Non si può nascondere, in verità, un senso di fastidio per la letteratura di questo genere; l’Epistolario di Abelardo, però, pur avendo come oggetto l’amore, contengono anche importanti riferimenti storico-culturali e utili indicazioni per la ricerca filosofica e teologica. Abelardo, infatti, nelle sue prese di posizione mostra una singolare arditezza, avvalendosi, oltre che della logica razionale, anche dell’apporto di sentimenti umani pre-razionali e a-razionali, per i quali veniva osservato con sospetto, ma di cui c’era e c’è sempre bisogno per una filosofia, che voglia essere completa, capace di preparare l’uomo a morire dignitosamente, ma soprattutto d’aiutarlo a vivere in pienezza e felicità. La filosofia è “amore della sapienza” e nello stesso tempo – sulle orme di Platone e sant’Agostino – “sapienza dell’amore”, per cui si pone come il tessuto compatto realizzato con l’intreccio dei fili della trama della razionale con l’ordito dei fili delle altre capacità dell’essere umano. Così essa diventa fonte di risposte alle domande umane ed energia alimentatrice del vivere umano autentico e libero. Interessanti a questo riguardo risultano i contributi dati, in confronto costruttivo col pensiero di Paul-Michel Foucault, dal filosofo Remo Bodei, il quale sostiene: “Malgrado i ripetuti annunci, è certo che la filosofia, al pari dell’arte, non è affatto ‘morta’. Essa rivive anzi a ogni stagione, perché corrisponde a bisogni di senso, che vengono continuamente – e spesso inconsapevolmente – riformulati. A tali domande, mute o esplicite, la filosofia cerca risposte, misurando ed esplorando la deriva, la conformazione e le faglie di quei continenti simbolici, su cui poggia il nostro comune pensare e agire”.
Potrebbe essere azzardato sostenere che Abelardo – uno dei massimi maestri del suo tempo, il più seguito dagli intellettuali a lui contemporanei – abbia colto le sue intuizioni in filosofia e abbia formulato le sue tesi in teologia grazie allo stato amoroso con Eloisa; è certo, tuttavia, che senza quell’esperienza non avrebbe sostenuto così audacemente le sue dottrine, tanto ardite per quei secoli medievali d’attirarsi invidie, ricatti, persecuzioni e persino attentati alla vita. Del resto è lo stesso Abelardo che confessa che, senza il fascino dell’amore, “il maestro di filosofia si appiattisce in uno sterile ripetitore”; e di se stesso non ha difficoltà a rivelare: “Nelle lezioni diventai freddo e meccanico: tutto mi usciva di bocca per abitudine. Non ero ormai che il ripetitore delle dottrine che avevo creato; se qualcosa mi veniva fatto di creare, questo non era dottrina, era canto d’amore”. Come la “luce” della fede religiosa, quindi, rafforza la capacità conoscitiva umana, rivelandole verità diversamente ignote, così la “luce” dell’amore irrobustisce l’intero essere umano, svelandogli realtà altrimenti non sperimentabili.
Nel pensiero di Abelardo emergono almeno due posizioni allora innovative e oggi di grande attualità: il valore degli “universali” (o idee) e l’etica dell’intenzione. Nel 1200 lo studio della filosofia era inchiodato all’autoritarismo dell’aristotelismo, e la ricerca in teologia era bloccata dall’interpretazione dell’autorità ecclesiastica; persino la scienza doveva fare i conti con l’astratta metafisica: erano davvero molto lontani i Machiavelli, i Keplero, i Galilei, i Cartesio. Dominava assoluto il teocentrismo, usato per controllare le menti e per soggiogare i popoli. Abelardo, però, svincolò il valore dell’idea dall’astrattezza del nominalismo (attirandosi l’ira del filosofo francese Roscellino, suo antico maestro, dal quale fu accusato d’eresia) e la liberò, d’altra parte, anche dalle angustie del piatto realismo (propugnato da sant’Anselmo e da Guglielmo di Champeaux). Abelardo, così, precorre di circa sei secoli Immanuel Kant, rivendicando la “funzione regolativa” d’ogni idea, in quanto essa costituisce l’ideale, che deve avere sempre un fondamento nella realtà e deve tendere a creare altre possibili realtà future, oggetto di speranza sostenuta da forte fede razionale.
