Riflessioni non scientifiche su Scelsi il mare di Giuseppe Conte, per gli amici Peppino

La vita però non è statica, non permette spazi di contemplazioni. La vita è viaggio, è allontanamento e «senza l’ostinazione della fuga forse/ ci sarebbero più sogni/ e i folli un poco si aggrapperebbero/ alla certezza degli eventi». Ma fuga da che? da chi? perché? Il poeta cerca la libertà di cui è metafora lo spazio marino che, pur nella sua libertà imprevedibile, è rigoglio di vita e di vite. Anche il poeta ha Il sogno della libertà. E poi? Poi la morte, altro evento collegato agli spazi bleu-azzurri dell’oceano. Ma: «quando il poeta muore/ attendilo  fuori da ogni storia/ sotto i ponti della notte/ accanto ad ogni puttana/ cercalo magari nel firmamento degli ultimi/ nella loro disperazione/ nei loro grandi sorrisi comunque/ colorati».  Il poeta non muore mai perché può essere rintracciato ovunque, anche tra i derelitti, tra coloro che debbono vendersi il corpo per sopravvivere. Ma il poeta dà sempre «un colore alla vita». La pensosità apparentemente rassegnata, e certamente laica di Conte, non si attende per i poeti né paradisi né corone nella vita o dopo la vita.

La terra e la vita sono gli spazi che possono gratificarci e costruire un percorso, se non di felicità, di motivazioni vere e vitali che danno ossigeno alla nostra anima. Qui è ancora la donna l’orizzonte salvifico e rassicurante. A volte, sì «a volte mi succede/ di cercare/ il tuo volto nelle pietre/ il tuo sorriso che s’apre tra le/ foglie d’arancio/ o accovacciata sulla roccia senza/ segreti». Ma chi è questa donna? Lui la individua: «mentre mi sfiori/ e mi scavi la mente/ senza poterci possedere se non/ a tratti ma infinitamente/ nuda di veli e appena appena mi lasci/ per correre e non averti più mia»: questa donna è la poesia e la poesia è donna. Ma stiamo attenti, sembra dirci il poeta, c’è l’eros narrato dalla poesia, la stessa poesia è l’eros: «e mi affido al tuo respiro/ per aprire il primo verso/ per non sentirmi solo di fronte/ alle parole/ all’inganno della poesia». Allora la poesia come placebo, come oppio che inganna? Essere in questa storia, che non è una storia tra le tante storie di ogni soggetto, ma è storia che vive l’uomo, ha delle conseguenze: «talvolta il cuore ci nega/ la pietà/ o anche l’indifferenza».

Vivere, insomma, è come stare ai margini di ogni verso, di ogni frase. La vita si prolunga all’interno della creazione lirica: «nell’erba di ogni nuova parola/ dimora l’anima della poesia/ il vecchio prodigio della vita».

Ma dove viviamo noi? La scelta simbolica del mare non fa dimenticare, al poeta e alla poesia, che viviamo, comunque, in un mondo-giardino, anche se «non c’è nella notte la traduzione delle farfalle/ naufragano in un alfabeto invisibile/ anche le albicocche» e «le grammatiche del grano si sgranano a chicchi». Solo in questo giardino ha un senso l’innamorarsi e l’amarsi: «credo nell’unico volo possibile/ dal sapore di mentastra e di ginestra/ in questa terra dove tu ed io/ primavera/ troviamo ancora qualche ardore possibile/ qualche foglia di stupore per saperci innamorare/ per saperci vivere// a scanso di tutto». Come detto prima, donna come poesia e poesia come donna. Insipienza del lettore o strategia espressiva del poeta? La cosa non cambia, direbbero i censori e i critici togati. Ma è bene che il lettore comune viva in queste reti di senso e di significati.

Lo stesso autore pare perplesso: si sente insieme soggetto-autore e mezzo inconsapevole di strategie meta-umane, perché la vita «in fondo/ non è qui/ nell’incessante comando/ di questa mia penna/ che lega con segni imperfetti/ piccole vaghe eternità/ per farle sembrare leggere», ma è solo un gioco del poeta disincantato, come avrebbe detto Sergio Corazzini parlando della «desolazione del povero poeta sentimentale».

Ma in questa raccolta di Giuseppe Conte non è assolutamente desolazione, ma soddisfazione se non gioia di vivere, perché c’è la consapevolezza che la poesia è continua, paradossale creazione del mondo e della vita. E qui c’è la comunità degli elementi: «devo molto/ ai passeri del mio giardino/ che scoppiano in risa fragorose/ ed io mi sento d’ostacolo/ quando tento di prendere in prestito/ le loro piume d’amore/ per farne poesie colorate/ o chiudere ferite ancora aperte».

Quindi, il congedo dedicato alla sua poesia, ed è un congedo di un uomo ad una realtà che si avverte femminile, per la dolcezza, per la sopportazione che essa manifesta: «mia poesia/ entro in te da nessuna/ porta con nessuna chiave/ a volte con forza/ rompendo le vetrate/ sventrando le finestre tagliandomi/ le mani/ bellezza delle sofferenza/ gridando i tuoi miracoli assurdi/ i tuoi sconcerti di donna/ le tue disarmonie colorate/ i tuoi ferimenti d’amante».

Allora, Conte è arrivato ad un punto alto non solo della sua poesia ma anche dell’essenza fenomenologica della scrittura poetica. E ce ha donato questo panorama non, heideggerianamente, con importanti però da decrittare capitoli filosofici, ma prendendoci per mano da amici e percorrendo verso per verso della sua raccolta per indicarci «in re» percorsi, attese, narrazioni dell’esistenza che servono, al non poeta, per avviarsi verso la zona in cui la poesia è sì racconto, ma anche seme fecondo che entra nel lettore per far germogliare, anche in lui, chicchi di poesia che forse dentro diventeranno spighe  di vissuti che aiutano ad affrontare l’indigenza interiore del nostro esserci.

Lecce, 6 maggio 2014

[“Il Titano”. Supplemento economico de “Il Galatino” n. 12 del 26 giugno 2014, pp. 40-41]

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