Di mestiere faccio il linguista 20. Cinema, lingua e dialetti negli anni del miracolo economico

In quegli anni il pubblico del cinema acquista una consapevolezza linguistica crescente. Da ricevente semianalfabeta che comunicava esclusivamente in dialetto e leggeva a malapena le didascalie dei film muti, lo spettatore diventa un utente maturo, in grado di comprendere e apprezzare il diversificato repertorio verbale di codici e di registri, capace di riconoscere la variabilità della lingua (che non è uniforme e non è solo quella letteraria) e di accettare la presenza dei dialetti all’interno delle diverse forme della comunicazione. Negli anni del miracolo economico il genere cinematografico italiano per eccellenza è  la commedia all’italiana.  La quotidianità che il cinema descrive, talvolta un po’ distorta ma non per questo meno vera,  riflette i pregi e i difetti dell’italiano medio. L’italiano medio portato sullo schermo è un personaggio per molti aspetti negativo che, nonostante i suoi difetti, piace allo spettatore con cui instaura un rapporto di complicità. La commedia all’italiana commenta le disgrazie e i mali della società, mettendo in mostra i problemi del paese e nel contempo prendendone le distanze, attraverso il velo comico e satirico. Film come I soliti ignoti (M. Monicelli 1958), Audace colpo dei soliti ignoti (N. Loy 1959), La grande guerra (M. Monicelli 1959), Il vedovo (D. Risi1959), Divorzio all’italiana (P. Germi 1962), Mafioso (A. Lattuada 1962), Il sorpasso (D.Risi 1962), Ieri, oggi, domani (episodio Anna, V. de Sica 1963), Sedotta e abbandonata (P. Germi 1964), La ragazza con la pistola (M. Monicelli 1968) si caratterizzano per l’uso mimetico delle molteplici varietà di italiano e per lo sfruttamento espressivo di peculiarità dialettali. Quando ricorre nel cinema, la dialettalità va intesa in senso lato: il dialetto non è rappresentazione fedele della realtà, ma costituisce un punto di equilibrio tra valori espressivi e ragioni comunicative.

Al contrario dei film elencati sopra, «L’armata Brancaleone» non narra una vicenda della contemporaneità, arretra nel tempo fino a un Medioevo fantastico e stravolto che, con la mescolanza e l’incontro delle parlate provenienti da varie parti della Penisola,  riflette l’identità plurale e l’essenza profonda dell’Italia medievale. La coesistenza, continua per tutto il film, tra italiano preletterario e ipercaratterizzato che segna la parlata dei protagonisti di livello elevato (cavalieri, chierici, dame) e l’accumulo di varietà dialettali, con tratti arcaizzanti, utilizzate da personaggi dei ceti meno elevati (villani, artigiani, soldati) mette in mostra le potenzialità espressive e comiche del prodotto linguistico così ottenuto, che esalta plurilinguismo e regionalità, componenti fondamentali della nostra storia.

In una delle scene iniziali, da cui la vicenda si dipana, un gruppetto di quattro malandrini male in arnese viene in possesso di una pergamena, sottratta a un cavaliere assassinato.  Con questa pergamena il sovrano «Ottone detto l’attaccabrighe» concede  al possessore del documento il feudo di Aurocastro. Gli sciagurati vogliono sfruttare a loro vantaggio la concessione feudale garantita dal documento regale, ma non è verosimile che uno di loro si atteggi a cavaliere, non sarebbe credibile. Pertanto il gruppo, all’occasione capitanato da Zeffirino Abacuc, ebreo e robivecchi, l’unico dei quattro che sa leggere,  decide di offrire questa possibilità al primo cavaliere che capita a tiro, in questo caso Brancaleone da Norcia, a condizione che il beneficato spartisca con loro i prevedibili vantaggi. Ecco alcune battute dell’incontro:

Zeffirino: «Cavaliere, tenemo ricca offerta per te […]. Noi avessimo questa pergamena da uno grande e nobile cavaliero, che ce la dette in punto di morte.  Ora noi offriamo a te, cavaliere ardito e  sanza macchia…»;  Mangoldo (un altro dei quattro, la cui lingua presenta venature settentrionali): «…e sanza palanche…»;  Zeffirino: «…la ventura di prendere possesso del ricco feudo e della rocca di Aurocastro, al patto che tu fai gran giuramento di spartire ogni ricchezza ed ogni bene con tutti noi»; Brancaleone: «Voi sapete chi io sia?»; Pecoro (un altro dei quattro, la cui lingua presenta caratteri di tipo altolaziale): «None»;  Brancaleone: «Avrete sentuto, suppongo,  lo nome di Groppone da Figulle»;  Mangoldo: «Mai coverto»;   Brancaleone: «Groppone da Figulle   fu lo più grande capitano di Tuscia  e io sono colui che con un sol colpo d’ascia lo tagliò in due. Lo mio  nome, state attenti, lo mio nome est Brancaleone da Norcia». 

Il fittizio italiano antico, farcito di stravolgimenti intenzionali  (avessimo, cavaliero, sentuto, est),  e gli inserti dialettali  di immediato riconoscimento (sanza palanche, none,  mai coverto) risvegliano una serie di connotazioni che aiutano nella caratterizzazione dei personaggi producendo un indubbio effetto comico. Questa rappresentazione linguistica non serve a rappresentare filologicamente il reale ma a trasmettere in modo efficace e divertente una situazione inventata.  Lo spettatore non vede «L’armata Brancaleone» per conoscere quale effettivamente era la situazione linguistica dell’Italia medievale, ma per sorridere bonariamente e divertirsi. 

E per riflettere su lingua e dialetti, del medioevo e di oggi.

                                              [“Nuovo Quotidiano di Puglia” del 20 febbraio 2022]                      

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