Il grande errore delle Università a doppia velocità

Va rilevato che l’Italia spende per l’istruzione una percentuale del Pil quasi uguale alla spesa per interessi sui titoli del debito pubblico e che la traiettoria della spesa in ricerca e sviluppo è discendente da almeno un decennio. L’Italia spende pochissimo per la ricerca pubblica e il settore privato spende ancora meno. Vi è da aggiungere che il nostro Paese ha una quota di laureati sul totale della forza-lavoro inferiore alla media europea e anche in questo caso in drammatico calo negli ultimi decenni.

Il Governo – si potrà dire – si è mosso in una condizione di estrema emergenza, ed è difficile negare che questo sia accaduto. Tuttavia, occorre rilevare che vi erano (e vi sono) spazi fiscali disponibili per maggiori investimenti in ricerca e sviluppo, che non siano vincolati al tentativo di accentrali in poche sedi.

Vi è ampia evidenza, infatti, che la spesa per istruzione e ricerca è un fondamentale traino per la crescita e anche che non giova alla crescita del Paese avere Università di serie A e sedi di serie B. Quest’ultima distinzione rinvia a Università research, ben finanziate e dove si fa ricerca scientifica, e università teaching, dove si svolge solo didattica. Questa discriminazione non si fonda su alcun dato oggettivo ed è stata reiterata nel corso degli ultimi anni per accentrare i finanziamenti in alcune sedi, soprattutto localizzate al Nord. Un recente studio pubblicato su ROARS mostra che i ricercatori ‘eccellenti’ in Italia sono diffusi in tutti i centri di ricerca, smentendo sul piano empirico l’impostazione che è propria della narrazione confindustriale.

Il progetto di autonomia differenziata recepisce esplicitamente una visione di Università a doppia velocità, dimenticando che è un’istruzione diffusa e di elevata qualità sull’intero territorio italiano a produrre crescita e facendo propria una visione della crescita di tipo trickle down (sgocciolamento). In altri termini, si ritiene che è solo finanziando in modo selettivo alcune aree del Paese – quelle con Pil procapite più alto –  e i centri di ricerca che sono lì localizzati che si produce, appunto per ‘sgocciolamento’, la crescita delle aree più deboli.

Si osservi che la crescita delle regioni meridionali dovrebbe passare per misure esattamente opposte a quelle di differenziazione delle sedi universitarie. Queste ultime politiche non possono che contribuire ulteriormente al declino delle aree più deboli del Paese, sia perché verrebbe meno un flusso potenziale di innovazioni derivante dai centri di ricerca, sia perché il minore finanziamento si tradurrebbe in minori iscritti, dunque in un numero minore di laureati, dunque in minore potenziale produttivo connesso all’esistenza di una forza-lavoro altamente qualificata.

Il Sud avrebbe, per contro, necessità di un piano di lungo periodo di rafforzamento degli ambiti della formazione e della ricerca, per disporre di un motore interno di crescita: diversamente, e nella migliore delle ipotesi, sarebbe relegato a un puro mercato di sbocco delle produzioni di altre aree del Paese.

Vi è un problema di miopia. Mentre, nel breve periodo, si ipotizza che il Nord possa crescere solo sottraendo risorse al Sud, nel lungo periodo non è affatto detto che ciò accada. Ciò soprattutto per il fatto che le imprese del Nord possono recuperare margini di profitto solo a condizione che lo facciano quelle tedesche, con le quali istituiscono rapporti di dipendenza e di subfornitura. La recessione tedesca pone vincoli a questo modello di sviluppo. E pone per conseguenza seri dubbi sul fatto che la differenziazione delle sedi universitarie possa essere funzionale alla ripresa della crescita per l’intero Paese.

[“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 25 febbraio 2022]

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