Cesare Giulio Viola poeta (Parte seconda): Le composizioni disperse; L’altro volto che ride

            Anche Il fauno innamorato, composto a Napoli nel marzo del 1906, è ispirato all’antichità classica e ai suoi miti e conferma quel revival del classicismo nella lirica meridionale del tempo, a cui fa riferimento la Villa anche a proposito di un altro poeta del cenacolo romano, Giuseppe Piazza[5]. D’altra parte figure mitologiche, come fauni, centauri, ninfe e satiri, sono presenti in questi anni  anche nelle liriche di altri componenti della cerchia crepuscolare, come Marrone[6], Alfredo Tusti[7], Pietro Sgabelloni[8], oltre che in d’Annunzio[9], Giuseppe Lipparini[10] e nello stesso Viola, come vedremo. Questa poesia, composta da quattro sonetti, sviluppa il tema di un fauno che si innamora della luna e si inerpica sulla montagna per cantarle ogni notte la serenata. Ma quando essa nella fase del novilunio non spunta più, il fauno, preso da disperazione, impazzisce e, dopo averne atteso inutilmente l’apparizione, all’alba precipita per il monte e muore. Così Viola descrive la fine del fauno nelle terzine dell’ultimo sonetto:

            Tentò, contro il crepuscolo viola,

vibrar l’estremo canto, ma si tacque,

vinto, disfatto in volto, arsa la gola.

E attese curvo, come tronco torto

da la tempesta, intento… L’alba nacque,

ed egli ruzzolò, pel monte, morto![11]

            In un’altra composizione, Minuetto, si assiste invece a una sorta di attualizzazione in chiave ironica di un topos  poetico del tempo, come la moda del Settecento. E anche qui il motivo delle maschere, nonché quello delle danze, e in particolare del «minuetto», riporta immediatamente a Marrone e alle sue Carnascialate, che è stato definito «uno dei repertori più solidi del crepuscolarismo»[12], oltre che a Govoni e Corazzini:

            ― O mia bella damina ―

   inchinandosi, ha detto

   Pierrot a Colombina

   ― il cielo è puro e schietto,

            la sera già declina,

   io canterò in falsetto,

   dammi la tua manina,

   danziamo il Minuetto! ―

            Così, nel passo lento,

   han finto il settecento,

   svenevoli, con dolci occhi di triglia[13].

            Ma, pazzi innamorati,

   dopo un giro annoiati,

   si son messi a ballare la quadriglia![14]

             Nelle altre tre liriche, Colloquio, La barca e L’ombra [15], affiora invece una vena diversa, più autentica e originale. Non a caso esse entreranno a far parte, con numerose varianti, della raccolta del 1909 e  per questo se ne parlerà più avanti. Ciò che preme far notare, fin da ora, è il rifiuto da parte di Viola delle forme metriche tradizionali, in linea, e anzi per certi aspetti in anticipo, con le tendenze più avanzate del cenacolo romano. Le prime due, Colloquio e La barca, sono infatti composizioni «in metro libero», come le definisce lo stesso autore. E qui non può non risaltare una significativa coincidenza, ancora una volta, con il titolo di un articolo di Marrone, Il metro libero, uscito, peraltro successivamente, su «La Vita Letteraria»[16], nel quale l’autore «suggeriva di appunto di non parlar più di verso libero bensì di metro, giacché è impossibile che il primo possa essere totalmente libero senza sconfinare nella prosa»[17]. Esse sono suddivise in strofe composte da versi di differente misura (non più lunghi però dell’endecasillabo). Nella terza, L’ombra, l’autore va ancora più in là  sperimentando, tra i primi in Italia, il verso lungo, che in taluni casi arriva fino a venticinque sillabe[18].

            Nel 1907 Viola collaborò anche a «La Vita Letteraria», la rivista diretta da Armando Granelli, sulle cui pagine confluirono «gran parte dei nomi del crepuscolarismo romano, seppure per lo più sporadicamente» e, in particolare, «i nomi degli appartenenti alla cerchia corazziniana e gli allievi di De Gubernatis»[19]. Qui vi pubblicò una sua composizione poetica, Colloquio, con alcune varianti rispetto alla versione uscita nel novembre 1905 su «La Democrazia» e con l’impiego del verso lungo[20], nonché un articolo-recensione alle Poesie di Salvatore Di Giacomo, allora appena apparse presso l’editore Riccardo Ricciardi di Napoli. Da un controllo delle annate della rivista, da noi effettuato, non risulta invece che Viola abbia curato, nemmeno per una volta, la rubrica  Lettere provinciali, come appare scritto in quarta di copertina su alcuni numeri del 1909.

            Particolarmente interessante per definire la poetica di Viola è l’articolo Per un poeta sincero, in cui egli all’inizio manifesta apertamente la sua reazione verso la poesia italiana di quel periodo, di cui sottolinea la grave crisi, auspicando, come gli altri crepuscolari, un rinnovamento ritenuto ormai indispensabile:

            Finalmente, fra l’isaotteggiante e stentorea profluvie di scipiti sonettini ben composti e il vacuo reboare di metafore altisonanti, fra i rifacimenti romantico-orsiniani e il cinguettare asmatico alla Pascoli, fra tutta questa onda di insulse esaltazioni e di lamentele arcadiche, in cui disgraziatamente si va addormentando la lirica italiana, ecco, nella voce di un poeta dialettale, in palpiti di vera poesia ed in iscatti di forte ispirazione, ecco un libero canto di sincerità[21].