Veramente temeraria è, poi, la proposta della morale dell’intenzione, fondata su un robusto antropocentrismo. L’uomo – argomenta Abelardo – è dotato di ragione; questa, però, pur essendo una facoltà straordinaria, che distingue e nobilita la natura umana, resta tuttavia una facoltà limitata, imperfetta e fallibile, proprio perché umana. E’ necessario, di conseguenza, che essa muova sempre dal dubbio, unico fondamento solido, per costruire una ricerca valida e veritiera. Il “credere”, in ogni ambito, dev’essere un atto di comprensione e un gesto di vitalità umana: si deve capire ciò che si crede e perché lo si crede. “E’ ponendo domande che impariamo la verità”, afferma apertamente Abelardo, precisando che non si crede a una cosa perché Dio l’ha detta, ma si ammette ch’egli l’abbia detta, perché razionalmente la cosa è vera. Affermazioni pericolose; ma Abelardo continuò a insegnare senza remore che “Dio tiene conto non delle cose che si fanno, ma dell’animo con cui si fanno; e il merito e il valore di chi agisce non consistono nell’azione, ma nell’intenzione”. E preciserà ancora: “Gli uomini giudicano di quel che appare, non tanto di quello che è nascosto (…). Solamente Dio, che guarda allo spirito con cui si fanno le cose, valuta secondo verità la consapevolezza della nostra intenzione”.
La statura culturale di Abelardo va compresa certamente mediante la profondità del suo pensiero e il coraggio mostrato nella vita “esteriore”, ma anche attraverso l’esperienza della sua “vita intima”: in filosofia non sono mai scindibili le due cose. Abelardo è stato interpretato come il filosofo spregiudicato e intemperante; così come Eloisa è stata additata come esempio d’amore libero e moralmente deplorevole. Esaminando, però, senza pregiudizio alcuni comportamenti dei due, si rivela diversa la realtà. E’ vero che Eloisa, infatti, dopo la nascita del figlio Astrolabio, si oppose al matrimonio, ma solo perché sarebbe stato “infamante” e “oneroso sotto ogni aspetto” per il marito: “Quante lacrime verserebbero – scrisse – coloro che amano la filosofia a causa del matrimonio”. Ma quando capì la decisione di Abelardo, concluse con angoscia: “Resta una sola cosa; la certezza che non soffriremo meno di quanto ci siamo amati”. E dopo il matrimonio e l’evirazione di Abelardo, quando si decise di prendere entrambi la vita monastica, Abelardo si chiuse nel silenzio del tormento, per non accrescere la sofferenza d’Eloisa. Lui entrò nel monastero a Saint-Gildas de Rhuys, e mandò lei nel monastero di Argenteuil. Le strade si separano e i due non si rivedranno mai più.
Successivamente, quando per caso ebbe tra le mani una lettera di Eloisa, in cui ella confidava la sofferenza per l’amore ancora vivo, Abelardo ne rimase molto turbato: aveva sperato che il tempo avrebbe almeno attenuato i tormenti della sua donna. Repressa, allora, la sua angoscia, le si rivolse con fare volutamente freddo e distaccato, ricordandole i nuovi doveri di badessa. Lei gli ricordò alquanto risentita il fervore del passato; Abelardo, sempre con fare distaccato, le scrisse: “Io adesso sono circondato anche nell’anima”; Eloisa, allora, gli pose la straziante domanda finale: “Perché la sublimazione si dovrebbe raggiungere soltanto annichilendo i sensi e il sentimento d’amore che si prova verso un’altra persona?”. Abelardo, allora, chiuso in un silenzio degno d’un martire, non risponderà mai esplicitamente; poco prima di morire, però, l’ammonì: “Ricordati che io ti appartengo”. Abelardo muore nel 1142, Eloisa nel 1164. Sepolti in uno stesso loculo, secondo la volontà di Eloisa, i loro resti giacciono in una cappella nel cimitero del Pére Lachaise a Parigi. Ai piedi della tomba c’è la scultura raffigurante un cane, simbolo di fedeltà.