Ma la vera “chicca” di quest’opera è rappresentata dalla terza parte, che consiste in una “canzone” in dialetto leccese alternato alla lingua, in 461 settenari sdruccioli, definita “stampita” da uno dei personaggi del Dialogo, cioè componimento accompagnato dalla musica. Si tratta, come s’è detto, di uno dei primi testi dialettali finora conosciuti dell’area salentina, anzi, per meglio dire, del secondo, dopo il Viaggio de Leuche (1691-92) e prima de La rassa a bute (1730 circa), Nniccu Furcedda (1730 circa) e Juneide (1770-71), tutti studiati e definitivamente sistemati da Mario Marti nel volume sul Settecento della Letteratura dialettale salentina, da lui curato nel 1994. Esso quindi arricchisce ulteriormente il già folto panorama di questa particolare produzione letteraria delineato proprio da Valli, nel 2003, nella sua fondamentale Storia della poesia dialettale nel Salento.
La canzone è in forma di dialogo fra tre personaggi: due popolani, Lazzaru e Totaru, e un altro “dottor fisico”, Messere Fedocco, raffigurato secondo lo stereotipo del “pedante”. Quest’ultimo espone la tesi della innocuità del vino gessato in un linguaggio pomposo e tecnico, che gli altri due fraintendono spesso, come quando Lazzaru confonde “chimici” con “cimici” e Totaru la “materia” fisica con il “pus” che fuoriesce dalle ferite del corpo umano. Anche le sue argomentazioni non riescono a convincerli affatto, tanto è vero che alla fine i due preferiscono tagliar corto con il loro interlocutore e recarsi alla mescita per bere del buon vino genuino.
Ciò che colpisce maggiormente, nella composizione, è la perizia tecnico-formale dell’autore che usa in maniera consapevole il dialetto a fini letterari, ricorrendo spesso alle deformazioni e alle alterazioni lessicali anche per motivi metrici. Spiccano inoltre espressioni e termini particolarmente coloriti messi in bocca ai due personaggi plebei, che costituiscono una sorta di controcanto ironico alla lingua usata dallo scienziato-pedante.
Donato Valli pubblica questa composita operetta inquadrandola nel contesto storico-letterario del tempo, individuandone i principali modelli e commentando i passi più oscuri con accurate note. In tal modo guida il lettore alla comprensione di questo originale testo che ci trasporta di colpo nella Lecce tardobarocca del primo Settecento, tra dotte sedute accademiche e abbondanti bevute di vino nelle “putee”, ovverosia nelle bettole cittadine.
[«Corriere del Mezzogiorno», 6 gennaio 2007: poi in A. L. Giannone, Modernità del Salento, Galatina, Congedo, 2009]