             Di Giacomo, a suo avviso, è riuscito a sfuggire  «a quel terribile morbo, ― che in Italia ha tanto felicemente radicato i suoi germi e che ancora infesta la nostra produzione poetica in ispecial modo ― al vizio cioè, di far della letteratura»[22]. La «sincerità», la «spontaneità», la «semplicità» sono le caratteristiche principali del poeta partenopeo secondo Viola che le propone a modello per i giovani. Dai sonetti di Di Giacomo balza la «meravigliosa verità» della realtà napoletana, ma egli è un poeta universale perché un gran numero di liriche sono «napoletane semplicemente per l’eloquio» in quanto appartengono «per il contenuto e per il sentimento che le agita al cuore di tutta l’umanità»[23].

            3. La raccolta poetica di Viola, L’altro volto che ride. Poemi,  vede la luce  nel 1909 presso l’editore napoletano Riccardo Ricciardi, che, com’è noto, negli anni seguenti pubblicherà anche altri testi esemplari del crepuscolarismo, quali Poesie provinciali di Fausto Maria Martini nel 1910, Poesie scritte col lapis  e Poesie di tutti i giorni di Marino Moretti rispettivamente nel 1910 e nel 1911. Presso Ricciardi inoltre nel 1909 appare anche il volume postumo delle Liriche  di Corazzini, che avrà due edizioni successive, la prima  nel 1914 e la seconda, con la prefazione di Fausto Maria Martini, nel 1922.

Il libro porta in epigrafe  i primi quattro versi di una lirica di Baudelaire, L’Idéal, tratta da Les fleurs du mal, quasi a voler mettere in chiaro fin dall’inizio il suo “ideale” poetico, che rifiuta la banalità del quotidiano e aspira a temi di più alto impegno umano e letterario:

               Ce ne seront jamais ces beautés de vignettes,

            Produits avariés, nés d’un siècle vaurien

            Ces pieds à brodequins, ces doigts à castagnettes,

            Qui sauront satisfaire un coeur comme le mien[24].

Esso comprende dieci componimenti, nei quali sono assenti i motivi tipici del crepuscolarismo romano, come «lo spleen della domenica, il rimpianto dell’amore impossibile, le piccole cose animate che soffrono e gemono»[25], anche se non mancano topoi  decadenti e crepuscolari come quelli dello «specchio» e del «convalescente». A prevalere nettamente è una disincantata riflessione sulla condizione umana, espressa secondo i modi della poesia simbolista. Le parole-chiave del libro sono, infatti, «vita», «morte», «umanità», «maschera», «ignoto», «mistero», «noia», «ombra», «sorte» o «destino», «viaggio» (della vita), spesso scritte con l’iniziale maiuscola. E non a caso gli ideali punti di riferimento per Viola sono Leopardi, Baudelaire e il Pascoli di certi Poemetti di carattere più meditativo, come Il cieco, Il libro, La felicità, Il prigioniero, Il naufrago. Dai Poemetti  pascoliani egli riprende anche l’attitudine a narrare in versi e l’uso del dialogo che sembra un segno premonitore della sua vocazione teatrale. In qualche caso i protagonisti delle sue composizioni sono alberi (l’oleastro), oggetti inanimati (la barca, la strada), elementi naturali (il vento), che vengono personificati e a volte dialogano con gli uomini.

            Il primo «poema», Il rogo, fa un po’ parte a sé, sia per il contenuto che  per la forma metrica, trattandosi di un lungo componimento in quartine di endecasillabi che narra l’autoannientamento volontario di una mandria di centauri, fauni e ninfe in un incendio liberatorio. Il momento centrale è rappresentato dal discorso del «gran centauro», il «Semidio» che invita i fratelli a innalzare un gran rogo e a prepararsi per la «strage suprema» in modo da morire come «invitti eroi»:

            Poi che la Morte, volontà superna,

            batte a le porte de la nostra Vita,

            e d’Espero a la nôva dipartita

            preda sarem de la materia eterna,

            fratelli, alziamo, ne la notte estrema,

            un Rogo enorme, come a un’ecatombe:

            s’aprano i piani fumiganti tombe,

            pire propizie a la strage suprema.

            Morremo, sì, ma non i raggi tuoi

            godranno, o Sole, del disfacimento:

            ci sperderemo, cenere, col vento;

            morremo, sì, ma come invitti eroi! ―[26]

            Alla fine la strage conta ventimila vittime, ma il poeta può invocare il fuoco che ha distrutto un «prodigioso mondo» permettendo così la nascita di un «nôvo canto»[27]:

            O fuoco a la tua foia esuberante

            s’apre, stanotte, larga giacitura,

            poi che vampeggia tutta la pianura

            crinita d’una nuvola gigante;

            pur se nel tuo cammino esiziale

            a illuminare le montane creste

            su le ruine de la stirpe agreste

            sfoggiasti un’ampia aurora boreale,

            non mai nel piano e per i cieli tanto

            splendesti come nel mio cuor profondo,

            tu c’hai distrutto un prodigioso mondo

            a vaticinio del mio nôvo canto[28].

