizione che ne dà il vocabolario) o forse aggiungendo al rarissimo aggettivo «incidentabile» ‘esposto a rischio di incidente’ il suffisso «-ità» che ricorre in sostantivi astratti  (come attività da attivo, brevità da breve, obesità da obeso). Resta la domanda. Perché l’autore di quel cartello si è inventato una frase intrisa di tecnicismi e di parole inventate? Per abitudine e per superficialità. Si serve di una inesistente antilingua (come scrisse Calvino in un articolo famoso) perché pensa che così facendo conferisce autorevolezza e credibilità alle sue parole. Ma si sbaglia. Non ne risulta affetto solo lui, il fenomeno raggiunge anche chi si occupa professionalmente della lingua. L’antilingua consiste nel ricorrere a parole che sembrano solenni, più elaborate rispetto all’uso corrente, che per questo appaiono preferibili. Ma è vero esattamente il contrario. Sforziamoci sempre di usare parole facili e comprensibili, la comunicazione migliora. Il redattore di quel cartello avrebbe fatto meglio a scrivere: «Serio rischio di incidenti, andate piano!». Gli automobilisti avrebbero capito, e magari accettato il consiglio..

A proposito di parole che colpiscono. Luca Passani, informatico italiano che vive in Virginia, autore di articoli in lingua italiana per il giornale «La voce di New York», mi manda la foto di un cartello pubblicitario per la vendita di televisori su cui è scritto:  «20% di sconto su tutti i televisori di qualsiasi polliciaggio». Con il commento: «quando la lingua evolve… meglio scansarsi». Ignoro chi sia lo sciagurato inventore del messaggio, né se la scritta abbia fatto aumentare le vendite. Nonostante le apparenze, polliciaggio non è una parola inventata, esiste nell’italiano almeno dal 2012. In un sito si chiedono «delucidazioni in merito al termine polliciaggio»; qualcuno spiega che il termine, utilizzato dagli addetti del settore, significa ‘dimensione della diagonale dello schermo in pollici’, in sostanza indica le dimensioni in pollici di un monitor. Applicando a pollici il suffisso -aggio (che troviamo in parole italiane come coraggio, linguaggio, vantaggio). Un linguista dovrebbe restare neutrale e descrivere quello che succede nel lessico di una lingua senza giudicare e senza proscrivere: deve agire da osservatore, non da terapeuta. Ma per una volta mi sbilancio. Speriamo che quel mostriciattolo, nato nel gergo dei venditori, a volte recuperato anche dai clienti per la larga diffusione degli oggetti misurati in pollici, resti ai margini della lingua. La maggioranza dei parlanti continui a usare parole come “dimensione”, “larghezza” o “ampiezza” dello schermo.

Carlo Sempi, matematico plurilingue, innamorato della lingua italiana, mi segnala il seguente episodio. Durante un esame, un professore scrive un’equazione alla lavagna e, di fronte al silenzio della studentessa che non sa cosa fare, suggerisce  «Scindi l’equazione» ‘dividi, separa l’equazione’ (una precisa operazione matematica che dovrebbe aiutare la candidata a risolvere il problema). La ragazza resta ancora perplessa, ma poi ha un lampo di genio: cancella l’equazione scritta dal professore e la trascrive tale e quale più in basso.  Ha interpretato il verbo «scindi» del suggerimento secondo il suo dialetto: «scindi» significa per lei ‘scendi’, ‘porta giù’, come nelle frasi «scendi la bambina in giardino»,  «scendi la spesa alla mamma che è in strada». E quindi ha trascritto più in basso sulla lavagna l’equazione che dovrebbe analizzare. Nell’italiano regionale di Campania, Puglia, Sicilia, è frequente l’uso transitivo dei verbi di movimento «entrare», «uscire», «salire», «scendere» in frasi come  «entra i panni stesi ad asciugare che comincia a piovere; esci la carne dal frigo; salimi la spesa; scendi la bambina in giardino». Per quanto piuttosto frequente, quest’uso non rientra nella norma della lingua e pertanto è bene evitarlo, per lo meno in contesti formali. Il verbo, dialettizzato ed equivocato, non aiuta all’esame.

Chiudo con una precisazione. Quest’articolo non vuole essere una raccolta di sciocchezze, raccolte per ridere alle spalle di chi sbaglia. È solo un invito a riflettere su quello che ascoltiamo o leggiamo, allo scopo di essere consapevoli della bellezza della nostra lingua, nella quale ci identifichiamo, perché appartiene a tutti noi. La lingua rappresenta una ricchezza inestimabile, fattore primario dell’identità nazionale, specchio e sedimentazione della nostra cultura come si è sviluppata nel corso dei secoli, generazione dopo generazione. Amiamola e trattiamola bene.

                                             [“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 27 febbraio 2022]                      

Questa voce è stata pubblicata in Di mestiere faccio il linguista (quinta serie) di Rosario Coluccia, Linguistica e contrassegnata con . Contrassegna il permalink.

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