Riflessioni non scientifiche su Scelsi il mare di Giuseppe Conte, per gli amici Peppino

di Giovanni Invitto

Giorni fa ho chiuso uno scritto su Nicola De Donno, docente di filosofia, preside di Liceo, poeta in vernacolo, scomparso un po’ di anni fa. Lo scritto che mi è stato richiesto per telefono da una persona che non si è fatta più viva. Poco dopo ho ricevuto il libro di poesie di Giuseppe-Peppino Conte, Scelsi il mare (nozioni di presenza) («edizioni del pescecapone», con sede in Serrano). Il dono dei suoi libri di poesia e un foglio nel quale io narro le mie suggestione durante la lettura sono divenuti una prassi alla quale nessuno dei due, autore e lettore, vuole rinunziare. La dedica manoscritta recita: «è per Giovanni, fraterno amico, per i dettagli che ci legano alla poesia». Ciò che ci lega alla poesia è costituito, in primis, come direbbe un avvocato, da «L’olio della poesia», nato da una mia idea nel 1996 (se non erro) e realizzato sempre da Conte con crescenti successi.

Inutile dire che ho letto il nuovo libro di poesie con la stessa avidità con cui bevo il caffè a prima mattina. L’idea complessiva e «a pelle» che ho ricavato è quella di un Conte-poeta che sta rileggendo l’esistenza in alcuni passaggi della vita che sono focali e che richiedono un dialogo continuo con se stesso. Quello che posso dire, nella mia abusiva veste di lettore ed ermeneuta di poesie, è che ho trovato in questa raccolta un Conte molto più riflessivo, molto più compositivo, rispetto al generale contesto e alla condizione umana che ci vede comunque andare avanti, con la consapevolezza che stiamo lasciando umori, colori, vissuti emotivi e affettivi che prima ci costituivano. Non voglio dire che ora, in questa silloge, non si incontri l’uomo e il poeta di sempre, ma lo si trova con venature che prima, probabilmente, non avvertivamo. Per altre cose molto più esistenzialmente più dure, la sapienza millenaria della Chiesa dice: «Vita mutatur non tollitur».

Così è la poesia di Giuseppe: potremmo dire che è mutata, ma troviamo sempre lo stesso afflato, lo stesso orizzonte di chi si sente vivo, pieno di affetti e di sensazioni, attivo all’interno del suo orizzonte e perimetro lirico come trent’anni fa. Qui sin dal titolo partiamo dal discorso del mare, cioè di uno spazio immenso che nasconde la vita di cui è custode ma di cui è anche alimentatore. L’incipit della raccolta è un programma drastico, duro, senza ritorni del poeta e dell’uomo: «non finirò di scrivere sul mare» un mare «da cuore cupo e mattutino». Ma, volendo, il mare è anche, in questa raccolta poetica, metafora della donna accogliente e, insieme, alimentatrice di vita. E la donna è lì, in queste poesie, con una presenza insieme ineludibile e discreta: «la sua voce dai denti stretti/ sulle labbra carne d’amore/ che affonda nel bacio/ e sfiora il seno rotondo della fanciulla/ quasi donna quasi amante».

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