            In tal modo si chiarisce anche il senso di questa composizione che vuole essere forse un’allegoria della fine della «vecchia poesia col bagaglio dei miti, coi versi torniti e delle strofe ben riquadrate»[29], nonché delle concezioni superomistiche ad essa collegate, in funzione di un’arte più adeguata  alla sensibilità moderna. Per Il rogo, in cui ritornano, come nel Fauno innamorato, figure della mitologia classica, Scorrano ha richiamato, anche da un punto di vista stilistico e lessicale[30], un componimento di d’Annunzio, La tredicesima fatica, che fa parte dell’Intermezzo. Qui infatti è presente il motivo dell’incendio finale preparato dai Feresi nel quale trovano la morte Ercole insieme alle sue tremila concubine[31]. Ma  un preciso riferimento c’è pure a La morte del cervo di Alcyone, apparsa per la prima volta il 31 maggio 1903 sul “Marzocco”, dove è descritto l’assalto di un centauro a un cervo[32]. D’altra parte l’immagine del centauro, che ritorna sorprendentemente nella letteratura in versi e in prosa fin de siècle, «risponde a questo desiderio di totalità, anch’esso è coronato di concezioni del divino, sia pure minori. […] nel Centauro si compie esemplarmente il potenziamento reciproco di uomo e di bestia, l’unità di forza e intelligenza nella stessa, più-che-umana, persona»[33]. Per questo «il Centauro potè diventare il simbolo opposto della decadenza»[34] e avvicinarsi «alla concezione nicciana del superuomo»[35].

            Anche dal lato metrico Il rogo si differenzia dagli altri componimenti del libro che sono tutti in versi liberi o «in metro libero» per usare la definizione dello stesso autore. Non a caso, a un osservatore attento come Gian Pietro Lucini non sfuggì questa novità della raccolta di Viola, tanto è vero che in un articolo incluse il suo nome in un elenco di «poeti giovani», come Mario Puccini, Federico De Maria, Paolo Buzzi, Enrico Cavacchioli, Carlo Linati, Sergio Corazzini, Giuseppe Vannicola, Tito Marrone, Virgilio La Scola, nei quali egli si “risentiva”. «Dentro ai loro versi, ― scriveva infatti ―  io rivedo le mie opposte ed autentiche particolarità e mi risento»[36]. Viola in particolare, come s’è detto, sperimenta tra i primi in Italia il verso lungo di derivazione whitmaniana, anche se nelle sue composizioni non mancano le unità brevi.

            Con il «poema» successivo, La maschera,  si entra già nel vivo della tematica più tipica della raccolta. Qui infatti è sviluppato il motivo, di carattere antipositivistico, della inconoscibilità del reale, attraverso il simbolo di una maschera d’argilla[37] osservata dal poeta, la quale  prima ride, poi piange, poi diventa improvvisamente sempre più grande: «ha perduto le prime sue forme, / ingrandisce, / ingigantisce, / spaventosa, terribile, enorme!»[38]. A questo punto scompaiono le pareti della stanza, dove essa è appesa, le mura della casa, tutto viene distrutto dalla maschera che inghiotte ogni cosa come un «lievito informe», come una sorta di blob inarrestabile che giunge a rivestire con un «guscio immane» tutta la terra. Il mondo intero allora diventa un’«immensa maschera» che cela la vera realtà al poeta rendendolo completamente disorientato di fronte a questa visione da incubo:

            E veggo, siccome una massa di liévito informe,

            la maschera immensa,

            rapidamente avanzare:

            inesorabile invòlucro inghiotte

            ne la notte maravigliosa

            fulmineamente ogni cosa.

            Fascia i prati silenti,

            s’accavalla sui boschi selvaggi,

            s’incava alle valli profonde

            e oscure, s’inerpica ai monti;

            raccoglie l’acque torbide e meste

            di stagni e di laghi

            assorbe i rapidi fiumi

            doma i mari sonanti e le loro tempeste;

            avvolge gli eremitaggi

            solitari nelle pianure,

            copre i perduti villaggi,

            schiaccia le vaste città!…

            E avanza, avanza, deforme,

            spaventosa, terribile, enorme!

            Pende la luna, amica

            a le nubi nel loro viaggio,

            e illumina il guscio immane

            che ha vestito la terra,

            Solo son io. Scende il vento

            e a me fischia canzoni di cielo,

            a me, sperso e vagabondo

            su l’immensa maschera: ― il mondo! ―[39]

            In Colloquio emergono invece i temi leopardiani della “vanità” della vita umana e della natura «matrigna», nonché quelli pascoliani del dolore dell’esser nati e del mistero insondabile dell’universo. Questa composizione è basata su un dialogo notturno tra un «viandante ignoto», simbolo dell’uomo che percorre «l’inutil viaggio»[40] della vita, e un albero di oleastro, che ricorda certi alberi e piante dell’autore di Myricae, come “il castagno” e il “vischio”. Quest’ultimo, appena lo scorge, chiede al viandante:

[…] ― Chi sei? ―

Attònito l’uomo si scuote,

si volge: ha udito;

pensa un istante, poi dice: ― Nessuno. ―

― Donde vieni? ― Interroga il vento. ― Non so. ―

― Che fai tu? ― risponde: ― Nulla. ―

― Come vivi? ― mormora: ―Muoio ―[41].

In tal modo l’albero e l’uomo scoprono di essere uniti dallo stesso destino che li ha fatti nascere entrambi «bastardi» e quindi «fratelli». L’oleastro, infatti, generato da una pianta «matrigna», dice così:

            Io non nacqui, campato ne l’aria, solenne,

            sul ramo d’un fervido olivo possente;

            a me non fu dato cantar ne la mia giovinezza, felice

            la gioia di vivere, in coro con tutte le rame sorelle.

            Germinato dal piccolo seme

            non so donde venni[42],

            non so perché sorsi:

            ignoro la pianta matrigna che, frutto, mi volle nutrire.

            Solitario, ne l’umili zolle,

            ho sfiorite le mie primavere,

            senza udire al mio fianco

            o nei chiari messaggi del vento,

            da lungi, una voce di madre[43].

            Analoga è la sorte del viandante che risponde: « ― Son l’uomo senza lacrime, / ché non sa a chi mostrare il suo pianto!»[44]. A questo punto l’oleastro lo invita a mettere fine alle proprie sofferenze, perché  «vana è la vita»[45] per lui e priva di senso:

            E l’albero, curvo, continua:

            ― Io sono dannato alla vita,

            ma, tu, Uomo libero come il mutevole soffio del vento,

            come l’acceso vibrar della luce,

            come il folle avanzar della tempesta;

            che, solo, cammini,

            sperduto alla notte ululante,

            ― e non brilla nel tempo remoto

            al tuo sguardo il ricordo d’un dolce sorriso,

            non trema nel cuore tuo stanco

            una tenue canzone di nova speranza ―

            tu che cerchi e non trovi a te intorno

            una voce materna

            una voce fraterna

            a che segui l’inutil viaggio?

            Vana è la vita per te:

            ucciditi, muori!… ― [46]

            L’uomo ascolta le parole dell’albero e concorda sulla “vanità” della sua vita (« ― Sì… Vana è la vita per me. / Scomparire val meglio, / finire per sempre, / morire. / Son partito da ténebre ignote: ritorno all’Ignoto!…»[47]). Alla fine infatti, accogliendo il suo invito, si impicca  a un ramo dell’oleastro.

             Anche nel «poema» L’ombra ritorna il motivo della condizione umana, anzi qui Viola sembra addirittura anticipare problematiche esistenzialistiche nel tema della presenza ineluttabile della morte che è la sola vera certezza dell’uomo fin dalla sua nascita.  Il poeta si rivolge all’uomo invitandolo a riflettere sul «grande mistero / della sua vita»[48], sulla precarietà, sulla transitorietà di tutti gli esseri (la donna amata, la madre, i figli) che lo circondano. Sola «compagna fedele», sola «seguace sorella» che «ti pedina come una vigile spia, / t’accompagna siccome un’amante gelosa»[49], è «l’Ombra» che segue l’uomo dalla nascita e lo abbandona soltanto alla fine della sua esistenza. Solo allora essa si rivela per quella che realmente è:

Tu sorridi?

O fratello, fratello (che tu non mi creda):

la vana parvenza che volle legarsi alla varia tua sorte,

anche lei se ne andrà quando tu diverrai sua miserrima preda.

In agguato ella attende: io la veggo;

è la nostra fatale nemica, o fratello:

è la Morte…[50]

            Né c’è la possibilità di sfuggire al proprio destino, come tenta di fare la barca nell’omonimo componimento. Essa odia gli uomini i quali hanno stravolto la sua natura di «tronco possente» che s’ergeva «fronzuta sul monte»[51], servendosene per i loro scopi. Per questo si ribella contro i «remiganti» che una notte, durante una furiosa tempesta, vengono travolti e sommersi dalle acque. Ma anche la barca, dopo aver avanzato nel mare sterminato, alla fine si sfascia e muore  proprio come i marinai davanti alla natura che  leopardianamente si disinteressa  della sua sorte:

            L’aurora, lontana, rideva il suo vago sorriso nel concavo cielo;

            disfatta, siccome la vizza corolla d’un fiore,

            la vecchia carcassa moriva.

            Moriva, e l’illuse un’estrema speranza:

            volle, con l’ultima voce,

            dal cuore sfinito, a soccorso gridare…

            Ma i remiganti, ignari, non udirono:

            dormivano, sognando, in fondo al mare!…[52]

            La vita umana, sotto l’aspetto di  “tragicommedia”, è ancora al centro di un’altra composizione, Lo specchio, in cui ritorna uno dei più diffusi  topoi  crepuscolari, quello dello specchio appunto, presente anche in Marrone[53], Govoni[54], Martini[55], Corazzini[56] e Palazzeschi[57], ma anche in altri poeti operanti in quegli anni al di fuori di quell’area, come Domenico Gnoli (Giulio Orsini)[58] e Francesco Cangiullo[59]. Esso, com’è noto, deriva da Georges Rodenbach, nel quale «il povero specchio malinconico e malato ha la stessa passività del poeta: si limita a registrare delle immagini, che riflette poi con umile fedeltà»[60]. Qui il poeta, vagabondando di notte nelle vie d’una vecchia città in compagnia della baudelairiana «noia», «nottambula amica dell’anima»[61], è attratto dalla fiamma di una lanterna sulla via, che si riflette nello specchio di un caffè. Improvvisamente è come se vedesse riflesse nello specchio tutte le generazioni passate che gli permettono di scoprire «la tragicomedia umana»[62] nella sua inesauribile varietà, come un «gran fiume che avanza»[63] fino allo sbocco inevitabile della morte. Da qui la sconsolata riflessione finale sul destino umano da parte del poeta, il quale però di fronte a questo tremendo spettacolo reagisce diventando impassibile come uno specchio che si limita appunto a registrare tutto passivamente, senza provare più alcuna emozione per ciò che vede:

            O misero seme dell’uomo[64],

            dannato a fluire per tutte l’arterie del mondo,

            ― carovana infinita, cui, mèta implacata, sorride la morte

            perché mai non tremava il mio cuore

            d’innanzi al tuo pazzo destino?

            Noia! fiume accidioso, tu m’eri nel sangue,

            per tutte le vene.

            E il mio cuore era simile al pallido specchio,

            immutato nel folle mutarsi di tutta la vita riflessa[65].

            Anche in La strada torna il tema dell’umanità che lascia i propri segni sulla strada, simbolo appunto del cammino aspro e periglioso della vita. Anch’essa, come la barca, protesta contro gli uomini che l’hanno asservita e ridotta a schiava, sconvolgendo l’ordine originario della natura che l’aveva creata come una fertile campagna. Ma in questo modo può conoscere meglio gli uomini che passano sulle sue «membra», i loro pensieri e la loro triste sorte, prendendosi in un certo senso una rivincita su di essi:

            Passano su le mie membra

            gli uomini, vinti nei cuori

            da le loro infinite passioni:

            affranti da crude sciagure,

            frementi per vani amori,

            per odio selvaggio;

            camminano ed io dal mutevole passo

            intravedo i pensieri e la mèta del loro viaggio.

            Sopra il mio corpo supino

            verso la Morte va

            la multiforme Vita[66];

            ho nel mio cuore i segni

            di tutta l’Umanità[67].

E non a caso, alla fine, emerge improvvisamente la figura della donna che cammina sola nella notte andando «verso un ignoto destino»:

            Sola e sperduta cammina,

            nella notte maggenga una femina;

            ascolta le strane parole che piange la strada

            ed indugia convulsa:

            passa il vento, la stringe, l’avvince:

            ella trema;

            poi riprende il cammino,

            muta,

            verso un ignoto destino[68].

            Ancora immagini di totalità della vita, della sorte amara e dolorosa dell’uomo e dell’ineluttabilità della morte sono presenti in La cavalcata del vento, allegoria forse di residui sogni superomistici, in cui il vento narra in prima persona la sua vicenda, dalla nascita in mezzo al mare alle scorribande per i campi e le città, fino al momento in cui si scatena sulla terra diventando uragano per poi placarsi e rifugiarsi in una selva dove si addormenta per sempre. Qui il momento culminante è rappresentato dalla raffigurazione, di tipo quasi espressionistico, della «grande Città», memore forse delle “città tentacolari” di Verhaeren, paragonata prima a «un immenso alveare» e poi a «un’immensa carogna», in cui il vento vive «una vita molteplice: […] la vita degli uomini tutti»[69]:

            E a l’Alba ― oh! la voce di cento campane! ―

            conobbi la febre diurna

            che cuoce, siccome in ardente crogiuolo,

            la Vita dell’Uomo

            ad ogni ritorno del Sole.

            E tutte le strane parole dell’odio sottile, del lùbrico amore,

            l’efimera gioia, la fame, la noia,

            il vizio, l’eterna fatica che come un cilizio

            costringe migliaia di vite

            (e su tutto la Morte che irride)

            s’aprirono un varco nel folle mio cuore.

            La grande città, puteolente da tutti i suoi pori,

            mi parve un’immensa carogna[70],

            in cui brulicassero enormi legioni di vermi

            divoratori[71].

            Nel “poema” Il convalescente, la composizione di Viola più intessuta di sintagmi e lemmi corazziniani e martiniani[72], l’autore sembra attenuare questa visione pessimistica dell’esistenza attraverso l’immagine del «convalescente», cioè  di colui che sa godere in virtù del suo stato, come il fanciullo, delle piccole cose della vita e della natura, anche di quelle apparentemente più comuni:

― Non vedi? Son come una fiamma

che muta a ogni soffio di vento.

Un riso giocondo di bimbo,

un canto soave di donna,

un tenero pianto d’ignota campana pei cieli dell’Ave,

un battito d’ali nel sole,

un lento vanir di parole,

un breve silenzio,

sovente

un nonnulla,

mi fa più sereno,

mi fan più dolente.

E pare che l’anima stanca mi torni fanciulla ―[73].

La “convalescenza”, com’è noto, è un altro topos decadente e crepuscolare, che si colloca con una sua specifica connotazione all’interno di quello, più ampio, della “malattia”. Secondo Farinelli, «il tema della malattia e della convalescenza in chiave crepuscolare sospende lo stesso scorrere dei giorni (ogni giorno è nessun giorno) e si apre su una condizione di inerzia espressa con termini sostanzialmente privi di consistente riferimento materiale»[74]. Questo tema, che deriva da Rodenbach e Maeterlinck per i quali la malattia  «è in definitiva un eccellente strumento d’introspezione per misurare la profondità del nostro spirito»[75], giunge in Italia prima a d’Annunzio[76] e poi, tra gli altri, a Corazzini[77], Martini[78], Onofri[79] e Yosto Randaccio[80]. Per Viola la convalescenza è dunque una condizione permanente dello spirito più che uno stato provvisorio da cui prima o poi si guarisce. Infatti, una volta guarito, il «convalescente» sarà ripreso nel consueto ingranaggio dell’esistenza che ne farà una delle sue innumerevoli “prede”, mentre il poeta resta l’«eterno convalescente / d’un inguaribile male»[81]:

            Vanirà lentamente il tuo male;

            scorreranno fiumane d’oblio su la tua sofferenza:

            il fulgido maggio, le rose,

            la dolce convalescenza,

            sembreranno cose lontane.

            La Vita terribile, quella che avvinghia all’immensa sua rota

            migliaia di vittime umane,

            ti farà sua miserrima preda,

            e il tuo povero cuore

            non saprà più tremare ad un riso giocondo di bimbo,

            ad un canto soave di donna,

            ad un tenero pianto d’ignota campana pei cieli dell’Ave[82].

             Nell’ultimo componimento, L’altro volto che ride, che dà il titolo alla raccolta, ritorna invece la consueta visione della vita di Viola: l’essenza autentica dell’uomo non è quella che appare ma è rappresentata da ciò che non si vede, in particolare da ciò che sta dietro il nostro viso, dal teschio, l’«altro volto che ride»[83]. Anche qui insomma l’apparenza sensibile è come una «maschera» che copre la vera realtà. In tal modo l’uomo perde per sempre il suo «grande mistero» e viene messo di fronte alla tragica verità della sua esistenza:

            Uomo! a tuo scherno indelebile,

            ne la tua carne polita, ti beffa, celato, il sarcastico viso

            che ghigna all’alterna vicenda

            della tua vita

            quello che un dì riderà, nella fossa, al tuo lento disfacimento;

            quello che un dì mireranno, devoti,

            superstite effigie dell’avo glorioso,

            i tardi nepoti[84].

            Ma solo questa consapevolezza, e la virile accettazione del proprio destino, secondo il «poeta selvaggio», possono collocarlo al di sopra della natura, vittorioso:

            Uomo! poeta selvaggio, io ti grido:

            ― Se il cuore ti basti e l’ingegno,

            sii tu della saggia Natura, più grande e più forte:

            dischiudi il tuo labro sottile a un sorriso di sdegno,

            di fronte alla Vita e alla Morte ―[85].

E il «sorriso di sdegno» di Viola non può non richiamare, in fondo, il “sorriso” leopardiano dei versi finali di Aspasia che deriva dalla scoperta della vanità d’ogni cosa:

            E conforto e vendetta è che su l’erba

            qui neghittoso immobile giacendo,

            il mar la terra e il ciel miro e sorrido[86].

[In A.L. Giannone, Tra Sud ed Europa. Studi sul Novecento letterario italiano, Lecce, Milella, 2013]


[1] Cfr. Villa, cit., pp. 225-247.

[2] V, Lo statere, “La Democrazia”, n. 38, 20 ottobre 1905.

[3] T.  Marrone, Nummus, in Antologia poetica,  a c. di Donatella Breschi, Napoli, Guida, 1974, p. 54.

[4] Cfr. Farinelli, cit., p. 51.

[5] Cfr. Villa, cit., pp. 756-759.

[6] Cfr. T. Marrone, La morte dei Centauri e La danza di Fauno, in Liriche, Roma, Artero, 1904. La seconda composizione figura anche in  Antologia poetica, cit., p. 75.

[7] Cfr. A. Tusti, L’Arco, “Roma flammea”, luglio 1904, poi in Villa, cit., p. 527.

[8] Cfr. P. Sgabelloni, Fauno , “Il Tirso”, 14 aprile 1907, poi in  Villa, cit., p. 672, n. 35.

[9] Cfr. G. d’Annunzio, La morte del cervo e Il Tessalo, in Alcyone, in Versi d’amore e di gloria, edizione diretta da L. Anceschi, a c. di A. Andreoli e N. Lorenzini, Milano, Mondadori, 1984, t. II, rispettivamente a pp. 552-557 e 609.

[10] Cfr. G.  Lipparini, Il fauno, in Lo Specchio delle Rose, ora in Dal simbolismo al Déco. Antologia poetica cronologicamente disposta per  c. di G. Viazzi, Torino, Einaudi, 1981, t. I, p. 125.

[11] V, Il fauno innamorato, “La Democrazia”, n. 15, 7 aprile 1906.

[12] Farinelli, cit, p. 85.

[13] Cfr. T. Marrone, Giorno di magro, in Carnascialate, in Antologia poetica, cit., p. 110: «Colombina bisbiglia  / sommesso ad  Arlecchino, / che in un canto le fa l’occhio di triglia».

[14] V, Minuetto, “La Democrazia”, n. 37, 22 settembre 1906.

[15] Rispettivamente in “La Democrazia”, n. 41, 10 novembre 1905; n. 45, 8 dicembre 1905; n. 43, 10 novembre 1906.

[16] Cfr. T. Marrone, Il metro libero, “La Vita Letteraria”, n. 3, 25 gennaio 1907, p. 1.

[17] P.  Giovannetti, Metrica del verso libero italiano, Milano, Marcos y Marcos, 1994, p.25, n. 6.

[18] Sulla problematica del verso libero in Italia si rinvia a Giovannetti, cit. e A. Bertoni, Dai simbolisti al Novecento. Le origini del verso libero italiano, Bologna, Il Mulino, 1995.

[19] Villa, cit., p. 331.

[20] V, Colloquio (a Luigi Orsini),  “La Vita Letteraria”, n. 22, 7 giugno 1907, p. 1.

[21] V, Per un poeta sincero, “La Vita Letteraria”, n. 27, 12 luglio 1907, p. 1.

[22] Ibid.

[23] Ibid.

[24] Ch. Baudelaire, L’Idéal, in Les fleurs du mal, in Opere, a c. di G. Raboni e G. Montesano. Introduzione di Giovanni Macchia, Milano, Mondadori, 1996, p. 52 ss.

[25] F. Livi, Note sul circolo crepuscolare romano. Dalla vita alla letteratura, in La parola crepuscolare. Corazzini, Gozzano, Moretti, Milano, Istituto  Propaganda Libraria, 1986, p. 214

[26] V, Il rogo, in L’altro volto che ride. Poemi  [AVR], Napoli, Riccardo Ricciardi Editore, 1909, p. 6.

[27] Forse non a caso, «nôvo canto» è sintagma rovesciato di Canto novo dannunziano, la raccolta poetica che viene pubblicata nel 1882.

[28] Ivi, p. 14.

[29] Maki, rec. a  V, AVR.,  «Rivista Marchigiana Illustrata», n. 9-10, 1909, poi  «La Democrazia», n. 46, 28 novembre 1909.

[30] Cfr. Scorrano, cit., p. 10.

[31] G. d’Annunzio, La tredicesima fatica, in Intermezzo, in Versi d’amore e di gloria,  cit, t. I, pp. 282-289.

[32] G. d’Annunzio, La morte del cervo, in Alcyone, in Versi d’amore e di gloria, cit., t. II, pp. 552-557.

[33] H. Hinterhäuser,Un branco di centauri, in  Fin de siècle. Tre studi, Padova, Liviana, 1977, p. 113.

[34] Ibid.

[35] Ivi, p. 114.

[36] G. P. Lucini, Poeti giovani (esordio sul momento attuale della mia lirica),  “La Ragione”, 7 novembre 1909, cit. da I. Ghidetti, Introduzione a G. P. Lucini, Prose e canzoni amare. Testi editi ed inediti a c. e con introduzione di I. Ghidetti. Prefazione di G. Luti, Firenze, Vallecchi, 1971, p. 56.

[37] Forse su questo motivo non è improbabile una suggestione baudelairiana. Cfr. Ch. Baudelaire, Le masque, in Les fleurs du mal, in Opere, cit., p. 54 ss.

[38] V, La maschera, AVR, , p. 20.

[39] Ivi., p. 21.

[40] V, Colloquio, AVR, p. 30.

[41] Ivi., p. 26. Cfr. con G.i Pascoli, Il naufrago, in “Il Marzocco”, 9 dicembre 1906, poi in Nuovi Poemetti, in  Poesie e prose scelte. Progetto editoriale, introduzione e commento di Cesare  Garboli, Milano, Mondadori, 2002, t. II, p.1415: «― Chi è? Non so. Chi sei? Che fai? Più nulla».

[42] Cfr. con G. Pascoli, Il cieco, in Poemetti (1897),  in Poesie e prose scelte, cit. t. I, p. 1366: «Donde venni non so; né dove io vada / saper m’è dato…».

[43] V, Colloquio, AVR, p. 28.

[44] Ivi, p. 29.

[45] Ivi., p. 30. Il lemma “vano”, com’è noto, è ampiamente attestato anche nella poesia di Corazzini. Si ricordi, ad esempio, S. Corazzini, Toblak, in L’amaro calice, in Opere. Poesie e Prose, a c. di A.  I. Villa, Pisa-Roma,  Istituti Editoriali e Poligrafici Internazionali, 1999, p.124: «Anima, vano è questo lacrimare, / vani i sospiri, vane le parole / su quanto ancora in te viveva ieri».  

[46] V, Colloquio, AVR, p. 30.

[47] Ibid. Il tema del “mistero” e dell’ “ignoto”, oltre che in Pascoli, è presente anche in Onofri, operante a Roma, com’è noto, negli stessi anni. Cfr., ad esempio, il verso di Viola con A. Onofri, Ombre!, in Liriche, in Poesie edite e inedite (1900-1914), a c. di A.  Dolfi, Ravenna, Longo, 1982, p. 93: «Naviga, naviga i campi del cielo / in ansia costante d’Ignoto».

[48] V, L’ombra, AVR, p. 36. Cfr. con G. Leopardi, Sopra il ritratto di una bella donna scolpito nel monumento sepolcrale della medesima, in Canti, in Tutte le opere, con introduzione e a c. di W. Binni, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Firenze, Sansoni, 1969, t. I, p. 17:  «… Misterio eterno /  dell’esser nostro…».

[49] V, L’ombra, AVR, p.39.

[50] Ivi., p. 40.

[51] V, La barca, AVR, p.44.

[52] Ivi, p. 48.

[53] Cfr. T. Marrone, Lo specchio, in Le gemme e gli spettri, poi in Antologia poetica, cit., p.59.

[54] Cfr. C.  Govoni, Gli specchi, in Le Fiale, Firenze, Lumachi, 1903, poi in Poesie 1903-1959, a c. di G. Ravegnani, Milano, Mondadori, 1961, p. 46 e Specchio, in Rarefazioni e parole in libertà, Milano, Edizioni futuriste di “Poesia”, 1915, p. 11.

[55] Cfr. F. M. Martini, Lo specchio, “La Vita Letteraria”, n. 20, 24 maggio 1907, poi in Tutte le poesie, cit., p. 170.

[56] Cfr. S. Corazzini, Desolazione del povero poeta sentimentale, in Piccolo libro inutile, in Opere […], cit., p. 144: «solamente perché, io sono oramai, / rassegnato come uno specchio, / come un povero specchio melanconico».

[57] Cfr. A.  Palazzeschi, Lo specchio, in L’incendiario 1905-1909, Milano, Edizioni Futuriste di “Poesia”, 1913, pp. 78-81.

[58] Cfr. G. Orsini, Specchio antico, in Fra terra ed astri (Seconda edizione), Torino-Roma, Casa Editrice Nazionale Roux e Viareggio, 1904, pp. 117-121.

[59] Cfr. F. Cangiullo, Lo Specchio in Le cocottesche, Napoli, Edizioni Giovani, 1912, poi in I poeti del futurismo 1909-1944, a c. di G. Viazzi, Milano, Longanesi, 1978, p. 237.

[60] François Livi, Dai simbolisti ai crepuscolari, Milano, Istituto  Propaganda Libraria, 1974, p. 99.

[61] V, Lo specchio, AVR, p. 51.

[62] Ivi, p.55.

[63] Ivi, p. 56.

[64] Anche qui si noti una significativa coincidenza con Giacomo Leopardi, La ginestra o il fiore del deserto, in Canti, in Tutte le opere, cit., t. I,  p. 44.: «Non ha natura al seme / dell’uom più stima o cura / che alla formica…».

[65] V, Lo specchio, AVR,  p. 57.

[66] Cfr. S. Corazzini, Toblak, in L’amaro calice, in Opere […] , cit., p.124: «Vita che piange, Morte che cammina».

[67] V, La strada, AVR, p. 67.

[68] Ivi., p. 71. Cfr. G. Pascoli, I due fanciulli, in Poemetti (1897), in Poesie e prose scelte, cit., t. I, p. 1397: «Uomini, ne la truce ora dei lupi, / pensate a l’ombra del destino ignoto / che ne circonda…».

[69] V, La cavalcata del vento, AVR, p. 87.

[70] Anche in questa immagine forse c’è una suggestione baudelairiana. Cfr. Charles Baudelaire, Une carogne, in Les fleurs du mal, in Opere, cit., p. 70 ss.

[71] V, La cavalcata del vento, AVR, p. 88.

[72]Cfr., ad esempio, i sintagmi «anima stanca», «povero cuore», «bianche tue mani», «folle mio cuor»; i sostantivi «bimbo», «pianto», «campana», «silenzio», «anima», «cielo», «cuore», «mano», ecc.; gli aggettivi «soave», «tenero», «ignota», «lento», «stanca», «dolce», «triste», «pallido», «bianco», «folle», «povero», ecc. Cfr., a questo proposito, Giuseppe   Savoca, Concordanza delle poesie di Sergio Corazzini, Firenze, Olschki, 1987.

[73] V, Il convalescente, AVR, p.75.

[74] Farinelli, cit, p.176.

[75] F. Livi,  Dai simbolisti ai crepuscolari, cit., p. 76.

[76] Cfr. G. d’Annunzio, La portantina, in Intermezzo, in Versi d’amore e di gloria, cit., t. I, p. 266: «Convalescente di squisiti mali / ella va per la villa in portantina»; La passeggiata, in Poema paradisiaco, in Versi d’amore e di gloria, cit., t. I, p. 613: «Dite: non foste mai convalescente / in un aprile un po’ velato? è  vero / che nulla al mondo, nulla è più soave?». Ma il tema della convalescenza è ampiamente affrontato da D’Annunzio anche nei romanzi Il piacere e L’innocente. Si legga il seguente brano: «La convalescenza è una purificazione e un rinascimento. Non mai il senso della vita è soave come dopo l’angoscia del male; e non mai l’anima umana più inclina alla bontà e alla fede come dopo aver guardato negli abissi della morte» (Gabriele d’Annunzio, Il piacere, in Prose di romanzi, edizione diretta da E. Raimondi, a c. di A. Andreoli e N. Lorenzini, Milano, Mondadori, 1988, t. I,  p. 131).

[77] Cfr. S. Corazzini, Toblak, in L’amaro calice, in Opere […], cit., p.124: «… dietro i vetri lacrimosi / tiene i lividi tuoi tubercolosi / un desiderio di convalescenza»; Sonata in bianco minore, in Piccolo libro inutile, in Opere […], p. 149: «― Sole di convalescenti».

[78] Cfr. F. M. Martini, Convalescenza, in Le piccole morte; Rimuore… e Anniversario,  in Poesie provinciali; Piccola preghiera di un convalescente alle rondini, in Poesie sparse, in Tutte le poesie, cit., rispettivamente a p. 75, 125 s, 150 s, 209 s.

[79] Cfr. A. Onofri, Lungo il fiume, in Canti delle oasi, in Poesie edite e inedite, cit., p. 211 s.: «Ma illanguidisce la convalescenza. […] Quanto è soave la convalescenza!».

[80]  Cfr. Y. Randaccio, I poemetti della convalescenza, Cagliari, Meloni-Aitelli, 1909, sui quali  si rinvia a Villa, cit, pp. 772-817.

[81] V, Il convalescente, AVR, p. 80.

[82] Ivi, p. 78.

[83] L’immagine del teschio, di derivazione tardo-scapigliata, oltre che in Maurice Rollinat e Lorenzo Stecchetti, si ritrova anche in poeti come Govoni e Onofri. Cfr., in particolare, C. Govoni, I teschi, in Armonia in grigio et in silenzio, Firenze, Lumachi, 1903, p. 186 s. (ma tutta una sezione di questa raccolta, La certosa, è improntata al tono macabro), e A. Onofri, Teschio, in Poemi tragici, poi in Poesie edite e inedite, cit., p. 147 s.

[84] V, L’altro volto che rideAVR, p. 97.

[85] Ivi, p. 98.

[86] G. Leopardi, Aspasia, in Canti, in  Tutte le opere, cit, p. 36.

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